JAZZ ITALIANO: Carlo LOFFREDO
marzo 2001
di Giovanni Masciolini
Carlo Loffredo, tra i principali "importatori" del
jazz in Italia, è mancato l'8 dicembre 2018 all'età di 94 anni. La sua lunga vita
rimane legata al "suo" jazz e a quel saperlo declinare attraverso una visione che
oggi può sembrare "demode" ma che ha certamente fornito le basi su cui molto dell'oggi
non sarebbe stato probabilmente possibile.
Una delle cose che più mi angoscia
è concentrarmi per buttare giù un mio "Curriculum vitale". E questo per
diverse ragioni: prima l'enormità delle cose che ho fatto in 77 anni,
a favore del jazz italiano, seconda la preoccupazione di dimenticarmene
molte e certamente tra le più notevoli. Terza ragione, piena di vanità,
è che vorrei che tutti sapessero tutto di me senza sottopormi alla immane
fatica del "ricordo".
Io dovrei fare una volta per tutte, delle fotocopie di questo curriculum
e tenerlo a disposizione di chi me lo richiede. Ma non lo faccio perché,
in fondo, mi diverte tornare indietro nel tempo e fare l'inventario…
Inizio di interesse al jazz, diciamo a sei, sette anni quando di
notte mi alzavo per andare a sentire sulla mastodontica radio la stazione
di Hilversum (mai saputo dove si trovi) che trasmetteva jazz americano.
Primo approccio professionale nel 1942
quando suonavo con un quintetto universitario fascista (GUF)
per i feriti di guerra. L'arrivo degli americani rappresentò l'inizio della
professione di jazzista. Scritturato dagli americani, e poi dagli inglesi,
mi esibivo con un quartetto al Foro Mussolini, requisito come "rest
camp" dalla 5° Armata. Nel quartetto avevo un trombettista che presto sarebbe
diventato uno dei migliori d'Europa: Nunzio Rotondo. Nel
'47 portai un mio quintetto a Praga a vincere
un festival del Jazz, il primo di una lunga serie tra i quali ricordo quello
del '57 a Mosca, del
'59 a Vienna: due meritatissime medaglie
d'oro. Nel '52 quando la Prima Roman
New Orleans J.B. dette cenni di voler abbandonare le scene, formai la
mia "Seconda Roman" che per una quindicina d'anni mietette successi
e consensi ovunque in Italia. Per la RCA registrammo quel "Petit fleur"
che segnò un record di vendite per quanto riguarda dischi di jazz: quasi
250.000 di LP venduti.
Ho scoperto e valorizzato un numero imprecisabile di jazzisti, oggi
tutti al Top della loro carriera: ne citerò qualcuno. Romano Mussolini,
Gianni Sanjust, Roberto Podio, Massimo Catalano,
Nunzio Rotondo per i musicisti di ieri e tra quelli d'oggi basterà ricordare
Luca Velotti, Michele Pavese, Carlo Ficini, Jimmy
Polosa, Eddie Palermo. Tra quelli che certamente arriveranno
in alto, ricorderò il "pulcino" Vincenzo Barbato. Sono certo di essermene
dimenticati una cinquantina, a dir poco.
Tra tutti, l'amico che più di ogni altro mi è riconoscente è Romano
Mussolini che non manca mai di ricordarlo in ogni suo concerto: senza
la mia spinta, non avrebbe intrapreso la carriera del jazzista che è la
ragione della sua vita.
Ho suonato con tutti i più grandi jazzisti del mondo ma non ce la
faccio ad elencarli tutti. Basterà dire: Louis Armstrong, Dizzy
Gillespie, Django Reinhardt, Stephan Grappelli, Teddy
Wilson, Oscar Peterson, Bobby Hachett, Jack Teagarden,
Earl "father" Hines, Albert Nicholas, Chet Baker, i
Four Fresmen, i Mills Brother, e basta qui.
Ho scritto un divertentissimo libro di memorie che ho intitolato
"Billie Holyday, che palle!…" ma che difficilmente troverà un editore
intelligente al punto da pubblicarlo.
Infine inutile elencare tutti gli LP che ho inciso perché sono tutti
assolutamente introvabili.
Carlo Loffredo |
Carlo Loffredo
lo considero un po' come un padre dei jazzisti
italiani. Romano da parte della della famiglia Loffredo e napoletano da parte
di madre, è figlio di un ufficiale di Marina che fu trasferito al ministero a Roma.
