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Capitolo 9: Il pianoforte oggi (IIa parte)
di Claudio Angeleri
info@cdpm.it

Sul versante "americano" di tradizione nera, derivato direttamente dal bebop, si colloca il pianista Kenny Barron. Barron è attivo sulla scena jazzistica dai primi anni sessanta anche se è balzato sulla ribalta internazionale solo recentemente, vincendo le più importanti graduatorie jazzistiche.

I
n lui si intravede chiaramente la lezione di Bud Powell, così come il blues feeling moderno di Wynton Kelly, oltre all'influenza non indifferente di Thelonious Monk. Ha dato vita per anni ad un gruppo, Sphere, dedicato alla musica di Monk di cui faceva parte anche l'ex compagno di Monk, Charlie Rouse.

Lo stile di Barron è comunque in continua evoluzione ed ascesa e riserva sempre nuove sorprese. Nel suo fraseggio si può scoprire ad esempio l'approccio modale di Tyner, o le influenze dei suoi coetanei (Hancock, Corea...) o ancora il gusto per la ballad di Bill Evans e le qualità di grande accompagnatore di Wynton Kelly.

A tal proposito risulta esemplare il disco registrato in duo con il tenorista Stan Getz nel 1991 al Cafè Montmartre di Copenhagen in cui Barron mette in mostra tutte le sue qualità.

Nell'accompagnamento Barron usa spesso un voicing aperto realizzato da due intervalli di nona sovrapposti.

Barron ha saputo ritagliarsi una posizione di rilievo nella dimensione del trio, affrontato secondo una logica nera in cui il pianoforte riveste it ruolo principale accompagnato da ritmiche di altissima qualità: Victor Lewis - Rufus Reid o Ben Riley - Ray Drummond.
È interessante notare come, con la prima ritmica, Barron si sposti spesso su un versante più modale mentre con la seconda rimanga più vicino al lessico bebop.


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Sul versante americano "bianco" fa scuola Keith Jarrett, anche se la sua personalità, il talento pianistico e la completezza della cultura musicale lo collocano in una dimensione creativa di stampo decisamente europeo.

L'Europa è presente in lui nelle concezioni musicali tardo-romantiche della sua musica che si riflettono inevitabilmente in una completa immedesimazione dell'evento sonoro. Per questo in lui l'improvvisazione è più che mai creazione istantanea, sempre nuova e diversa, senza alcun ricorso a cliché o frasi predefinite. L'improvvisazione è perciò melodia pura.

Jarrett si cimenta spesso con il repertorio classico di Bach, Skrjabin e Rachmaninoff portando le atmosfere impressioniste di Debussy nei suoi piani solo o nelle introduzioni degli standards.

Proprio per questa sua tendenza Jarrett è associato ad un altro grande romantico del jazz, Bill Evans, di cui ha saputo cogliere e sviluppare la dimensione aperta del trio con basso e batteria.

I
n Jarrett si coglie anche l'influenza di un altro bianco, Paul Bley, le cui atmosfere vengono rievocate nei primi lavori con Charlie Haden e Paul Motian, a cui Jarrett aggiunge spesso la voce del sax tenore di Dewey Redman (collaboratore di Ornette Coleman).

Un'altra tappa importante per il pianista viene vissuta direttamente in Europa e precisamente nei paesi scandinavi ove Jarrett non solo incide (gli studi della etichetta ECM sono ad Oslo) ma collabora con tre fuoriclasse nordici: il sassofonista Jan Garbarek, il batterista Jon Christensen e il bassista Palle Danielsson. Quindi si giunge all'attuale acclamatissimo trio con Jack De Johnette e Gary Peacock.

Prima però di affrontare la sua produzione più recente facciamo un passo indietro notando che Jarrett è stato l'unico pianista di una lunghissima serie a non rimanere contagiato in modo significativo dall'esperienza di Davis. Le motivazioni sono molteplici, partendo dal fatto che Jarrett non si è mai trovato molto a suo agio in situazioni elettriche e che la sua personalità egocentrica e individualista ha portato il pianista a privilegiare dei contesti in cui potersi mettere in evidenza (fortunatamente con grandi esiti artistici).

Per quanto riguarda la sua formazione c'è da segnalare l'espulsione dal celebre Berklee College Of Music di Boston, a riprova ulteriore del carattere difficile di Jarrett, e il debutto con il quartetto del sassofonista Charles Lloyd.

Con Lloyd, Jarrett ha occasione di farsi conoscere a livello internazionale anche attraverso la ricca produzione discografica del sassofonista americano.

Rimane nella storia il break di Jarrett nel brano Forest Flower, sia per l'impressionante velocità esecutiva che per varietà di idee concentrate in poche battute. Sempre nel quartetto di Lloyd, Jarrett stringe amicizia con il batterista De Johnette che è anche un ottimo pianista. Proprio da questa qualità di Johnette scaturiscono i presupposti rivoluzionari del trio degli anni ottanta.

Il gruppo si muove essenzialmente sul terreno degli standards rivisti ed elaborati in grande libertà anche se la scomposizione ritmica è il tratto più caratteristico e straordinario reso possibile dall'affiatamento tra i tre musicisti e dalle qualità tecniche ma, soprattutto, dall'atteggiamento anticonvenzionale di De Johnette che può prendere degli enormi rischi proprio per la perfetta conoscenza armonica e melodica del pianoforte.


