Occuparsi dopo 40 anni di un capolavoro del jazz moderno che ha condizionato il linguaggio musicale post anni '60, potrebbe sembrare inutile opera di rivisitazione musicale, archeologia del jazz, potremmo dire. Sta di fatto che da pagine come questa è scaturito una significativa epoca che molto ha dato al linguaggio afroamericano.
Certamente quando il sassofonista Ornette Coleman nel dicembre 1960 registrò per la Atlantic l'LP
Free Jazz, probabilmente non immaginava che quei quasi 39 minuti di musica totalmente improvvisata, ad eccezione di qualche breve momento di insieme sommariamente arrangiato, avrebbero rappresentato il Manifesto della New Thing, dell'esperienza nuova che avrebbe aperto le porte ad un universo musicale che avrebbe condizionato la creatività dei musicisti jazz, e non solo quelli. Radunando intorno a se due quartetti (Freddie Hubbard e Don Cherry alle trombe,
Eric Dolphy al clarinetto basso, Eddy Blackwell e Bill Higgins
alla batteria e i nostri Scott La Faro e Charlie Haden ai contrabbassi), Ornette propose al pubblico il risultato della interazione tra musicisti provenienti da esperienze diverse da quelle della creative music (Hubbard e LaFaro, per esempio), riservò ad ogni strumento o gruppo di
musicisti circa 5 minuti nel corso dei quali l'impegno era quello di esprimere compiutamente ciò che essi sentivano e immaginavano, prescindendo da qualsiasi schema armonico o strutture ritmiche preordinate. Questa era l'atmosfera nella quale alcuni musicisti, come
Cecil Taylor, lo stesso Ornette ed altri ancora, operavano agli inizi degli anni '60. Probabilmente lo spirito era analogo a quello che per molti versi imperversava negli ambienti jazzistici alla nascita del be bop quando frasi veloci e contorte, armonie insolite e scansione ritmica insistente sui piatti della batteria furono messe in cotrapposizione alla linearità e alle melodie piuttosto disimpegnate del periodo swing. Anche nei boppers così come negli ambienti della New Thing, aleggiava impetuosa la contestazione politica che trovava nella causa raziale il suo fulcro. In questo contesto si affacciano due musicisti dalla diversa estrazione, entrambi bianchi e dalle concezioni musicali (forse solo apparentemente) contrapposte:
Scott La Faro e Charlie Haden. Al "sacro rispetto per le armonie" (sono parole sue), della forma, al culto della tecnica strumentale di Scott, si contrappone la tendenza alla dissacrazione, alla espressività come supremo punto d'arrivo che caratterizza la musica di Haden,
musicista che tuttavia ha avuto modo, negli anni a venire, di dimostrare compiutamente tutta la sua poetica e la particolarissima espressività, a differenza di quanto sia stato possibile per La Faro scomparso prematuramente nel luglio del 1961.
Ma torniamo alla mitica riunione del doppio quartetto che Ornette convocò in quel dicembre del 1960 e che passò alla storia come la data ufficiale della nascita del free jazz. L'episodio contrabbassistico in
Free Jazz si apre, nella seconda parte del disco, con un stacco di tutti i fiati (A) seguito subito da un ostinato di Scott (A1) che in questa performance non ha ruolo decisamente di spicco, ma pur sempre assume funzione imprescindibile nell'economia espressiva dell'insieme. Haden si produce in un fraseggio che considera maggiormente la parte acuta dello strumento. Dalla fervida fantasia di La Faro emerge una linea (B) che sarebbe possibile definire di
schietto stampo europeo, mentre Haden intanto abbandona le sue volute nell'acuto per creare (C), mediante l'uso di bicordi, una atmosfera più delicata che termina con un tremolo, fino al pianissimo, mentre La Faro insiste con la figurazione riportata in D.
Improvvisa la sortita della restante parte dei quartetti (D1) dopo la quale i ritmi di
Higgins e di Blackwell, prevalentemente scanditi sui piatti, si fanno ancora più leggeri e meno incalzanti.
La Faro ricama le atmosfere surreali pizzicando le corde al di là del ponticello e sembra voler colloquiare con
Haden (E) che sembra particolarmente ispirato dalle sonorità prodotte dalla parte più acuta del suo strumento sulla quale arriva a gran velocità e soffermandosi, di tanto in tanto, con brevi episodi ritmici. L'incalzare delle scale di Charlie Haden culmina (E1) con un rallentato che ascende cromaticamente. La Faro intuisce l'atmosfera che sta per crearsi e intercala il lavoro di Haden con dei bicordi, quasi a voler sorreggere l'enunciato dell'altro contrabbasso. In questo punto (F) si sviluppa uno dei tratti più intensi di tutta la registrazione in cui è possibile respirare l'aria pregnante di sincero pathos. Haden inizia un movimento lento, a mo' di barcarola che pian piano discende soffermandosi su intervalli di terza che si muovono cromaticamente. Ma qui è forse l'opera di La Faro che contribuisce a rendere al momento una magicità unica! Costante e sicuro nel fondere alla tessitura di Haden un accompagnamento prima in 3/8 poi in 2/4, Scott dimostra tutta la sua grande sensibilità musicale nel calarsi pienamente in quello che, vuoi per caso o per differenziazione di ruolo, il collega propone. Termina con un walking, in qualche modo simile a quello iniziale, il quadro a tempo lento. Anche i ritmi rimarcano con maggior vigore l'incedere dei due
contrabbassi (G). Ancora l'intervento dei fiati chiude una delle pagine mitiche della Storia
del Jazz. Siamo grati ad Ornette Coleman,
oltre che per la sua musica, anche per aver riunito, quel dicembre del 1960, quaranta anni fa, due grandi talenti del contrabbasso, due musicisti di chiara fama, due Grandi Anime del Jazz.
Free Jazz - File MP3
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Data pubblicazione: 20/09/2004
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