Intervista a
Carlo Bagnoli
di Marco Losavio
agosto 2002
In questa intervista
incontriamo Carlo Bagnoli, un
grande nome del Jazz italiano. Innumerevoli collaborazioni, una vita dedicata a
questa musica, tanti ricordi e molta grinta ancora inalterata grazie alla quale
continua ad essere presente ed attivo con molti ensemble.
ML:
Carlo, sono più di
cinquantanni che il tuo nome è associato al jazz. Come hai iniziato e
quando hai scelto di fare il jazzista?
CB:
E' vero. Sono cinquant'anni che il
mio nome è associato al jazz.
Ho iniziato la mia avventura musicale a tredici anni,
studiando la chitarra classica. A diciassette anni ho cominciato a interessarmi
al jazz, soprattutto al jazz tradizionale, ed ho acquistato un banjo, che ho
studiato affrettando i tempi perché l'entusiasmo era tanto e la voglia di
iniziare a suonare era, come puoi immaginare, altissima. Qualche mese dopo,
assieme ad Alberti e Acocella, costituimmo la Milan College
Jazz Society, un gruppo che sarebbe diventato, in tempi brevissimi, una
delle formazioni più apprezzate e richieste in Italia. La fortuna della band
derivava dal fatto che il suo linguaggio era legato al dixieland bianco del
periodo chicagoano ma, soprattutto, a quello dei condoniani, linguaggio che,
fino a quel momento, nessuno aveva ancora percorso, almeno in Italia. Si
trattava quindi di un jazz tradizionale molto fresco, agile, stilisticamente
proiettato un poco più avanti di quanto fatto dagli altri gruppi.
Era quindi inevitabile, e logico, che a un certo punto il
banjo cominciava ad andare un po' stretto allo stile della band ed a me in
particolare. Per questa ragione passai alla chitarra, che suonai per parecchi
anni. Fu soltanto diverso tempo dopo che cominciai ad avvicinarmi ai sassofoni.
Dapprima al sax tenore, che però abbandonai quasi subito per passare al soprano,
strumento molto usato nel jazz tradizionale. Molto più tardi, nel 1970, passai
al sax baritono, strumento che lo sentivo più congeniale e col quale ottenni una
certa notorietà.
Oggi al baritono alterno il soprano e il contralto.
Per quanto riguarda la scelta di diventare un jazzista
devo precisare che, a quei tempi, di solo jazz non si poteva vivere. O si
abbinava al jazz la "professione" del musicista a tutto campo, con la
conseguente disponibilità a suonare di tutto, musica da ballo e commerciale
comprese, o si doveva avere qualche altra alternativa. Io scelsi quest'ultima
opportunità. Avendo alle spalle degli studi di impronta commerciale, risolsi il
problema esistenziale con una attività di tipo commerciale, che mantenni
praticamente fino ad un anno fa. Ma scelsi anche una attività autonoma, che mi
permettesse di gestire il rapporto con il jazz nel modo che ritenevo più
opportuno (tourneè, assenze di giorni o settimane dal luogo di lavoro). Ciò fece
sì che io potessi fare il jazzista in "condominio" con un'altra attività, con il
privilegio di poter scegliere le cose che mi interessavano fare e non prendere
in considerazione altre che non ritenevo interessanti. Attualmente però mi
ritengo musicista professionista a tempo pieno.
ML:
In quel periodo (anni
‘50) il bebop era già da un po' al suo culmine e si cominciava a sentire il cool.
Che influenze hai avuto e quali sono stati i musicisti da cui hai maggiormente
tratto ispirazione?
