Sant'Anna Arresi Jazz Festival 2017 1 - 10 Settembre 2017 "Ai confini tra Sardegna e Jazz" XXXII Edizione
di Aldo Gianolio
foto di Agostino Mela, Pietro Bandini, Danilo Codazzi, Luciano
Rossetti
Nonostante le consuete perduranti difficoltà (economiche, certo,
ma non solo), il festival "Ai Confini tra Sardegna e Jazz" di Sant'Anna Arresi
(nel basso Sulcis) continua imperterrito e con caparbietà a presentare, ormai unico
in Italia (dove i festival vengono sempre più concepiti come sagre dove la musica
è aggregata a prodotti gastronomici), un cartellone che si attiene a un tema ben
preciso, ogni edizione diverso, attorno al quale viene costruito con un sottile
gioco di rimandi culturali (che guardano al passato ma che operano nel presente
e sono rivolti al futuro) un ricco programma, appunto, "a programma".
La trentaduesima edizione del festival,
come sempre nella piazza del Nuraghe di Sant'Anna Arresi, quest'anno si è svolta
dal primo al dieci settembre con soggetto "We Insist! Freedom Now: M'Boom, M'Boom,
M'Boom - tutte le muse del batterista", come evidente omaggio alla grande figura
di artista di Max Roach nel decennale della morte, avvenuta il 16 agosto
2007, a 83 anni ("We Insist! - Freedom Now Suite" è un suo album capolavoro
politicamente impegnato uscito nel 1960 per la Candid e M'Boom è il gruppo da lui
fondato alla fine dei Settanta formato da soli percussionisti, in cui figuravano,
tra gli altri, Roy Brooks, Joe Chambers, Omar Clay, Ray Mantilla, Warren Smith,
Freddie Waits, Kenyatte Abdur-Rahman e Fred King). Si può considerare Max Roach
il più grande batterista di jazz (ammesso e non concesso che abbia senso fare simili
classifiche), non solo per le qualità innovative e tecniche, ma per il suo essere
stato leader di gruppi sempre nuovi e originali e uno fra i massimi compositori
afro-americani del XX secolo, da mettere a fianco di artisti di impostazione classica
come George Walker e Coleridge-Taylor Perkinson; da non dimenticare poi che fu uomo
di profonda cultura, politicamente e socialmente impegnato (non se l'è dimenticato
la direzione artistica -Basilio Sulis, coadiuvato da Paolo Sodde, Francesco Peddoni
e Andrea Murgia -, che lo spiega esaurientemente e chiaramente nel sito dell'Associazione
Punta Giara).
Proprio la particolare e precipua attenzione data in questa edizione a batteria
e percussioni ha fatto risaltare ancora di più e al meglio (quale migliore test?)
la bontà dell'impianto sonoro di amplificazione e della sua ottimale resa in rapporto
all'ambiente (l'anfiteatro sottostante la piazza del Nuraghe) che grazie al curatissimo
lavoro di Paolo Zucca e Giovanni Carlini ha saputo esaltare ogni piega di suono,
dai gravi e rimbombanti della cassa e timpani agli sfavillanti ed esili dei campanellini,
raggiungendo livelli di qualità difficilmente eguagliabili anche dai tanto osannati
moderni auditorium opera dei più celebrati archistar.
La qualità del suono è pregio anche della produzione discografica con etichetta
Punta Giara, che ogni anno pubblica alcuni dei più significativi concerti delle
edizioni passate: questa volta è toccato (solo in vinile) al concerto del 2016 del
Summit Quartet, nato proprio per quella occasione, formato da Ken Vandermark al
sax tenore e clarinetto, Mats Gustafsson al sax baritono, Luc Ex al basso elettrico
e Hamid Drake
alla batteria, disco intitolato semplicemente "Live In Sant'Anna Arresi";
gruppo che poi, richiamato per la presentazione ufficiale del disco, è stato riproposto
anche quest'anno, dando una delle più emozionanti e irruente performance della rassegna
(il 4). Con il sapere musicale individuale come base, ogni musicista si è raffrontato
estemporaneamente con i compagni edificando potenti splendori e incanti costruttivi,
fra iterazioni ossessive, suoni gutturali, andamenti melodici tumultuosi e agitati,
suoni poderosi e/o taglienti: Vandermark con rigorosi guizzi icastici sembra indirizzarsi
al cielo mentre Gustafsson, più impulsivo e ferino, rimane ineluttabilmente legato
alla terra, alla pari del loro tumultuoso procedere mettendosi Luc Ex con strappi
e strattoni irregolari e
Hamid Drake
con iridescenti incastellature e cesellature ritmico-melodiche, che entrambi sembrano
sdrucire e invece incollano (ma bisogna tenere conto che è un rimescolamento di
materiale tellurico). Drake non fa mistero di avere come modello Max Roach, di cui
recupera la duttilità e la capacità di far cantare i tamburi, concependoli anche
melodicamente, non solo ritmicamente e poli-ritmicamente, di cui recupera anche
gli andamenti africaneggianti e la costruzione di assolo architettonicamente conseguenti,
non una mera effusione di tecnica.