Così Loffredo si ritrova nella capitale ma, come egli stesso dice, "potevo anche
nascere a Taranto, a La Spezia, a Venezia, tutti punti dove ci sono distaccamenti
di marine".
Di lui Riccardo Laudenzi ha
detto: "Loffredo, in fondo, ha avuto la virtù di coltivare margherite non stelle
alpine sopra un terreno fatto di merda e cemento".
Questa definizione piace molto a Loffredo - "ma proprio una bella definizione,
secondo me. Bella, bella, mi piace..." - probabilmente perchè sottolinea come,
nonostante tutte le difficoltà dei tempi in cui questi musicisti hanno operato,
lui sia riuscito a proporre sempre la sua musica.
Ha scritto anche un libro sulla sua vita musicale. "Ho scritto un libro
che non ho ancora chiuso perché mi vengono sempre delle nuove idee. Ultimamente
ho inserito "Umbria
Felix", proprio per l'omaggio
a tuo padre (ndr.
Aldo Masciolini) e
tutti gli umbri con i quali ho suonato. E' un capitolino
piccolo, forse, ma una valutazione che va fatta perché sono stati grandi.
Quando tuo padre faceva "Body and soul", mi ricordo, che noi
zompavamo, era come sentire Coleman Hawkins perchè aveva "copiato" pari, pari dal
celeberrimo assolo di Hawkins. Pensa,
che
Masciolini
lo trascrisse
questo assolo ripetuto, in modo ovviamente
personalissimo,
e lo mandò, lo spartitino, a
Musica Jazz,
la quale lo pubblicò ad uso di tutti quei musicisti che volevano rifare quell'assolo
lì, e Masciolini lo fece paro, paro.. Poi, non ricordo su quale numero, ma penso
negli anni '50 o un po' prima venne pubblicato. C'era la possibilità di copiare
ad orecchio, e va bene, ma non era facile perché l'assolo era piuttosto difficilino!"
Ma veniamo agli inizi. Loffredo comincia immediatamente dopo la guerra. "Quello
era un jazz d'entusiasmo. Ascoltavo i dischi che avevo sei o sette anni, poi andavo
al Ginnasio, - una cosa che ho notato è che quasi tutti i jazzisti dell'epoca,
anche mio padre, Battistelli, Laudenzi ecc., avevano un'ottima cultura
scolastica per quei tempi - risparmiavo i soldi per il tram e la merenda, e li
mettevo da parte per poi comprarmi i dischi."
Nel
'45
c'è quindi un jazz "dell'esplosione della speranza".
"Le prime orchestre americane jazz che ho visto erano militari. Ad esempio ho
visto Ray McKinley
a Roma con un gruppo militare.
C'è chi faceva il soldato in guerra e c'è chi faceva il soldato suonando, e andavano
sui campi, dietro i campi di battaglia, sugli ospedali a fare il jazz. E io stesso
nel '46
ho messo su già un primo complessino, andai assieme
alla compagnia inglese a suonare nei campi dei nostri soldati. Noi stavamo di sede
a Firenze, pensa c'era ancora la linea gotica, sì la guerra era finita, ma ricordo
che c'era ancora… E noi una volta arrivammo fino a Cesena e suonammo in un campo
d'aviazione bombardato credo tre o quattro ore prima, ancora c'era fumo, e questi
soldati ci sono venuti a sentire, ci hanno messo su un palchetto con quattro sedie
di legno, facevamo del jazz, facevamo canzoni americane di allora, quelle che chiamavano
'le vecchie hit parade', quelle che erano sui giornaletti. L'organizzazione americana,
favolosa, pubblicava ogni mese delle canzoni di moda in quel momento, non solo nuove,
ovviamente, anche le canzoni vecchie, con gli spartiti, le parole, accordi e tutto
quanto, e li mandavano in giro in tutti i punti del mondo dove ci fossero dei soldati
americani nel posto di riposo. Questi avevano dei giornali, dischi, LP e V-disc,
che erano i nonni degli LP".
