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Intervista a Claudio Angeleri
21 gennaio 2007 - MIlano
di Ugo Galelli

Dato il successo riscontrato e la continua riproposizione live che avviene di frequente, torniamo ad occuparci del lavoro di Claudio Angeleri su "Le città invisibili" di Calvino. Lo incontriamo proprio in occasione dell'esibizione che si è avuta il 21 gennaio 2007 a MIlano presso il teatro Edi Barrio's nell'ambito della rassegna "Il ritmo della città", insieme ad ospiti del calibro di Franco Ambrosetti e Bob Mintzer.

U.C.: Allora parliamo del progetto sulle città invisibili, che mi ha lasciato davvero entusiasta, tanto da dedicargli un saggio. Ma da cosa nasce l'idea di questo progetto, secondo me sempre più attuale?
C.A.: Dunque nasce dalla mostra che ho visto qualche anno fa alla triennale di Milano appunto sulle città invisibili; un lavoro secondo me straordinario dal punto di vista grafico, ma anche concettuale. E guardando quella mostra, la cosa che mancava era la musica (dicevo, bella, ma manca la musica); e allora mi sono concentrato sul fatto di scrivere questo lavoro; cercando però di fare un lavoro che credo sia abbastanza unico. Cioè il fatto di utilizzare le parole dal punto di vista musicale, e la musica dal punto di vista descrittivo; infatti, proprio all'interno della partitura sono inseriti i testi, estrapolati dal libro.

U.C.: Gli attori hanno gli spartiti sott'occhio?
C.A.: Certo! Perché è proprio nella partitura la parte del testo di Calvino, inserita come se fosse un quinto strumento. Non solo ma ad esempio in Smeraldina, che dovrebbe ricordare Venezia ci sono questi diversi percorsi: quello d'acqua, d'aria e di terra che si intrecciano. Per creare questo intreccio che rende misteriose queste città abbiamo utilizzato la voce cantata, la voce parlata e la voce strumentale del fiato. Tre percorsi strumentali che si intrecciano.

U.C.: Il libro di Calvino lei lo ha letto da piccolo, oppure dopo aver visto la mostra?
C.A.: Da piccolo quindi più o meno durante l'unità d'Italia… Io e Garibaldi… no scherzo. Il discorso è che io ho un passato, del quale non mi vergogno, da architetto. Nel senso che sono laureato in architettura anche se non ho mai praticato questa professione. Contemporaneamente io suonavo e poi magari avevo più talento credo come musicista. Per cui le città invisibili negli anni settanta quando io frequentavo l'università, erano un libro cult di quegli anni e quindi da lì nacque l'idea. È nata anche da un altro aspetto, legato all'utilizzo della luce. Perché c'è un festival di cui io sono direttore artistico, che si chiama Notti di Luce organizzato dalla camera di commercio di Bergamo, che era basato sull'utilizzo della luce, sia dal punto di vista della realizzazione degli spazi, e sia dal punto di vista spettacolare. E quell' edizione si chiamava "la città e gli occhi"; quindi una cosa molto visiva, e forse c'è una cosa che magari non si sa, riguardo alle città invisibili: Erano descritte da Calvino nel periodo parigino, negli anni settanta. In quegli anni la torre Eiffel era ancora spenta, non illuminata; quindi lo skyline della città era totalmente diverso. Quando poi hanno illuminato la torre Eiffel è cambiato totalmente lo scenario della città. Da li io credo che Calvino abbia meditato sul fatto di raccogliere tutti questi appunti di tanti viaggi in un libro. Quindi c'era questa presenza della torre che non si vedeva, e con la luce ha preso vita una nuova dimensione.