CB:
In quel periodo cominciarono ad arrivare in Italia i
primi dischi di Charlie Parker e dei boppers. L'impatto fu, a dir poco,
traumatizzante. Non ti nascondo che la maggior parte degli appassionati di jazz,
compresi anche moltissimi musicisti (e io fra questi), fino ad allora abituata
al jazz tradizionale, comprensibile a tutti, o ai suoni più morbidi dello swing
di Benny Goodman,
fu spiazzata da questo nuovo linguaggio frammentato, contorto,
esposto con furia espressiva e con soluzioni armoniche che, allora, parevano
ostiche oltre che provocatorie. Non ti nascondo che molti di noi, presi alla
sprovvista, poco ci capirono. Ma tutti avevamo intuito che si era arrivati a un
bivio e che da quel momento ci si trovava di fronte ad una svolta storica:
l'avvento del jazz moderno. Solo più tardi, con un ascolto attento e privo
di preconcetti, si arrivò a capire la genialità di quel linguaggio e dei suoi
principali protagonisti, artisti dalla enorme creatività e originalità. Per
quanto mi riguarda quel periodo lo considero forse il più importante dell'intera
storia del jazz, perché precursore ed ispiratore a tutto quanto sarebbe avvenuto
dopo. E anche il "cool jazz", che venne subito dopo, pur ammorbidendo
l'approccio espressivo ed estetico del bop (non si dimentichi che il bop
fu prevalentemente un fenomeno musicale nero, mentre il cool jazz fu un fenomeno
prevalentemente bianco, per di più legato ad un'area, quella californiana,
tradizionalmente portata ad una condiscendenza, anche artistica, verso una
audience poco adusata ai toni "duri") ne fu un parente spurio ma comunque
consanguineo.
La fortuna di tutti coloro che sono della mia generazione
è stata enorme. Enorme perché abbiamo avuto la possibilità di seguire tutti
questi passaggi di linguaggi e modi in tempo reale, mano a mano che si
verificavano, assimilandoli progressivamente e naturalmente.
E i personaggi che ne furono i protagonisti rimasero
impressi in tutti noi in modo indelebile, influenzando inevitabilmente il modo
di concepire il jazz e di fare musica di tutti i musicisti.
Parker, per il bop, Chaloff e Mulligan,
per il cool jazz, sono i musicisti che personalmente mi hanno più impressionato
e, inevitabilmente, influenzato, non tanto nel modo di suonare (inarrivabile) ma
nel concepire lo spirito giusto e il corretto approccio allo spirito del jazz
suonato.
ML:
Armstrong – Ellington – Parker. Marcello Rosa ha
sintetizzato in questo trio un po' l'intera evoluzione significativa del jazz.
Sei d'accordo?
CB:
Sostanzialmente sono d'accordo con Marcello, anche se
credo sia doveroso aggiungere un quarto personaggio la cui importanza è stata
enorme in quanto ha impresso al jazz la seconda durissima svolta radicale
(oltretutto legata alla protesta nera dilagata in quegli anni): John Coltrane.
ML:
Nel tuo curriculum ci sono collaborazioni che farebbero rabbrividire
chiunque. Racconta quelle che porterai sempre con te.
CB:
La mia attività ha visto centinaia di collaborazioni con
musicisti italiani e stranieri (soprattutto americani) che ritengo tutte
ugualmente importanti. Sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Ma tutte, non una
esclusa, le porterò sempre con me, perchè da ognuna di queste collaborazioni ho
sempre saputo e voluto trarre degli insegnamenti che hanno contribuito, nel
tempo, ad accrescere la mia formazione musicale e la mia professionalità nel
gestire un mestiere francamente difficile. E se posso dare un consiglio ai
giovani musicisti che si accingono a svolgere questa professione, vorrei loro
suggerire di saper cogliere quei grandi o piccoli insegnamenti che derivano
dalla frequentazione con gli altri musicisti, anche meno bravi di loro. Si
ricordino che non si finisce mai di imparare!
Se proprio devo indicare quelle collaborazioni che più
ricordo con piacere, non posso fare a meno di pensare a quelle avute con i
grandi maestri americani: l'incontro con Louis Armstrong e poi i
concerti, i dischi, le tourneè e le registrazioni di video con musicisti come
Joe Venuti, Bud Freeman, Wild Bill Davison, Sidney Bechet,
Albert Nicholas, Barney Bigard, Harry Sweet Edison, Joe
Newman, Jimmy McPartland, Billy Butterfield, Sir Charles
Thompson, Earl Warren, Eddie Miller, George Masso,
Bob Wilber, Kenny Davern, Jank Lawson, Peanuts Hucko,
Ralph Sutton, Tony Scott, Dick Cary, Gerry Mulligan,
Lee Konitz, Mike Melillo e, tra gli europei, Toots Thielemans
e Albert Mangelsdorf. Ognuna di questa collaborazioni mi ha lasciato
insegnamenti grandi o piccoli che hanno contribuito alla formazione della mia
personalità di musicista.
ML:
Be', però una ce la devi
raccontare: Louis Armstrong!