I V-Disc, oggetti ormai praticamente introvabili. Pare che ci sia un collezionista
del Texas che ne abbia e qualcosa dovrebbe ancora esserci non tanto in Italia quanto
nel nord, in Francia, in Germania, perché lì ne arrivavano tantissimi "...pensa
che ne sono arrivati mi sembra fino a 900 di numero. Quelli che mandarono nell'ultima
spedizione erano 920, 930, mi pare."
In quei dischi c'era di tutto, musica classica,
Gershwin,
il cantante Ezio Pinza,
c'erano Benny Goodman e Armstrong ovviamente, Lena Horn,
Ella Fitzgerald... Il bello è che tutti questi musicisti incidevano i V-Disc
destinati ai militari gratuitamente, non prendevano un soldo. Inoltre, la produzione
di questi V-Disc per i soldati, ha portato ad incisioni uniche, in un certo senso
irripetibili, fatte cioè solo per quell'occasione. O avevi il V-Disc oppure non
avresti mai potuto trovare un'edizione commerciale di tali incisioni. Ovviamente
nessuno ha mai pensato di riprodurli in diverso modo anche perchè non si sapeva
neanche come farlo. Il tutto, comunque, per contribuire a tenere su il morale dei
soldati.
Stemperato l'effetto guerra, nel '47
i quattro assisani (Aldo
Masciolini, Riccardo Laudenzi,
Miro Graziani,
Sergio Battistelli) giunsero a
Roma e cominciarono così le collaborazioni con i musicisti della capitale.
"Li conobbi tutti subito.
Battistelli
soggiornava alla casa
dello studente perché era un'alternativa. Tutti gli umbri, studenti, venivano a
Roma e facevano tappa alla casa dello studente dato che costava poco, c'erano delle
belle stanzette, c'era la mensa e un'accoglienza valida e si suonava all'Università
a dei concerti con Cesari,
Memmo Letteri
ecc...Gli umbri vennero piano piano, uno, due, tre a sentire come suonavano i romani
e così si fece amicizia finchè ci riunimmo per suonare. Sai in piazza c'era questa
grande capacità di fratellanza, di immediata amicizia, insomma."
Loffredo iniziò subito a costituire delle proprie band. La prima fu fatta appositamente
per gli americani, con Nunzio Rotondo. "Era
un po' modernina come concezione perché c'era
Walter Cianfrocca
avvocato che suonava il pianoforte
molto alla Fats Waller, molto bene, Nunzio
Rotondo alla tromba ovviamente,
alla batteria Peppino D'Intino
e io al basso e con quella suonavamo al
Forum Mussolini che era il sito dei soldati. Vi andavamo a suonare di pomeriggio
per i soldati che erano lì, sbragati sui divani a sentire, a bere Coca Cola… Questa
era la mia formazione, poi ne ho fatte tantissime, il numero l'ho perso, ma credo
che se dovessi fare un elenco…, mah ad un centinaio ci arriviamo."
Qualcosa è stata incisa è Loffredo stesso mi ha inviato dei nastri ma, come
dice lui stesso, "è musica degli '50, massimo '60, quando con la RCA ancora si
poteva arrivare a proporre di incidere jazz. Invece oggi è difficile incidere. Non
si sa da chi, con chi, non ti accolgono nemmeno, perché secondo loro il jazz è negativo,
non vende…"
Questa amara riflessione giunge da un veterano del jazz italiano che non
accetta ciò che è avvenuto poi, e cioè a partire dagli anni
'70
in cui, secondo me, non è stato inventato più niente. "Secondo me sono stati
fatti addirittura dei passi indietro. Con l'hard bop c'è stato il massimo che abbiamo
potuto produrre. Parlo dell'Italia, perciò, non so,
Basso,
Valdambrini,
Scoppa,
Santucci,
Dino Piana
è stata la novità più illuminata. Poi quando
sono subentrati gli ultra moderni allora io alzo le braccia, mi arrendo, non dico
niente perché non capisco. Non voglio sembrare un passatista ma, secondo me, quello
che fanno sfrutta un po' il momento…In alcuni casi oserei dire che sembra esserci
proprio della mala fede! Ma lascia perdere, è semplice il discorso, il free e l'avanguardia
ad un certo punto della loro carriera lo hanno fatto anche gli altri, per esempio
Miles Davis,
ma perché? Perché non vendeva più i dischi! Guarda l'ho visto io a New York vestito
d'oro, con gli occhialoni e le scarpe da Fantomas, Miles Davis sai non vendeva più
bene, allora il suo discografico: 'Bello mio, se tu vuoi…', e lui stava lì con due
chitarristi che erano una cosa da vergogna, Miles Davis!...Per sopravivere uno che
deve fare? Hai capito, io preferisco vivere poco, ma praticamente non tradire."
