Ai Confini fra Sardegna e Jazz 2019 XXXIV Edizione The New Sound of Porgy and Bess 30 agosto-8 settembre 2019 S. Anna Arresi - San Giovanni Suergiu -Teulada - Masainas di Aldo Gianolio foto di Luciano Rossetti,
Ziga Koritnik, Danilo Codazzi,
Pietro Bandini, Agostino Mela
Notizie incontrollate e non verificate "passano veloci di bocca
in bocca" e si trasformano in erronei convincimenti. Succede spesso, anche nel mondo
della informazione ufficiale, a maggior ragione nei corridoi del sentito dire. Per
quello che riguarda la trentaquattresima edizione del festival jazz di Sant'Anna
Arresi (svoltasi dal 30 agosto all'8 settembre e che quest'anno, oltre alla canonica
Piazza del Nuraghe santarresiana, ha avuto propaggini a San Giovanni Suergiu, Masainas
e Teulada), non è per esempio vera la voce che gira secondo cui la direzione artistica
abbia intenzionalmente cancellato dei concerti per sostituirli con quello del pianista
Giovanni
Allevi, che fra l'altro con lo spirito e l'idea musicale del festival
c'entra poco o niente. I due fatti non sono collegati: da una parte ci sono state
in effetti defezioni non volute né gradite dell'ultimo minuto (Nicole Mitchell
col suo gruppo Black Earth Ensemble che ha comportato anche la cancellazione
di concerti che dovevano dare in solo due suoi compagni, Joshua White e
Ben Lamar Gay; il quartetto Pocket Science di cui è arrivato solo
il leader Khalil El Zab, mentre Jamaladeen Tacuma, Gary Bartz
e Robert Irving III sono stati prontamente sostituiti dal pianista Justine
Dillard e dalla contrabbassista Emma Dahuff); dall'altra parte Allevi
è capitato come "opportunità", quando l'intero programma era già allestito e reso
pubblico: la direzione artistica, venuta a conoscenza dell'esibizione di Allevi
in terra sarda per l'inaugurazione di un teatro in una data appena precedente il
festival, ha avuto l'occasione di avere il pianista comodamente in cartellone,
così dopo una attenta analisi ha valutato positivamente la
sua presenza e di inserirlo all'interno del programma già formato. Il festival non
ha fatto altro che seguire la propria attitudine all'apertura totale a modi ed espressioni
artistiche differenti, andando incontro a quella che poteva essere una specie di
sfida: potrà Allevi "sostenere" il pubblico abituale di S. Anna senza essere contestato?
Potrà adeguare perlomeno in parte il suo repertorio al tema del festival, "Porgy
And Bess"? Potrà coesistere con altri mondi musicali, considerando che comunque
parecchi di quelli ospitati sono spesso "ai confini" del jazz, come recita lo stesso
titolo-statuto del festival? Se poi Allevi ha deluso (non certo il "suo" pubblico,
che è accorso numeroso e plaudente per una specie di all sold out), e se
probabilmente non si ripeterà più l'esperimento, la sua presenza ha comunque suscitato
domande, nella fattispecie riguardo il "cosa è" proprio dell'arte e le modalità
della sua fruizione, che dovrebbe essere anche uno dei fini precipui dei festival
"non festivalieri" (e "non musical-gastronomici"), bensì culturali nell'accezione
più ampia e nobile del termine, quindi non solo vetrine asettiche di oggetti belli
o presunti tali, ma anche ispiratori di dibattiti e confronti di idee.