CB:
Il mio incontro con Louis
Armstrong, al contrario di quelli avuti con gli altri musicisti americani,
incontri tutti organizzati e concordati in precedenza, è stato in un certo senso
casuale, ma vissuto con una intensità emotiva straordinaria, in quanto avvenuto
nel 52, periodo in cui io, giovanissimo, suonavo il banjo nella Milan College
J.S. da poco più di un anno. Armstrong doveva venire a Milano per iniziare una
serie di concerti in Italia. I dirigenti dell'allora Hot Club Milano (Testoni,
Polillo e Maffei) ebbero l'idea di accoglierlo all'aeroporto con le due band
milanesi: la Milan College appunto e la Original Lambro Jazz Band. E così
facemmo. Sistemati sul pianale di un camion debitamente attrezzato con
pianoforte, batteria e cartelli di benvenuto, attendevamo l'arrivo dell'aereo
ala fine della pista di atterraggio. Io ero seduto all'estremità del pianale e
quindi in primissima fila. Quando l'aereo arrivò e Armstrong scese cominciammo a
suonare, aspettandoci al massimo un cenno di saluto da lontano, dopo un viaggio
così lungo e faticoso. Invece, con sorpresa, vedemmo questo straordinario
personaggio liberarsi del nugolo di fotografi e accompagnatori che lo
circondavano e venire deciso verso di noi con l'astuccio della tromba
sottobraccio. Arrivato proprio davanti a me, a circa un metro di distanza,
guardandomi con quei suoi occhi sornioni, estrasse la tromba e si unì a noi.
Puoi immaginare l'emozione provata nel sentirmi venire addosso quei suoni che
tanto mi avevano affascinato nell'ascolto dei suoi dischi. Fatti due o tre
pezzi, venne da me, mi strinse la mano e, di sua iniziativa, mi firmò la pelle
del banjo. Una marea di fotografi ritrasse quella scena. La settimana
successiva, sul settimanale "Europeo", campeggiava una fotografia che ritraeva
Armstrong assieme a me mentre mi firmava il banjo.
ML:
Descrivici un po' la situazione del jazz in Italia
negli anni '50
CB:
Con questa domanda tocchi una corda che mi trasporta in
una sorta di "amarcord" di struggente emozionalità. Quel periodo infatti
(soprattutto gli anni 50) mi ricorda innanzi tutto i primi anni della mia
gioventù (ho iniziato a suonare a diciotto anni, ricordi?) e quindi appartiene
al periodo migliore nella vita di ognuno di noi. A questo aggiungi il mio
inserimento in un mondo musicale a quell'epoca ancora "vergine" e ricco di un
entusiasmo straordinario. Non va dimenticato che nei primi anni 50 la musica dei
giovani era il jazz tradizionale, che frequentavano a frotte i concerti che
facevamo e i locali in cui suonavamo regolarmente e che sarebbero in seguito
divenuti storici: il Santa Tecla e l'Arethusa (mi riferisco
ovviamente alla sola Milano, ma anche in altre città era la stessa cosa).
Ricordo che i teatri di tutta Italia in cui facevamo i concerti erano sempre
affollatissimi di giovani che ci avevano eletto a loro beniamini; in certe
città, al nostro arrivo in stazione (a quei tempi pochi di noi avevano la
macchina e i trasferimenti si facevano in treno), trovavamo la band locale ad
accoglierci; i nostri dischi (i mitici 78 giri) erano tutti venduti in pochi
giorni; la popolarità di ognuno di noi era altissima.
Tutto ciò finì bruscamente nei primi anni 60, con
l'avvento dei Beatles e, successivamente del rock, che dirottarono su di
loro l'attenzione e l'entusiasmo dei giovani, in Italia e nel mondo. E
cominciarono di conseguenza tempi durissimi per il jazz. Per questo motivo il
periodo degli anni 60 lo ricordo poco e male, sovrastato dal rimpianto per il
periodo precedente.
ML:
Chi erano i tuoi colleghi
negli anni '50?
CB:
In quel periodo io suonavo il banjo e la chitarra nella
Milan College e, quindi, i miei colleghi erano i musicisti delle altre band
italiane: quelli della Roman New Orleans Jazz Band, della Original Lambro Jazz
Band e delle band di altre città (poche, per la verità).