In tutto questo le case discografiche non sono da meno e, tranne pochi casi,
l'obiettivo del profitto passa in primo piano rispetto a quello che con tanta fatica
molti artisti cercano di costruire e di proporre. Secondo Loffredo non è un problema
di tecnica, anzi, quella abbonda e anche di più di prima, è solo un problema di
mercato e di ciò che la gente vuole. "Tutto ciò che è 'disco' è basato sul commercio,
sugli interessi, sul profitto. Se tutti questi incomprensibili, chiamiamoli incomprensibili,
vendono, evidentemente c'è chi li compra, chiaro? Evidentemente c'è una ragione
perché i ragazzi si esaltano a sentire una cosa che probabilmente non gli da niente
di concreto. Sono suoni, bei suoni, perché evidentemente alla base della tecnica
c'è, perché sento dei sax soprani incomprensibili, però quello che fanno lo fanno
da gran maestri, solo che dico io: potrebbero usare la loro tecnica a fini più specifici,
se si mettono a suonare Body and Soul probabilmente non vendono. Allora è un fatto
di psicosi incomprensibile, però sono pieni d'atmosfera, pieni di pathos."
Se si allarga questo discorso a tutti i generi musicali, allora subentrano
anche tutte le "nuove" musiche in cui prevale il rumore e che in alcuni casi si
sono fuse con il jazz. Ma è un'evoluzione?
"Prima il problema era la batteria che emergeva sempre rispetto agli altri strumenti.
Oggi ci sono chitarre elettriche, pianole, tastiere. Il jazz oggi è anche un fatto
elettronico. La musica di consumo si chiama 'techno', e cioè 'tecnica', ed è ottenuta
con artifici elettronici, poi hanno anche inventato che le note si possono campionare…Insomma
un laboratorio, veramente, uno con una piccola tastierina toccando delle manopole
micidiali fa un'orchestra sinfonica, fa una Big Band, fa quello che vuole, però
in fondo non ci sta niente. Evidentemente il mondo va avanti, e noi cerchiamo di
farlo andare avanti nella maniera, che a noi sembra più coerente, che a noi sembra
giusta, ma, sai, noi diciamo così, ma saremo nel giusto? Ad un certo punto mi comincio
a chiedere: non hanno ragione questi?"
Purtroppo individuare qualcuno disposto a produrre lavori che sulla carta
non rispondono ai requisiti commerciali del momento è praticamente impossibile,
rimane un'unica strada: fare tutto da soli!
"Se tu proponi una cosa e secondo il produttore quella cosa non vende o vende
poco, rimane nel cassetto, non te lo fanno fare e quindi, se vuoi, devi farlo da
te. Farlo da me non è nemmeno impossibile, ma poi chi te lo segue? Basti pensare
che Petit Fleur
del
'62
ha venduto più di quella di Bechet.
Ha venduto mi pare 245.000 copie.
Non credo che un altro disco di jazz
abbia mai venduto così, ma erano altri momenti. C'era un ragazzino che li distribuiva,
c'era una radio che te lo trasmetteva e se mancano queste fonti…Ti puoi mettere
i dischi sotto braccio e andare in giro per i negozi, sì, si può anche fare ma alla
fine della giornata prendo 50 lire..."
Oggi le case discografiche fanno acquistare, in cambio dell'incisione, un
po' di copie che il musicista deve poi provvedere ad auto-vendere, ad esempio nei
concerti, e ad utilizzare come promozione spedendole a giornalisti e critici nella
speranza di una recensione. E' un po' un paradosso: il musicista acquista il disco
che ha inciso...
Poi ci sono anche i premi che sono assegnati sempre ai soliti jazzisti,
trascurando musicisti che magari sono costretti ad andare all'estero per essere
riconosciuti. "In questo caso bisogna addirittura essere ammanigliati! Fare parte
di una cricca! Fare parte di una combriccola, una volta incidi tu una volta incido
io, poi di nuovo tu! Se uno va a bussare ad una porta manco aprono…capisci!"