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Un pianista vicino all'estetica di Bill Evans è il francese Michel Petrucciani.

Nato nel 1964, ha avuto modo anche lui di suonare con Charles Lloyd proseguendo in parte l'eredità lasciata da Keith Jarrett.

Nonostante un grave handicap fisico, Petrucciani ha elaborato una tecnica straordinaria caratterizzata da un notevole senso ritmico (si noti la scomposizione ritmica in tre quarti nella trascrizione di Beautiful Love) e da raffinatezze armoniche di stampo evansiano.

Nel 1986 registra in duo e in trio al festival di Montreaux con il chitarrista Jim Hall e il sassofonista Wayne Shorter (Power of three) di fronte a 3500 persone accorse soprattutto per ascoltare i gruppi in programma nella stessa serata (il McCoy Tyner group con Hubbard, Scofield e Joe Henderson, il quartetto di Wayne Shorter, la solo performance di Al di Meola). Petrucciani, allora ventitreenne, non si lasciò impressionare dal confronto ottenendo un successo così straordinario che l'etichetta Blue Note volle ricavarne un disco tra i più belli e ricercati dell'ultima produzione.


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Negli Stati Uniti si sono recentemente messi in evidenza i pianisti Kenny Kirkland, Marcus Roberts, Bennie Green, Stephen Scott, Joe Calderazzo, Uri Caine mentre sul versante latin-salsa Michel Camilo e Gonzalo Rubalcaba. Russell Ferrante (Yellow Jackets) e Dave Grusin si muovono sul terreno della fusion pur introducendo spesso nelle loro improvvisazioni il linguaggio jazzistico di stretta osservanza bebop modernizzato dal suono del sintetizzatore.

I paesi europei, oltre ad ospitare numerosi musicisti americani, possono contare su un cospicuo numero di pianisti. La Francia, oltre al già citato Petrucciani, ha dato i natali a Martial Solal, l'Inghilterra a Gordon Beck (già con Phil Woods), John Taylor e Stan Tracey, l'Olanda al tastierista Jasper Van't Hof, la Svizzera a George Gruntz (anche lui con Phil Woods), la Svezia a Bobo Stenson, la Spagna a Tete Montoliu, la Russia a Simon Nabatov, la Germania a Joachim Kuhn, Alex Von Schlippenbach e Wolfang Dauner.

Per quanto riguarda l'Italia occorre fare un discorso più complesso non solo per doveri patriottici, ma soprattutto per la lunga tradizione vantata dal nostro paese proprio nel pianoforte jazz. Oltre al già citato Gaslini, da tempo affermato a livello mondiale, i pianisti Franco D'andrea e Enrico Pieranunzi rappresentano in modo esemplare l'altissimo livello raggiunto dai jazzisti di casa nostra. Nello stile di D'Andrea si possono intravedere molte influenze: il bebop di Powell (visto attraverso l'esperienza dei californiani Hawes, Freeman, Jolly), il jazz modale di Hancock e Tyner, l'armonizzazione di Evans, lo stride piano arcaico... anche se, data la sua statura internazionale, sarebbe più corretto parlare di un vero e proprio "stile D'Andrea".

Enrico Pieranunzi ha alle spalle un background classico di tutto rispetto (insegna pianoforte principale al Conservatorio) che ha saputo ben integrare e indirizzare nel jazz moderno. Il suo riferimento principale è Bill Evans di cui, soprattutto in passato, ha sposato in pieno l'estetica e l'approccio pianistico. Più recentemente, grazie alla riscoperta di Chick Corea, Pieranunzi ha messo a punto uno stile modernissimo, a tratti atonale, in cui l'aspetto ritmico e la padronanza completa della tastiera e dell'elemento armonico lo pongono in una posizione di assoluto rilievo. Come D'Andrea, Pieranunzi è un ottimo compositore. È inoltre l'unico italiano di cui sia stata pubblicata una composizione sul Real Book, la bibbia delle composizioni di jazz di tutti i tempi.

Particolarmente significativa è la produzione di Enrico Intra, che oltre alla felice collaborazione pluriennale con Franco Cerri, ha al suo attivo una notevole produzione discografica e compositiva. Enfant prodige negli anni '50, si è dedicato alla musica contemporanea, ai corali liturgici e alla dimensione multimediale (ha sonorizzato dal vivo il film muto di Murnau, Nosferatu). Il suo stile è attualmente molto avanzato, collocandosi a metà tra l'esperienza Evans-Jarrett e l'approccio libertario di Taylor con una predilezione particolare per i preludi e la tecnica, tanto straordinaria quanto poco utilizzata, per l'improvvisazione a block chords di cui è un autentico maestro.

Sebbene l'argomento necessiti di costanti aggiornamenti in tempo reale, occorre comunque ricordare: Guido Manusardi, Riccardo Zegna, Stefano Battaglia, Antonello Salis, Danilo Rea, Dado Moroni, Andrea Pozza, Antonio Faraò, Stefano Bollani.

to be continued...






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Data pubblicazione: 08/07/2005

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