Un altro quartetto, il Lean Left, si era mosso (il 2) sulla stessa linea espressiva,
cioè con quella tremenda forza dirompente che ancora oggi fa pensare senza ombra
di dubbio che ci si trovi di fronte a una musica d'avanguardia (non accademia dell'avanguardia),
nonostante siano passati ormai cento anni da quando la cosiddetta avanguardia si
è palesata nel mondo occidentale entrando stabilmente nel lessico del parlare artistico.
Nei Lean Left, che è, a differenza del Summit Quartet, un gruppo consolidato negli
anni, con all'attivo diversi album fra cui il recente "I Forgot To Breathe" (etichetta
Trost), c'è ancora Vandermark, sempre al sax tenore e clarinetto, assieme a Paal
Nilssen-Love alla batteria e, alle chitarre e chitarre baritono, Andy Moor e Terrie
Ex (membri degli olandesi anarco-punk The Ex, come del resto aveva fatto parte degli
Ex anche Luc Ex, vero nome Luc Klaasen, mentre il vero nome di Terrie Ex è Terrie
Hessels). Qui Vandermark ha assunto una diversa dimensione, anche con un (voluto)
diverso bilanciamento dei suoni, che non lo ha fatto emergere come volume sui compagni
che canonicamente (come chitarristi e batterista) dovrebbero fungere da supporto,
facendo del tutto decadere la concezione del solista (quando invece con il Summit
Quartet è rimasta ancora in piedi, seppur ridotta a maceria, la concezione della
divisione dei ruoli e del passaggio di consegne fra improvvisatori) e portando all'esaltazione
la metodologia completamente paritaria del procedimento di definizione dell'opera
artistica: ne è risultato un blocco unico segnato da mille venature che diversificano
il monolite con linee tortuose e colori accesi che si ramificano anche all'interno,
tutti suonando con foga incessante e tracimante fra salti, contrazioni e furori.
I Lean Left erano stati preceduti dal duo Sylvie Courvoisier/Kenny Wollesen che
pure hanno proposto musica free, ma con un altro piglio espressivo, più intellettuale,
razionalmente meditato, perlomeno sul versante del pianismo della Courvoisier (spericolate
invenzioni con piano spesso "preparato" e percosso sia sui tasti con cluster che
sul coperchio), mentre Wollesen alla batteria e percussioni stravaganti (anche spirali
e lastre di metallo) stempera l'ispido assunto con un apporto meno rigido e più
vitalistico.
Il Summit Quartet era invece stato preceduto dall'esibizione al piano-solo di Joe
Chambers, uno dei più importanti batteristi del jazz moderno, ma che pure è compositore,
vibrafonista e, appunto, pianista. Con lui niente avventure iconoclaste e frastornanti,
ma raffinatezze ritmico-timbriche (la mano sinistra che gioca con sapienza con controtempi
inusitati sui registri più cupi e riverberanti) e armonico-melodiche, con predisposizione
alle iterazioni e alle melopee, richiamando stilemi di Monk, Waldron, Blake e Weston
su un repertorio di famosi standard ("Monk's Mood", "Nica's Dream", "Never Let Me
Go", "Lush Life", "Airegin").
Il settantacinquenne Chambers sarebbe tornato la sera dopo (il 5) alla guida del
ricostituito (per l'occasione) M'Boom di Max Roach, ribattezzato M'Boom Repercussion
Ensemble: Chambers faceva parte del gruppo originario e con sé è riuscito ad avere
altri compagni dell'epoca: Ray Mantilla (conga, bongo), Warren Smith e Eli Fountain
(xilofono, marimba, timpani, gong, campane tubolari e piccole percussioni); nuovo
aggiunto è Diego Lopez alla batteria. Una ricostruzione atipica, metà M'Boom e metà
Double Quartet (che Roach aveva guidato negli anni Ottanta), perché ai percussionisti
sono stati aggiunti il contrabbassista Marc Abrams, il sassofonista e flautista
Pietro Tonolo e un quartetto d'archi composto da Silvia Congia e Anna Floris (violini),
Tommaso Delogu (viola) e Rebecca Fois (violoncello). Chambers, al vibrafono e percussioni
varie, ha diretto con cipiglio la compagine che ha ripreso cavalli di battaglia
del repertorio roachiano, come "It's Time" ed "Epistrophy", altri brani come "Come
Back To Me" della cantante Janet Jackson e composizioni dello stesso Chambers come
"Landscapes", con fitti intrecci di percussioni che hanno portato a una specie di
puntillismo musicale, con grande varietà timbrica e poliritmica e lucida e, all'occorrenza,
misurata esuberanza.