In un tale contesto e con queste premesse, la presenza di Allevi va quindi "oltre"
sé stessa, perdendo valenza di "situazione" artistica immediatamente consumabile
su cui esprimere un giudizio di valore estetico isolato. Il pianista si è creato
(riteniamo su basi reali e sincere, ma potrebbe essere anche una costruzione studiata)
un personaggio naif, ansioso e ansiogeno, che dialoga col pubblico cercando (e ampiamente
trovando) affetto e rassicurazione sulle proprie insicurezze (vere o presunte) di
non essere all'altezza del compito che si è dato. La sua è una discreta tecnica
di conservatorio con cui esegue proprie composizioni romanticheggianti impostate
su registro, atmosfera, velocità e soluzioni formali quasi uguali, nonostante siano
state ispirate dalle più diverse situazioni, persone e vicende (tutte da lui illustrate
prima di ogni esecuzione). Ma sono le domande che suscita, rapportate a tutto quello
che al festival musicalmente è successo (e non è successo, riferendoci ai concerti
mancati), che diventano importanti: per esempio, il chiedersi in che rapporto stia
la sua naïveté con quella - di altro segno - di Loney Holley che si è esibito al
festival in solo e in trio e che può essere considerato l'impersonificazione odierna
della naïveté autentica, suonando lui il piano con tecnica raffazzonata e cantando
(ma più che cantare è un declamare) ininterrottamente la medesima monotona cantilena
(un po' come Allevi ha suonato la stessa medesima uniforme composizione), con voce
gutturale e grandemente espressiva, dove vi racconta sue storie personali attraverso
cui delinea la sua visione critica della società e del mondo: è uno story teller
contemporaneo che riprende il field holler e il blues arcaico, richiamando alla
memoria le concezioni "democraticissime" di Cesare Zavattini, secondo cui tutti
sono artisti e tutti non solo possono, ma devono, esprimere la loro arte con i mezzi
e le tecniche di cui sono dotati. Un altro esempio, spostando l'attenzione dal creatore
al fruitore, potrebbe essere il chiedersi se si possa misurare sia per quantità
che per qualità il "godimento estetico" dei fruitori della musica di Allevi e alla
pari quello dei fruitori della musica di Holley, ricordando per inciso l'esemplare
definizione data da Dino Formaggio secondo cui "l''arte è tutto ciò che gli uomini
chiamano arte". Indi chiedersi, come corollario, se chi considera musica di serie
B quella di Allevi (in genere sono quelli a cui piace Holley) o viceversa chi considera
musica di serie B quella di Holley (in genere sono quelli a cui piace Allevi) pensa
che sia di serie B anche il godimento estetico dei rispettivi fruitori, cioè un
godimento estetico "inferiore", ovverosia meno intenso, meno appagante, meno sublimante,
meno grande e meno di qualità. E le domande, a cui si potrebbero dare le più diverse
e articolate risposte, potrebbero continuare, ma ci fermiamo.
Il festival di
Sant'Anna
Arresi ha ogni anno un tema specifico, a cui si dovrebbero attenere gli
artisti invitati. Diciamo "dovrebbero" perché è capitato in passato, ma quest'anno
forse in maggior misura, che alcuni invitati non si siano attenuti al tema previsto,
o lo abbiano fatto solo in minima parte (questo del resto è frutto della libertà
che usa dare il festival). Il tema della trentaquattresima edizione è stato: "The
New Sound Of Porgy And Bess", che si sarebbe dovuto tradurre in riproponimento,
interpretazione, rivisitazione della celebre opera, tenendo conto sia dell'originale
gershwiniano che della magnifica versione Miles Davis/Gil Evansiana,
opera che offre spunti per focalizzare l'attenzione sulle questioni, care al festival,
dell'integrazione, della solidarietà e dei diritti umani.
Allevi, per primo, ha esulato l'impegno, presentando pari pari il suo consueto repertorio.
Invece lo hanno affrontato e sviluppato le due orchestre presenti in cartellone
che, assieme alle esibizioni del pianista Matthew Shipp in trio e in solo,
hanno rappresentato il clou della rassegna: sono la Burnt Sugar the Arkestra
Chamber fondata a New York nel 1999 da
Greg Tate, compositore, direttore, chitarrista e fra gli intellettuali afroamericani
più in vista, e la Exploding Star Orchestra del trombettista (o meglio, cornettista)
e compositore Rob Mazurek, entrambe impegnate in due distinti concerti.