Poi c'è anche la politica, che in alcuni casi si è appropriata degli
spazi e di un certo tipo di cultura in cui è confluito anche il jazz. "In alcuni
casi devi essere aggregato a delle correnti che hanno l'interesse a tirare fuori
delle cose che secondo loro portano voti. Perché il discorso poi è sempre quello,
se c'entra la politica è per avere dei voti, non c'è nessun ideale che non sia concreto:
uno + uno fa due."
Riguardo alla scarsa divulgazione della storia che l'Italia ha avuto nel
jazz, ci possono essere tanti motivi, ma alla base di tutto probabilmente c'è il
disinteresse legato forse sempre al concetto di profitto. In questo modo però, interi
patrimoni, registrazioni, filmati, vanno via via disperdendosi non arrivando più
alle nuove generazioni che approderanno a questo genere musicale ignare di quello
che è stato fatto nella nostra nazione.
"Non c'è l'interesse a divulgare queste cose! Ma finché camperemo noi cercheremo
sempre di farlo...Io questa sera vado a suonare...e ti dico, io suono in un locale
strapieno. E' sempre tutto esaurito. C'è la gente con i capelli brizzolati che quando
sente la mia musica rimane a bocca aperta, sentono 'Body and Soul' e svengono di
gioia!"
Le responsabilità? Chi ha il dovere di divulgare è il primo che dovrebbe
assumersele.
"La prima responsabilità è dell'ente radiofonico. Perché chi è che ti fa
amare le canzoni o apprezzarle? Il fatto è questo. Alla RAI, una volta, venti anni
fa, c'erano dei programmi jazz pomeridiani, li facevo anch'io, quindi ci davano
dello spazio. Facevo Glenn Miller
per tutta la mezza ora,
oppure Benny Goodman.
Poi c'era chi si sintonizzava sulla radio e sapeva che a quell'ora c'era
Charlie Parker,
adesso non c'è più, non c'è assolutamente più, ci sono programmi dedicati principalmente
alla musica di consumo. I programmi jazz non esistono più, quindi anno dopo
anno chi vuoi che si accosti a parte quelli vecchi?"
I jazz club, altro problema. Ultimamente sono aumentati e a Roma la
situazione sembra essere soddisfacente ma i compensi rasentano la miseria. "A
Roma va bene, ci sono cinque o sei locali jazz che funzionano tutti i giorni con
programmazione varia che oramai pagano e riescono a fare un bilancio, ma offrendo
cifre che non ti dico insomma, uno straniero… non li prende. Prova ad offrire quello
che prende un jazzista la sera quando va a suonare in un locale ad uno qualsiasi,
uno che ripara la televisione, che ripara il lavabiancheria, a parte che non ci
viene, ma ti denunzierà pure per un tentativo di sfruttamento!"
Le manifestazioni, tante. I calendari, sempre gli stessi. "A me
non arriva mai l'invito, non so perché, ma insomma, perché non faccio parte di quelle
combriccole, tutto lì il punto. comunque ho una storia alle spalle, ho dato al jazz
tutto quello che potevo dare e ne ho avuto in cambio anche soddisfazioni. Adesso,
proprio l'altro mese, ho ricevuto un riconoscimento dalla provincia del Lazio, una
targa d'argento molto bella con una bella festa, una bella riunione, mi hanno premiato
come il più 'antico' e più valido propagandista del jazz…"
La critica, i giornali. "Non leggo più Musica Jazz da...oramai
da anni, perché sembra mono tematica, solo jazz moderno, solo moderno, solo moderno,
solo free, e osannante tutti quegli sperimentatori che vengono fuori, pur che facciano
il free, allora il giornale non lo compro più. Per me con
Polillo
è finita Musica Jazz! Anche a lui piaceva il moderno,
però lui capiva quello che era il jazz, lui era un uomo...pur non essendo assolutamente
un musicista, però aveva un bell'orecchio, avendo un giornale da vendere è chiaro
che doveva prenderne atto, ma era un modo relativo. Poi morto lui, il jazz attivo
non è stato più...per carità è una banda di pazzi, poi siamo stati bollati come
fascisti, noi che suoniamo il jazz tradizionale siamo dei fascisti...Ascolta la
musica del 'padrone', che ti devo dire, tante sciocchezze!"