Più tardi, quando cominciai a suonare i sassofoni, i miei
colleghi (ma più che colleghi erano maestri inarrivabili) erano i vari Basso,
Volontè, Prete, Masetti, musicisti per i quali ho sempre nutrito grande rispetto
e ammirazione e con i quali ho avuto la fortuna d suonare in diverse
circostanze.
ML:
Negli anni ‘70 sono poi iniziate le contestazioni, da
una parte c'era il rock mentre nel jazz emergevano sempre più esponenti del
free-jazz, la politica quasi si "appropriò" degli eventi maggiormente popolari
e, tra questi, quelli jazz. Purtroppo molti improvvisamente scoprirono di
"saper" suonare il jazz smitizzando e spersonalizzando chi invece questa musica
la conosceva e suonava da tempo. Quale era il clima in Italia e come hai vissuto
tutto questo?
CB:
Quello degli anni '70 fu probabilmente il periodo più
confuso (e dubbio) in tutta la storia del jazz. La protesta giovanile, l'avvento
del free jazz, e la politicizzazione della musica crearono una sorta di zona
franca in cui si fiondarono (non aspettavano altro!) personaggi che con la
musica e, soprattutto, con la capacità di fare musica, non c'entrarono per
niente. Musicisti mediocri, di nessun talento e di nessuna cultura jazzistica,
contrabbandarono in malafede la loro inettitudine musicale e le loro rudimentali
capacità strumentali con un presunto intendimento politico e protestatario con
il quale "rifiutare le regole", tutte le regole, etiche ed estetiche, in nome di
una non ben precisata libertà di espressione di chissà quale intendimento
politico. Ricordo che questi individui accusarono chi allora suonava il jazz
tradizionale, il bop, il californiano (insomma, il jazz vero) di essere dei
conservatori e li bollarono come "provocatori della destra più reazionaria!"
Questo fatto, per chi come me è sempre stato tendenzialmente di sinistra, mi ha
fatto incazzare come poche altre cose nella mia vita! Ma quello che più ci
sorprese fu che buona parte della critica abboccò a questo tranello e cominciò a
sciorinare recensioni che, più che tali, erano comizi politici. Giustamente,
come tu dici nella tua domanda, il jazz venne smitizzato e vennero
spersonalizzati tutti coloro che questa musica la conoscevano e la suonavano da
tempo.
Vorrei tuttavia chiarire che non nego ora, come non
negavo allora, l'importanza storica dell'avvento del free jazz. Tempo fa,
sulle pagine di una rivista specializzata, scrissi un articolo nel quale, cito
testualmente, dissi: "al free jazz ho sempre riconosciuto un suo ruolo
preciso nel contesto socio culturale del tempo", convinzione che condivido
tuttora, così come riconosco l'importanza degli iniziatori storici di questa
corrente e la loro straordinaria capacità innovativa (Coltrane su tutti). Quello
che contesto è che questo movimento (perchè movimento fu, socialmente e
politicamente parlando) diede la possibilità a tanti, tantissimi mistificatori,
musicisti di nessun talento e tecnica strumentale, di spacciarsi come tali.
Insomma, fu quello un periodo che mi ha riempito di
dubbi. Dubbi relativi alla mia capacità di recepire la svolta innovativa che
stava avvenendo (che tuttavia avevo chiaramente percepito), dubbi nel
riconoscere la validità di una protesta politica espressa "in musica" e,
soprattutto, dubbi nel constatare che dei veri e propri impostori venivano
accreditati della qualifica di musicisti che in realtà non erano.
Per buona pace di chi riterrà che io sia un musicista
"chiuso", non ricettivo agli aspetti innovativi che in ogni epoca, e in ogni
campo, si verificano, risponderò che nella mia discoteca alloggia una forte
rappresentatività del free jazz, con quasi tutto
Coltrane, Dolphy,
Lacy, Ayler, ecc.ecc., che ascolto frequentemente con lo spirito e
la modestia di chi vuol capire, imparare e riconoscere la validità di qualsiasi
espressione musicale.
ML:
Condivido in pieno. Che
rapporto hai con la critica, è cambiata nel tempo?
CB:
Con la critica non ho un rapporto particolare, nel senso
che la maggior parte dei miei concerti, così come quelli di moltissimi altri
miei colleghi, spesso molto più bravi di me, passano quasi sempre sotto silenzio
critico. Quando esce qualche rara recensione solitamente è molto positiva.
