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Carmen
McRae
Live at Umbria Jazz
1. Suddenly 1'39''
2. I'm glad there is you 4'30''
3. I only have eyes for you 4'11''
4. This Masquerade 5'50''
5. Yesterdays 4'28''
6. ‘Round Midnight 9'39''
7. How I wish 3'23''
8. Listen to Monk 2'01''
9. I never felt this way before 3'07''
10.
New York state of mind 4'51''
CARMEN MC RAE,
vocal
ERIC "FATS" GUNNISON,
piano
MARK SIMON, bass
MARK PULICE, drums
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EGEA Edizioni Discografiche
2001
Via Ritorta n°1 - 06123 Perugia
Tel. +39 75 57 32 503
www.egearecords.it
Carmen, una grande voce del jazz fotografata in un disco dal vivo ad
Umbria Jazz nel 1990 edito dalla EGEA, in tutta la sua forza comunicativa, in tutto il suo
splendore animale, con quella provocante bruttezza che la rendeva imminente sul
palco, come una regina africana. E' stata la voce che meglio ha interpretato la
struggente evidenza cartesiana del Jazz. Questa donna ha sofferto per amore e si
sente, anche nei momenti più pimpanti del suo repertorio un sapore agrodolce si
insinua nell'ugola, la sua voce caramellata ci invita ad abbassare gli occhi e a
fissare il parquet pensando alla teatralità del quotidiano, o semplicemente ad
un amore perduto tra le pieghe delle mani.
Un disco dal vivo, postumo (la cantante si è spenta a 72 anni nel 1994 dopo una
crisi respiratoria) che è quasi una dichiarazione di intenti nei confronti della
canzone americana: da Thelonious Monk a Billy Joel registrato a Perugia ai
giardini del Frontone, davanti a una platea che si sventola addosso programmi e
si guarda attorno per capire se è davvero lei a cantare, con quell'aria serena
da maîtresse stagionata che guarda i musicisti di sbieco seduta su di uno
sgabello che pare un trono.
E pensare che Carmen McRae non amava le grandi platee, si infastidiva facilmente
anche nei piccoli club quando in duo con il chitarrista Joe Pass cercava
l'intimità del dialogo. Un rapporto sempre difficile, il suo, con il diaframma
del pubblico, quel pubblico che difficilmente avrebbe compreso "the state of the
blues", quella condizione nirvanica di rabbia, amore, melanconia, quella che nel
Rinascimento si attribuiva ai nati sotto Saturno e che nel Novecento abbiamo
delegato alla cultura afroamericana perché forma primitiva, quasi archetipica
del nostro disagio.
Suddently, improvvisamente, così si apre il disco, ci si scalda un po' con la
musica di Monk, si guarda oltre la siepe del giardino tentando di percepire
l'atmosfera, i primi tre stacchi all'unisono e capisci cosa ti piace di lei:
quella regale, sfrontata, svogliatezza, quel biascicare le frasi, impastarsele
in bocca come gomma, gettarsele alle spalle come un Martini di troppo. Subito,
tanto per chiarire che non c'è nulla da stare allegri, aggancia una delle più
struggenti ballate del dopoguerra, lo fa accennando una risata da camallo:
I'm
glad there is you, timido inno ad un amore che può ricordare la sua vicenda
sentimentale con Kenny Clarke: il batterista che diede forma ritmica al be bop e
che poi fuggì in Francia ebbro di Bordeaux e gambe lunghe: nel suo primo disco,
Carmen, un po' per amore, un po' per civetteria si fece chiamare Miss Clarke,
era il 1946.
This Masquerade, questa finzione canta Carmen solfeggiando per aria con le mani
e disegnando per aria i suoi acquerelli di vocalizzi ed ogni tanto le scappa il
pennello di mano, meravigliose sbavature, salti di ottava, tremoli, miagolii, la
sua voce da contralto le metteva anche queste follie.
Il gruppo che la accompagna nonostante lei si sforzi a presentarlo in pompa
magna non è alla sua altezza, ma questo deve essere un motivo in più per
ascoltare questo disco: la sua voce emerge con più chiarezza, vicino ad un
contrabbasso troppo presente e poco intonato, un batterista duro come la pelle
dei suoi tamburi ed un piano che non gradisce l'umido del luglio umbro. Niente
che Carmen non possa aggiustare, siede al piano, non deve dimostrare nulla, che
con i tasti neri e bianchi ha filtrato per una vita, spolpa un vecchio brano di Ellington
e infarcisce di piccoli infarti ritmici, blocca il tempo, lo riprende per il
collo, chiude sussurrante, "that's life".
Sì, è proprio questa la vita.
Cosa ci fa una canzone di Billie Joel a chiudere il disco? Oggi lo capiremmo di
più, si intitola New York State of Mind, ed è l'esatta trasposizione sonora di
quel capolavoro che è Manhattan di Woody Allen: Billie Joel l'ha cantata di
recente pochi giorni dopo l'undici settembre, una versione memorabile,
luccicante, come elmi dei pompieri.
A Carmen piaceva questo piccolo inno sulla sua città, da anni lo metteva un po'
ovunque. Le piaceva sentirsi parte di quella strampalata comunità di hipster che
fa lo struscio nel Villas, guarda i pullman argentati che passano veloci
rifrangendo luce e occhi altrui lungo un ponte.
Questa stratificazione di ricordi, questo macabro affastellarsi di posteriorità:
difficile togliere questo disco dal nostro lettore cd.
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Data pubblicazione: 22/06/2002
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