"I critici poi, sono una genìa particolare, veramente terribile - quella
di jazzisti mancati! Quelli che avrebbero voluto suonare la batteria, la
tromba, quello che sia, non ci sono riusciti, allora due parole in croce le sanno
scrivere e sfogano il loro livore contro chi ha successo, dicendo quello che è la
rabbia...è questo è una cosa...credo che anche nel cinema, anche nella letteratura
sia così, il mancato terribile critico che non perdona niente a nessuno, anzi sfoga
il suo dispetto, parlando male oppure non parlando, oppure offendendo."
Insomma, è tutto da rifare? Per fortuna no, ma molti ambiti potrebbero migliorare
in modo consistente, soprattutto i media e, tra tutti, i media per eccellenza: la
radio e la televisione.
"Finché non si tornerà che qualche stazione radio, qualche stazione televisiva,
e ce ne sono tante, ricomincino a partire con tanta modestia, da New Orleans, dalle
origine del jazz, dagli spiritual, dai Gospel, e piano, piano rifare per l'ennesima
volta: la storia di Teagarden,
la storia di J. P. Johnson,
e piano, piano, accattivandola con notizie ecc., finché non si fa questo - niente!
Oggi, mi sono sintonizzato su RAI tre, che è l'unica radio che nel pomeriggio sempre,
spesso, trasmette del jazz che però è il jazz del 2012, non è jazz, loro lo spacciano
per jazz, sai chi ascolta! Mi metto in un ragazzetto di tredici anni che sente quello
e dice: ha detto quello lì (il presentatore) che questo è jazz! Ricorda, una delle
colpe enormi della televisione è stata quella di trasmettere, non adesso,
adesso non ne fa proprio più di nessun tipo, quindi figurati, cinque, sei, sette
anni fa, ogni tanto, dei programmi jazz, ma che jazz! Il free, l'africano ribelle,
per cui dico se uno lo sente in quel momento poi capisce: questo è jazz! Chiude
e va sentire Nilla Pizzi, come reazione abbraccia Claudio Villa! Poi, come si combinano,
con capelli d'oro, con gli anelli al naso, catene al collo, arrotolati per terra...non
è che tenga in modo particolare al look ma io personalmente obbligo i miei ad usare
un uniforme...Ma poi tutta la musica che suoni, scusa, musica d'anni '20 che noi
facciamo, com'erano loro - giacca a righe, bretelle, paglietta, sciarpe e giacche
marroni...Adesso con le camicie fuori, delle cose. Quindi hai capito, è tutto il
mondo che sta andando in una certa maniera e produce i frutti di questo modo di
vivere..."
Torniamo un po' alla storia di Loffredo che, tra gli altri ha suonato anche
con Hengel Gualdi e con Romano Mussolini. "Romano lo deve a me
se ha cominciato a suonare...senza di me non avrebbe cominciato, io lo convinsi
a suonare. Pensa, lui si nascondeva sotto lo pseudonimo di
Robert Full,
una cosa ridicola perché si vergognava...col cognome che ha, il fatto di ciò che
potessero eventualmente dire gli altri. Il cognome (ad altri) non piaceva, e a Romano
questo fatto dava un po' di preoccupazione, era legittima questa sua perplessità.
Quindi non voleva, io gli feci il primo disco: io, lui e
Pepito Pignatelli,
primo trio con la RCA, andò benissimo e quello lo convinse, cominciò ad entrare
in battaglia, e adesso va bene..."
Con Bruno Martino, da cui ha avuto una specie di "iniziazione".
"Bruno
Martino mi dette una bella spinta perché io suonassi contrabbasso.
Io suonavo con la 013. Una volta, per rimpiazzare il vecchio contrabbassista
- succede sempre così il giovincello va a rimpiazzare il titolare che non può -
mi ritrovai a suonare con Bruno Martino che poi mi disse: guarda tu non sai suonare,
infatti era vero, però hai swing e tieni bene i tempi, va bene così. Pensa che bella
accoglienza, capì che non avevo studiato jazz! Che potevo sapere! Però in quel poco
tenevo bene, davo quella spinta all'orchestra, hai capito, quindi andavo bene. Poi
abbiamo suonato al festival del '46
a Firenze, ho suonato una vita con Bruno Martino...Bruno Martino
per me ha patito la presenza di Trovajoli
perché diceva che Trovajoli era freddo,
senza fare mai una Jam Session. Bruno Martino con me e con gli altri, Dasi Messana,
Stelio Subelli, Riccardo Rauchi, suonavamo come pazzi, prendevamo
il secondo posto, terzo posto. Ma per ognuno di noi Trovajoli era un mito, e lo
è ancora oggi, se si dice chi era il miglior jazzista pianista: Trovajoli. Avrà
fatto in vita sua, dico cinque Jam Session..."