E questo mi basta.
ML:
Vedo che nei tuoi gruppi
c'è sempre un gran rispetto della tradizione e non manca la presenza di giovani
ottimi musicisti. Com'è, secondo te, il livello dei musicisti più giovani. Puoi
fare anche qualche nome?
CB:
Inevitabilmente nei miei gruppi, anche in quelli di area
moderna, c'è sempre un cordone ombelicale che mi tiene saldamente ancorato al
linguaggio della grande tradizione. Del resto, come mi sembra risultare chiaro
dalle precedenti risposte, non sono e non sono mai stato un innovatore. Certi
linguaggi non mi appartengono e non mi interessano. Li lascio fare a chi li sa
fare, e quando li sanno fare bene, li apprezzo moltissimo sotto ogni punto di
vista.
Per quanto riguarda la presenza dei giovani nei miei
gruppi, mi sembra logico approfittare della loro disponibilità e li chiamo con
grande piacere, lasciando loro la possibilità di esprimersi come vogliono,
purchè si inseriscano nel contesto del progetto generale che voglio ottenere. E
i risultati mi hanno dato, fino ad ora, ragione.
Nomi? Abitualmente collaborano stabilmente con me dei
giovani musicisti, dei quali ho la massima stima e per i quali nutro un profondo
rispetto oltre che una paterna amicizia. Fra questi vorrei citare il pianista
Rossano Sportiello, autentica rivelazione di questi ultimi anni; il
clarinettista Alfredo Ferrario, un musicista sensazionale e mio nipote
Stefano, batterista che tutti conoscono e sulle cui eccezionali qualità
tutti concordano. Mi capita inoltre spesso di chiamare Fabrizio Bosso,
per il quale ho una profonda stima e che considero uno dei migliori trombettisti
europei recentemente comparsi sulla scena europea.
ML:
Che strada sta prendendo il jazz?
CB:
Francamente non l'ho ancora capito ma vedo cupi segnali
all'orizzonte.
ML:
In Italia e in Europa, ci sono molte fusioni con le
culture folkloristiche generando, in alcuni casi, delle vere e proprie
sperimentazioni. Come vedi questo tentativo di ricercare attraverso il jazz una
propria identità culturale?
CB:
Io trovo lecito che ognuno, per quello che può, cerchi
una propria strada. Se poi lo fa con l'intento di scoprirne una nuova, non
ancora battuta, ancora meglio. Ma la strada deve comunque seguire un itinerario
sempre riconducibile al jazz che, si sa, ha alcune regole fondamentali che
devono necessariamente esseri presenti (lo swing, per esempio!).
Oggi sono sempre più frequenti le cosiddette fusioni con
culture musicali etniche e folcloristiche che, quasi sempre, pur rappresentando
dei progetti musicali gradevoli all'ascolto e per molti versi innovativi, si
allontanano dalla strada maestra del jazz. Ha allora senso fare appartenere
queste "contaminazioni" al jazz, quando molto spesso le sue peculiari
caratteristiche sono assenti? Non sarebbe meglio definire queste commistioni
"musica etnica", "musica di ricerca" o qualcosa del genere? Spesso ho sentito
dei commenti, da parte di appassionati convinti di andare a sentire un concerto
di jazz, improntati a una certa sorpresa (spesso a disappunto) per avere invece
ascoltato una performance neppure lontanamente imparentata col jazz.
Ma questo è un terreno minato che meriterebbe una analisi
approfondita o, quanto meno, un dibattito in modo da poter coinvolgere più
musicisti di correnti e aree diverse.
ML:
Qual è la situazione live in Italia: festival e jazz
club
CB:
Sulla situazione dei festival, almeno quelli più
importanti, siamo sempre al solito tormentone dell'affollamento di musicisti
stranieri che si aggiudicano la fetta più grande delle disponibilità finanziarie
(spesso pubbliche) a danno dei musicisti italiani che, detto per inciso, a
partecipare ai suddetti festival sono sempre gli stessi. Non c'è rimedio. Così è
da tempo immemorabile e così sarà in futuro.