I due concerti della Burnt Sugar sono stati simili, ma al contempo diversi
perché diversamente ispirati, questo comportando un differente rimescolamento degli
ingredienti: il primo rifacentesi alle opere di David Bowie, il secondo, appunto,
a "Porgy And Bess". Il recupero della black music nelle sue varie espressioni è
stato massiccio in entrambi i casi, ma più pressante in quello ispirato a Bowie:
molto funky, rhythm and blues, hip hop e anche sporadicamente reggae (ricordi dei
Funkadelik e dei Living Colour); più aperto a soluzioni jazzistiche (del free) in
quello ispirato a "Porgy And Bess" (sapori di Sun Ra, Art Ensemble of Chicago, Miles
Davis elettrico), con il sassofonista V. Jeffrey Smith che ricorda nei suoi
assolo l'andamento free-eggiante di John Gilmore, il trombettista Lewis 'Flip'
Barnes e il flautista Satch Hoyt più legati alla tradizione, la sax baritonista
"Moist" Paula Henderson che si insinua ondeggiando in ogni piega del tessuto
sonoro, le due batterie di LaFrae Sci e Marque Glimore e il basso
di Jared Michaels Nickerson che incalzano inesorabili, l'elettronica del
tastierista Leon Gruenbaum che si fa psicadelia, la veemenza dei chitarristi
Ben Tyree e André Lassalle (Tate suona la chitarra sporadicamente)
che spruzzano qua e là un po' di rock alla Jimy Hendrix, i tre vocalist Julie
Brown, Mikel Banks e Abby Dobson estroversi e gioiosi nel recupero
della più bella tradizione afro-americana. La direzione dell'orchestra è, per la
maggior parte dei pezzi, affidata al leader, ma tutti si alternano, sempre rifacendosi,
mutatis mutandis, alla conduction butch-morrisiana, trovando continuamente estemporanee
suadenti e complicate soluzioni.
I due concerti della Exploding Star Orchestra, con il leader alla cornetta
e al synth modulare, Damon Locks alla voce, Jason Stein al clarinetto
basso, Lisa Alvarado all'harmonium, Pasquale Mirra al vibrafono,
Tomeka Reid al violoncello, Joshua Abrams al contrabbasso,
Hamid Drake
e Mikel Patrick Avery alle batterie (tutti eccezionali), ha visto un diverso
impegno di Mazurek che nel primo (una suite ispirata all'opera di Samuel R. Delany,
maestro afroamericano della fantascienza, con testi di Sun Ra declamati stentoreamente
da Locks, terzo capitolo alle sue fantascientifiche seducenti "Galactis Parables")
ha suonato meno la cornetta dedicandosi più alla direzione e alle elettroniche che
hanno conferito un'atmosfera cosmico-spaziale in un coacervo di disparati suoni
colorati, recuperando free jazz, raga, minimalismo, gospel, il tutto tenuto perfettamente
sotto controllo pur dando l'impressione che regnasse l'entropia.
Nel secondo (ispirato a "Porgy And Bess", le cui tracce si sono rese evidenti
solo a tratti) ha spostato l'ago della bilancia più verso la strumentazione acustica
e la componente compositiva (linee melodiche ben delineate, sovrapposizioni di blocchi
sonori semoventi, studiati intrecci interattivi fra i solisti, soprattutto fra il
clarinetto di Stein, il violoncello della Reid e il vibrafono di Mirra), arrivando
a intensità spasmodiche, ma anche a tempi più spaziati di riflessione, facendo brulicare
suoni fitti e al contempo distinti, basati sul gioco ipnotico delle iterazioni,
sulla complessità dei poliritmi e l'insinuarsi costante del suono brillante, energico
e fiero della cornetta con assolo che svettano scintillanti nella bolgia di suoni.
L'ultimo brano è durato una ventina di minuti (in seguito lo replicherà, simile
nella concezione ma molto più lungo, il gruppo Natural Information Society estrapolato
dalla band per sostituire chi ha dato forfait) andando avanti con minime mutazioni
sempre sulla medesima iterazione e sullo stesso centro tonale, cambiando solo colorazioni
e dinamiche: non è musica minimalista, va "oltre", quindi non è da giudicare dal
poco o tanto che si allontana o rimane vicina ai canoni minimalisti; questa è musica
più mossa, varia, grassa, mobile, basculante, irradiante, legata alla estemporaneità,
è musica più viva, quindi per noi più bella.