U.C.: E sempre sul discorso della luce, al giorno d'oggi sono sempre più comuni spettacoli musicali e teatrali con giochi di luce molto accentuati, ad esempio il lavoro fatto dai Gotan Project che ha fatto uno spettacolo davanti ad un telo bianco giocando con le luci in una collaborazione con gli strumenti. Nella sua prima edizione ha presentato il progetto sotto forma di spettacolo di luce. Quanta importanza ha per lei questo?
C.A.: C'è un aspetto dell'utilizzo della luce che si sta maturando in questi anni, che è un po' diverso rispetto ad altri. Di solito si tenta di fare uno spettacolo con utilizzo della luce in stile Broadway, ma in realtà il discorso della luce nelle città è diverso. C'è un inquinamento della luce pazzesco. Quindi o vai sopra le luci, oppure l'idea è quella di spegnere. Spengere tutto e utilizzare le luci con molta parsimonia, usando bene gli spazi. In una maniera un po' "monkiana". Dobbiamo riuscire ad utilizzare chiari e scuri. Avere della musica e avere delle pause, che creano attesa rispetto alla musica. Quindi questo magari è un po' controcorrente. All'interno della manifestazione notti di luce si spegne interamente una piazza fatta eccezione per l'illuminazione di una facciata, al fine di concentrare l'attenzione dei fruitori su un particolare che non avrebbero notato altrimenti. Sempre più spesso adesso si sovrappongono disegni architettonici su architetture già esistenti, che creano confusione; invece l'architettura a mio parere deve essere semplicemente illuminata. Una purezza del segno che si ritrova all'interno della musica.

U.C.: Trovo in questa purezza del segno un paragone artistico con il lavoro di Paul Klee, specialmente nella città sottile. Che ne pensa?
C.A.: È interessante questa cosa che tu hai detto su Klee, perché in effetti pensandoci bene, è molto molto legato. Ma anche alcune cose di Mondrian, per altre città; ho visto di recente una mostra molto interessante di Mondrian, a Brescia, dove c'era tutta la parte figurativa che io non conoscevo.

U.C.: Venendo ad Armilla, la città sui tubi, trovo invece un paragone con Leger. Con questa sua cultura "tubista" delle donne fluttuanti tra i tubi, a mio parere viene bene collocato come possibile architetto di Armilla.
C.A.: Si senza dubbio, il paragone è legittimo. questo è un libro molto visivo, anche se i testi di Calvino non sono teatrali; le sue parole devono essere lette, rilette e approfondite, come se fossero una poesia. Quindi il lavoro che è stato fatto con Mario Bertasa, che ha fatto un lavoro straordinario, è quello di entrare in profondità nel testo e utilizzarlo musicalmente per il suono, con alcune parole chiave, alcune frasi chiave del racconto. Infatti a parte un paio (despina città doppia) non utilizziamo totalmente il testo. È sempre un estratto del brano.

U.C.: Prima del progetto "musiche dalle città invisibili" ha realizzato altri progetti, come ad esempio il lavoro sul "principe felice" di Oscar Wilde. Crede che continuerà su questa strada della musica nel romanzo?
C.A.: Questa per adesso è un idea: un lavoro molto bello che abbiamo fatto, senza dubbio riuscito. Questo discorso ci ha totalmente coinvolto. Ho fatto un lavoro sul beat e sulla beat generation con l'amico Lawrence Ferlinghetti, e un lavoro su Alfonsina Storni, poetessa svizzera argentina, realizzato con Ambrosetti, e questo è stato un lavoro giocato su questo calore della terra argentina, su queste poesie meravigliose di un autrice purtroppo poco nota in Italia (al contrario in argentina è molto popolare), con una storia davvero incredibile; e da li ho scritto delle musiche insieme ad Ambrosetti, da cui è nato uno spettacolo. Quindi si, ci stiamo lavorando. Adesso c'è anche una cosa molto ironica che faremo da febbraio, sempre con Silli Togni, (la nostra attrice) che si chiama Ricetteros, una serie di ricette di cucina legate a delle poesie erotiche; la cosa incredibile è che i brani musicali eseguiti dal vivo, insieme agli attori, sono accompagnati da un cuoco, che presenzia sul palco, cucina un risotto straordinario, e infine serve al pubblico in sala.