Per quanto riguarda i jazz club il discorso non migliora
molto. Molto spesso i "jazz club" coincidono con ristoranti, birrerie e simili
dove i poveri musicisti (questi sì, nostrani, ed io fra questi) si esibiscono in
un frastuono generale che è il vero protagonista sonoro della serata. In altri
casi, dove esiste una vera e propria programmazione e dove l'ascolto si fa più
attento, i musicisti si trovano spesso coinvolti in vere e proprie mischie con
decine di altri colleghi per "strappare" la serata, il più delle volte
sottopagata.
Non è una gran bella situazione, ma sembra che in America
sia peggio.
ML:
Però a giudicare dal numero di serate a cui partecipi
e dal numero di gruppi di cui fai parte, traspare un entusiasmo che sembra
inalterato. Quali sono secondo te le componenti principali che un buon musicista
jazz deve avere?
CB:
E' vero. La mia attività è abbastanza intensa, almeno dal
mio punto di vista è così. E ciò dipende, come giustamente hai rilevato, dalla
mia appartenenza in gruppi, sia miei sia di altri, di aree stilistiche diverse,
il che fa si che possa soddisfare richieste che prevedono situazioni diverse. Ma
tutto ciò non sarebbe possibile se, al di sopra di tutto, non ci fosse un
entusiasmo ancora incontaminato che mi avvicina tuttora alla musica con grande
piacere. Il jazzista deve avere qualche cosa in più del musicista professionista
in generale. E questo qualche cosa è proprio l'entusiasmo, che lo porta sempre e
comunque a cercare di esprimersi artisticamente in termini di grande dignità,
che lo stimola a studiare continuamente lo strumento perché solo con i progressi
tecnici sarà in grado di assecondare la propria vena improvvisativa, che gli da
la convinzione di fare un mestiere privilegiato, dove il talento ha la
possibilità di esprimersi compiutamente e dove la creatività, questo dono
straordinario non alla portata di tutti, può fare di lui un buon artista.
ML:
Teddy Reno con il trio di Paolo Ormi propone un
tributo a Frank Sinatra, Bruno Lauzi con un ottimo gruppo jazz propone un
concerto dal titolo "…back to jazz…", Arbore ha prelevato dai jazz club romani
alcuni giovani talentuosi più qualche "vecchio" amico e sta proponendo canzoni
italiane o americane esaltando lo swing…Ti va di dire qualcosa in merito?
CB:
Quello dei "tributi" o dei "ritorni" è un buon modo per
attirare su di se le attenzioni degli organizzatori. Io stesso, in tempi
recentissimi ed ancora attuali, propongo un tributo a Louis Armstrong, tributo
doveroso considerata l'importanza che questo straordinario personaggio ha avuto
nella storia del jazz. L'importante però è dare a questi tributi o ritorni una
impronta personale e di rinnovamento, evitando imitazioni o riletture pedisseque
di partiture arcinote. Bisogna tenere presente che, oggi, è assai difficile
oltre che improbabile "inventare" qualche cosa di nuovo. Tutto, o quasi, è già
stato fatto. Tanto vale quindi riappropriarsi di situazioni "storiche" e
riproporle con un approccio individuale, possibilmente il più lontano possibile
dal testo originale.
Anch'io ho in programma un progetto, con il mio
quartetto, che prevede il ripescaggio di canzoni "storiche" del panorama della
musica italiana, dalle canzoni napoletane, alle straordinarie melodie della
lirica, a quei meravigliosi bozzetti musicali di prima e dopo la guerra, per
giungere ai nostri cantautori più raffinati. Non è una idea originale, perché
molto in questo campo è già stato fatto. Ma l'originalità la cercherò nel modo
di realizzarla.
ML:
In realtà mi riferivo a degli
esempi in cui oggi, in qualche modo, taluni si coinvolgono nel jazz, addirittura
si "travestono" da jazzista frequentando quasi inaspettatamente festival e
platee a loro sconosciute prima. Teddy Reno, Bruno Lauzi, Paolo Ormi, non mi
risulta abbiano mai calcato le scende del jazz in Italia. Un po' diverso è il
fenomeno Arbore. Sono sicuro che i musicisti che suonano con lui avranno
un'ottima opportunità per farsi conoscere dato che sono comunque molto bravi, ma
temo sempre che queste cose non siano delle oneste esigenze artistiche di chi le
fa ma piuttosto un modo per sfruttare solamente un genere musicale. Tu cosa ne
pensi?