Gli ricordo Umberto Cesàri. "Cesari
era più geniale. Però, vedi,
Cesari poteva anche non essere capito dal
pubblico...era molto avanti, aveva delle armonizzazioni paurose, era più indemit
di Teddy Wilson, era difficile il jazz di Cesari, era molto difficile, lui
aveva una mente tutta sua, un'elaborazione tutta sua. Il dramma per chi lo accompagnava,
basso e chitarra, era andargli appresso per gli accordi che lui faceva. Quando gli
chiedevamo: tu che accordo metti? Rispondeva: 'Non lo so', perché lui la musica
non la sapeva. Allora, come fai a mettere un basso giusto su un accordo che non
capisci quale sarà? Cesari anche se suonava
un certo brano, non si sa come usciva, lui lo trasformava e diventava un certo brano
sì, come titolo ma poi all'interno...era difficile poterlo seguire, era difficile
anche per un sassofonista, perché tutti abbiamo bisogno di una base armonica, di
un binario a cui appoggiarsi, Cesari era
terribile. How high the Moon
gli sembrava facile, pensa un po'!"
Che speranze ci sono per il nostro jazz? "Il
nostro jazz, Nostro con una bella 'N' maiuscola. Finché campo io ci sarà la presenza
di qualche bandarella nuova. Penso che, morto io, non so chi lo farà più, perché
questi giovanottelli non sono animati dalla sacra fiamma...Questi finché gli va
suoneranno, poi chi farà l'impiegato, chi il bancario, chi l'avvocato, il jazz lo
lasceranno perché sai con il jazz non si campa questa è la vecchia, purtroppo, verità.
Se non c'è una passione che ti supporta e che ti spinge, sì, suoneranno un po' e
dopo? Il jazz devi sentirlo proprio. Cinque anni fa volevo fare una jazz band, una
ennesima jazz band e chiamarla 'Jazz Babies'
- Carlo Loffredo & Jazz Babies
- perché tutti quanti avevano diciassette, diciotto, diciannove anni. Poi è successo
che: il trombettista, studente di matematica all'Università, ad un certo punto si
doveva laureare e non aveva più tempo per poter suonare, suonava come Bix, eccezionale,
si chiama Carducci,
trombettista. Il
trombonista Carlo Ficini
che suona ancora con me ogni tanto,
Luca Velotti
il clarinettista, che era più bravo
di tutti e se l'è accorpato Paolo Conte,
sta con lui da tre anni, praticamente, perché Paolo Conte ha capito che è un sassofonista
di un certo livello e gli ha offerto di lavorare sempre con lui, non ci sono soldi
a palate ma insomma ci sono delle belle paghe. Paolo per me, è più geniale, oggi,
compositore, esecutore, si avvicina molto al jazz, fa arrangiamenti che sembrano
dei Cotton Pichers, che sembra la Cotton Club, e poi sono perfetti,
un'orchestra di grandi maestri. Quindi in questa band, agli inizi, uno mi arriva
a fare il trombone che poi si è messo a studiare architettura e quindi me lo vedo
e me lo piango perché andrà a fare l'architetto, capisci, il discorso è di non poter
avere una continuità che ti consenta di mettere su una famiglia, dico questa bestemmia,
uno non fa un lavoro se poi deve stare a carico dei genitori, come nel jazz."
A questo punto mi congedo da Loffredo, che poi ho reincontrato a Roma, in
concerto con la sua band.
12/12/2018 | Addio a Carlo Loffredo, tra i padri del Jazz in Italia: "Ho suonato con Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Django Reinhardt, Stephan Grappelli, Teddy Wilson, Oscar Peterson, Bobby Hachett, Jack Teagarden, Earl "father" Hines, Albert Nicholas, Chet Baker, i Four Fresmen, i Mills Brother, e basta qui." |
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Data pubblicazione: 15/03/2001
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