Per causa di forza maggiore il preannunciato David Virelles non ha dato i due concerti
previsti: quello in solo (prima della esibizione del M'Boom Repercussion Ensemble)
è stato sostituito dalla proiezione del bellissimo film del concerto che Max Roach
aveva tenuto proprio a Sant'Anna nel 1995, mentre quello del quartetto (che doveva
suonare il 3) dalla performance di un trio inventato sul momento dalla direzione,
formato da musicisti resisi subito disponibili:
Pietro Tonolo
al sassofono tenore, Mark Abrams al contrabbasso (entrambi erano in formazione con
la M'Boom) e Hamid
Drake alla batteria che per rimanere in tema dovevano riproporre, sempre
su idea della direzione, la "Freedom Suite" che
Sonny Rollins
in trio con Oscar Pettiford e Roach aveva registrato due anni prima della "Freedom
Now Suite" a cui tutto i festival si è ispirato. Così è venuto fuori un concerto
bellissimo, dove sono stati presi alcuni temi della suite trattati con rispetto
della impostazione originale, ma trasformandoli secondo l'estro del momento e i
dettami della propria sensibilità musicale (comunque non lontana dagli interpreti
originari), soprattutto giocando su sopraffini abbellimenti, con Tonolo perfettamente
integrato e in palla (come del resto lo era stato con il M'Boom) su una ritmica
pungente e incalzante.
Sempre Drake aveva suonato nella stessa sera in duo con il discendente da una famiglia
di griot ivoriana Aly Keita, specialista del balafon, in una performance solare,
gioiosa, ritmicamente ossessiva e iterata, con ripetizioni a loop, mille sfumature
ritmiche e riprese di nenie danzanti della tradizione griot dell'Africa Occidentale.
Proprio Aly Keita il primo settembre aveva aperto il festival, introducendo Dobet
Gnahoré, pure lei nativa della Costa d'Avorio, una delle odierne star del canto
africano, che fondendo tradizione e modalità rock con groove leggero e voce vigorosamente
fascinosa ha proposto uno show (show, perché ha anche ballato con stupefacente abilità)
di pregevole eleganza.
Oltre la Gnahoré e le diverse cantanti dei vari ensemble orchestrali, c'è stata
un'ampia presenza femminile, al festival. La sera del 6 è stata inaugurata da Susie
Ibarra in un duo di batterie (e un sacco di percussioni aggiunte, dai gong ai sonagli)
con Tiziano Tononi, che si sono intese a meraviglia, rilanciando figurazioni ritmiche
(e, "alla Roach", melodico-ritmiche), subito trasformate con vigoroso savoire faire
in fascinosi intrichi poliritmici o diradate in quieti rumorii.
A seguire ha affascinato Shamania, addirittura una All-Girl Orchestra (ma non si
creda, negli Stati Uniti sono state sempre numerose) guidata dalla batterista e
percussionista MArylin Mazur, statunitense di discendenza afroamericana
e polacca, che vive in Danimarca; orchestra composta da Hildegunn Øiseth (tromba,
bukkehorn), Lis Wessberg (trombone), Lotte Anker, Josefine Cronholm e Sissel Vera
Pettersen (sassofoni), MAkiko Hirabayashi, giapponese residente a Copenaghen (piano
e tastiera), Ellen Andrea Wang (contrabbasso) e Lisbeth Diers (conga), che ha proposto
un jazz sofisticato, ricco di nuance armoniche (avvolgenti i pastosi interventi
delle ance) e sonore (ampio ventaglio di sonorità, dalle più gravi alle più sottili),
alternati a passaggi più spessi e potenti, giocando fra istanze jazz, materiche
pulsioni rock e richiami folklorici (polifonie e poliritmie africaneggianti, melismi
del nord Europa) con i seducenti interventi vocali della Cronholm e della Pettersen,
fermi, senza vibrato, cantilenanti (bene si sono inserite in questi garbugli sonori
le movenze cadenzate e sinuose della danzatrice Tine Aspaas).