CB:
Per quanto riguarda Bruno Lauzi, del quale sono amico,
bisogna riconoscere che ha sempre avuto un rapporto preferenziale con il jazz e
che, molto spesso, vi si è cimentato con grande competenza e rispetto. Ha fatto
anche alcuni dischi, di buonissima levatura. Di Teddy Reno mi pare si possa dire
che il suo modo di cantare fosse, anche se molto lontanamente, in un certo modo
legato a quello dei crooner americani, che nel jazz hanno sempre avuto molto
spazio. Paolo Ormi non lo conosco. Per quanto riguarda invece Renzo Arbore,
nessuno non può riconoscere il grande amore che ha sempre nutrito nei confronti
del jazz (tradizionale). Essendo uomo di spettacolo molto intelligente (e anche
molto furbo) ha capito che il modo più semplice per cercare di avvicinare al
jazz il grosso pubblico era di proporlo in maniera più melodica, inserendo brani
che appartengono alla canzone napoletana e al repertorio commerciale, il tutto
condito con una dose di sano umorismo, forse un po' goliardico ma tutto sommato accettabile. Tenuto conto della
considerazione che gode il jazz nella cultura musicale dell'italiano medio,
credo sia meglio così che niente!
ML:
Carlo Bagnoli oggi: che obiettivi si pone. Carlo
Bagnoli domani: cosa ha in progetto.
CB:
Il mio obiettivo attuale è di fare quello che so fare,
poco o tanto che sia, di farlo nel miglior modo possibile e di non dimenticare
mai che la dignità artistica viene prima di qualsiasi altra cosa.
Del futuro non parlo. Semplicemente perché non so
"quanto" futuro artistico mi resta.
ML:
Attualmente nel jazz in Italia in attività siete in
due: tu ai sassofoni e tuo nipote Stefano alla batteria. Ci sono o ci sono stati altri jazzisti nella
tua famiglia?
CB:
Sì, ce ne sono altri.
Mio fratello Gigi, papà di Stefano, ha suonato il
contrabbasso. Pur essendo più vecchio di me, ha iniziato più tardi e ha smesso
una decina di anni fa.
Poi c'è un altro nipote, figlio di mia sorella, sposata
ed abitante in Francia. Si tratta di Bruno Chevillon, fantastico
contrabbassista che fa parte, da tempo, dei gruppi di Louis Sclavis.
Recentemente inoltre collabora sempre più frequentemente con Michel Portal
e Daniel Humair.
Infine c'è mio figlio Franco, altosassofonista.
Anche lui dotato di grande talento e personalità. Purtroppo non fa il jazzista
professionista, avendo un altro mestiere di alto livello. Ma quando può lo si
vede sulle scene, sempre con grande entusiasmo e perizia.
Potrei fare un quartetto di soli Bagnoli, e non è detto
che un giorno non ci provi!
ML:
Non sapevo che Bruno Chevillon
fosse tuo nipote! E' molto noto e bravo.
Ha inciso anche per l'ECM. Certo che sarebbe davvero un'idea simpatica un
Bagnoli Quartet.
In conclusione un piccolo gioco: se fossi il nuovo
Ministro della Cultura, dimmi tre cose che faresti per il jazz in Italia.
CB:
Allora:
- Farei entrare lo studio della musica e di uno strumento come materia
scolastica obbligatoria
- Obbligherei tutti gli
operatori del settore a scritturare un gruppo italiano per ogni gruppo
straniero con la suddivisione paritaria del budget finanziario (perchè altrimenti, su un budget poniamo di 2000 euro, 1800
verrebbero dati all'americano di turno e 200 al gruppo italiano, magari una big
band)
- Istituirei une legge in base alla quale al jazzista venisse assegnata una
"medaglia al merito per la capacità di sopportazione"
Ma non sono neanche l'Assessore!
Ringrazio Carlo Bagnoli per
questa chiaccherata. Jazzitalia gli augura ancora tanti anni di buona musica.
Enjoy your swing!
12/12/2018 | Addio a Carlo Loffredo, tra i padri del Jazz in Italia: "Ho suonato con Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Django Reinhardt, Stephan Grappelli, Teddy Wilson, Oscar Peterson, Bobby Hachett, Jack Teagarden, Earl "father" Hines, Albert Nicholas, Chet Baker, i Four Fresmen, i Mills Brother, e basta qui." |
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Data pubblicazione: 24/08/2002
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