U.C.: Una vera e propria performance (in stile cena futurista). I giovani hanno bisogno di vedere cose nuove. Ma è vero anche che sono davvero pochi i ragazzi che si avvicinano a questo genere musicale. Secondo lei è un problema del Jazz, o un problema dei giovani, che affrontano l'argomento ‘musica' con pigrizia?
C.A.: Non è un problema del jazz, assolutamente. Perché i jazzisti sono a maggior ragione artisti molto curiosi che hanno sempre fatto dialogare le arti. Invece c'è un altro discorso, riguarda un omogeneità di fondo in certi linguaggi musicali. Io provengo dalla cultura degli anni settanta. Anche nel rock pop c'erano tanti lavori degli Yes dei Genesis, dei King Crimson, che erano legati a diverse performance e diversi linguaggi.

U.C.: Anche i Soft Machine hanno dato un rilevante contributo…
C.A.: Ovvio, anche i Soft Machine. Io sono cresciuto a pane e Soft Machine. Questa è la dimensione nella quale sono nato. Quindi parliamo di jazz, di rapporti interdisciplinari, ma secondo me parliamo in un unico linguaggio. Ecco se noi parliamo di jazz è chiaro che parliamo di una storia, di una tradizione. Di una cultura che ha una grande continuità; però tutto sommato non trovo così sconcertante che il jazz come musica incontri la poesia, il ballo, il movimento…Per me è assolutamente una cosa normale; quasi un po' greca, nelle forme di espressione.

U.C.:  A proposito di Smeraldina, volevo citare un passo del romanzo, nel dialogo tra Polo e il Gran Kan, in cui Polo si rivolge al Kan:

"Ne resta una [città] di cui non parli mai.". Marco Polo chinò il capo.
"Venezia", disse il Kan
Marco sorrise. "E di che altro credevi che ti parlassi?"
L'imperatore non batté ciglio. "Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome."
E Polo: "Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia."'

Lei sente di parlare inconsciamente di Venezia? Questa città magica che rimane sospesa sull'acqua…

C.A.: Si, assolutamente, tra l'altro era veramente tanto tempo che io non andavo a Venezia, e devo dire che l'ho riscoperta concettualmente proprio leggendo Smeraldina. Quello che mi piaceva era questo discorso delle città d'acqua, ma anche d'aria. Poi anche una città sommersa, quindi con tanti misteri. Dopo aver letto e sviluppato questo lavoro su Smeraldina sono stato a Venezia, l'ho vista, anche con una prospettiva totalmente diversa. E penso che ci sia una città assolutamente che ha respirato tutti, e anche Calvino rimane continuamente fulminato da questa magia. Però, ecco, quello che ti voglio dire è che ho cercato di pensare a Venezia, attraverso gli occhi di Calvino (non attraverso le mie esperienze personali), e mi sono accorto che alcune cose erano alcune cose che poi tutti pensiamo.

U.C.: Un ultima domanda, Il suo disco va ascoltato ad occhi aperti o ad occhi chiusi?
C.A.: A me piace moltissimo la dimensione un po' radiofonica; adoro la radio perché c'è la musica, molto presente, c'è, ed è accompagnata dalle parole. Però puoi, appunto far viaggiare la mente e la fantasia, in una dimensione molto interessante.

U.C.: Noi musicisti siamo tutti sognatori, e ci piace ascoltare anche ad occhi chiusi. Anche suonare ad occhi chiusi?
C.A.: Si, senz'altro, perché il discorso dell'immagine è molto complesso. Dobbiamo anche stare molto attenti perché di fatto giungendo alle immagini rischi di dare una visione distorta. Io non mi sono mai specializzato in questo settore, però mi rendo conto che la carica delle immagini, anche per un discorso televisivo, è molto forte. Quando noi abbiamo fatto dei lavori con le immagini, esse risultavano un po' distorte rispetto a come era la musica. Per cui è un lavoro complesso, sul quale potrei lavorare in futuro.










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Data pubblicazione: 07/04/2007

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