In un festival dedicato a Max Roach, opportunamente la direzione artistica ha invitato
Tyshawn Sorey, il batterista che oggidì sembra esserne il più diretto e legittimo
erede e, in un certo senso, continuatore, non solo perché eccezionale strumentista
in sé - ha suonato con i più importanti jazzisti contemporanei (Vijay Iyer, Steve
Coleman, Dave Douglas, Steve Lehman, Wadada Leo Smith, John Zorn,
Anthony
Braxton) -, ma anche perché polistrumentista (ha studiato, oltre che batteria
jazz, anche trombone classico, piano e composizione), compositore e leader di propri
gruppi, artista, come Roach, rivolto alla sperimentazione con una visione a 360
gradi e di grande spessore intellettuale (proprio questo settembre ha preso il posto
di insegnante tenuto in passato da
Anthony
Braxton alla Wesleyan University).
Le sue due performance, la prima in solitaria (il 7), la seconda in trio (l'8),
sono da annoverare fra i vertici artistici del festival. In entrambi i casi non
ha suonato solo batteria e ogni sorta di percussione, ma anche pianoforte e vibrafono,
creando atmosfere intense, magmatiche e cupe, in una variazione continua e disorientante
di suoni strutturati in dimensione orchestrale. Col trio si è esibito anche come
batterista jazz dando un impulso impressionante per spigolosa foga e fitta poliritmicità
agli assolo corrugatamente cecil-tayloriani del pianista Cory Smithe (che gli ha
tenuto testa con prontezza e sagacia), entrambi trovando un giusto bilanciamento
nel lavoro del bravissimo giovane contrabbassista Nicholas Dunston che si è trovato
a rimpiazzare per la prima volta il membro regolare della formazione, Chris Tordini;
ma Sorey, anche col trio, sempre è tornato, in alternanza circolare, simil-ritualistica,
al piano e al vibrafono, spandendo una musica austera e accigliata, a tratti febbrile,
che sembra aver perso il proprio centro senza più riuscire a ritrovarlo, in una
geniale sintesi di free jazz, AACM di Chicago, camerismo classico-contemporaneo
(Cage, Feldman, Satie), minimalismo e dotti umori folklorici.
Buone prove, anche se probabilmente fuori tema, dei due gruppi guidati dal batterista
Kassa Overall (uno hip hop, l'altro un classico piano jazz trio) e del Liquid Stone,
gruppo con Michele Uccheddu (percussioni), Emanuele Balia (elettronica) e Caterina
Genta, che si è prodotta in un inusuale canto avveniristico e in altrettanto inusuali
flemmaticamente cadenzati passi di danza.
Poi i due concerti finali (il 9 e il 10) della Burnt Sugar The Arkestra Chamber,
fondata nel 1999 e diretta ("alla Butch Morris") da Greg Tate, intellettuale afroamericano
fra i più noti, che ne è anche il chitarrista; compagine forte di 17 elementi, fra
cantanti (Tamar-Kali, Karma Mayet Johnson, Shelley Nicole, Julie Brown e Mikel Banks)
e strumentisti, e che si ispira a diverse espressioni funky, rock e jazz della black
music: dal Miles Davis elettrico a Jimi Hendrix, dai Funkadelic ai Bad Brains, dai
Living Colour ai Material.
La loro prima esibizione è stata dedicata direttamente a Roach, riproponendo brani
tratti dagli album "We Insist! Freedom Now Suite", "Percussion Bitter Sweet" e "It's
Time", ma è forse stata una riproposizione troppo pedissequamente ricalcata sugli
originali, con poco impegno arrangiatorio, nonostante la profusione di suoni elettrici
e elettronici, la carica funky dell'insieme, pur se toccanti sono state le interpretazioni
di "Driva Man", "Freedom Day", "Lonesome Lover" e "Mendacity". Molto più a loro
agio Tate e compagni sono stati nel secondo concerto (che ha chiuso la rassegna
in festa e bellezza), attinente al loro repertorio collaudato. Qui la loro pirotecnica
forza d'urto è risaltata in tutta la sua possanza, con forti rimandi alla migliore
musica nera (la Motown, Hendrix, Prince, Davis), un mischione danzante travolgente
con due eccellenti solisti in grande evidenza, Lewis Barnes alla tromba e Paula
Henderson al sax baritono, che si sono mossi con perizia e indefessa forza espressiva
tra energici elementi africani e funk, sovrapposizioni ritmiche e compattezza dei
collettivi orchestrali.
"Aldo Gianolio ringrazia gli amici fotografi Agostino Mela,
Luciano Rossetti, Danilo Codazzi e Pietro Bandini per il loro prezioso contributo"