Matthew Shipp si è confermato uno dei massimi pianisti apparsi sulla scena
negli ultimi venticinque anni, per originalità, tecnica, passo coi tempi e bellezza
della proposta musicale in cui fa entrare più lingue e idiomi facendo coesistere
l'avanguardia con il classico (Taylor con Pullen e Powell) in un presente che convive
con il passato e anticipa il futuro. Il trio (doveva essere un quartetto con Nicole
Mitchell) mantiene le architetture tipiche del classico trio di piano jazz, anche
se in modi più dilatati e situazioni più varie, innescando precise e immediate chiamate
e risposte con i due compagni, il contrabbassista Michael Bisio, che si muove
con ferina rapidità producendo suoni profondi e tesi, sempre in sintonia con il
cammino di Shipp, e il batterista Newman Taylor Baker, un Paul Motian nero,
che spazia i colpi diradandoli allo spasimo e lasciandoli in inquieta sospensione,
semmai solo sfiorando i piatti con le spazzole, mentre Shipp in contrasto arzigogola
fitte frasi ingarbugliate; ma che sa anche distendersi in complessi e veloci accompagnamenti
swinganti. I brani esprimono vorticosi fraseggi e giochi di mani sulla tastiera
con marcata estroversione "free", in lui più cerebrale che passionale, riprendendo
il "maelstrom" di Lennie Tristano e l'intrico di Cecil Taylor, senza dimenticare
i compositori classici come Ives, Messiaen e Barber, solo a tratti scivolando in
brani più lenti, lirici ed estatici. Shipp ha anche suonato sulla spiaggia di Masainas
replicando questi costrutti al piano solo in una lunga ininterrotta nitida conturbante
e complicata improvvisazione risoltasi in una medley di standard, fra cui diversi
da "Porgy And Bess", spesso di difficile identificazione perché ben nascosti nei
meandri dei fraseggi che solo sporadicamente lasciavano venire a galla brandelli
di tema, uniti fra loro da bridge estemporanei spesso più lunghi delle stesse parti
che dovevano unire. Shipp ha dimostrato di essere molto più di un pianista d'avanguardia,
perché la trascende.
Oltre ai citati Lonnie Holley e Daman Locks, c'è stato anche un altro cantante si
potrebbe definire "predicatore", Dwigt Trible, proveniente dall'esperienza
della Pan-African People Arkestra di Horace Tapscott, che ha aperto il festival
con il suo quartetto: un predicatore ossessivo nelle sue declamazioni tonanti, a
tratti come invasato, dall'ampia gestualità e dalle continue diversificazioni vocali
che lo portano repentinamente dalle recitazioni al gospel e poi addirittura al canto
alla Johnny Hartman e alla Leon Thomas, sempre tenendo viva l'attenzione con tecnica
sopraffina e continue incisive variazioni.
Successivamente Trible si è esibito in duo con il batterista Kahil El'zabar,
una figura storica dell'AACM di Chicago. Il risultato è stato un concerto sentimentalmente
emozionante e tecnicamente mirabile in cui Trible ha recuperato anche lo scat ed
El'Zabar ha sparso pregevolezze con tamburi africani e kalimba. El'Zabar si era
anche esibito con il Pocket Science forte dei sostituti Justine Dillard,
pianista mccoy-tyneriano dalla energica comunicativa, ed Emma Dahuff, contrabbassista
di grande pregio, in un set di modern mainstream.
Per fare fronte a uno dei forfait, il contrabbassista di Mazurek, Joshua Abrams,
ha accettato di mettere insieme e guidare, lui al guembri - un cordofono tipico
della tradizione gnawa -, un piccolo gruppo con altri musicisti di Mazurek: alle
conga Hamid
Drake, alla batteria Mikel Patrick Avery, all'harmonium di
Lisa Alverado e al clarinetto basso Jason Stein, chiamandosi Natural
Information Society (gruppo in verità già operante da anni).
Hanno eseguito un unico brano durato due ore, costruito su un solo breve tema vagamente
africaneggiante sempre ripetuto con minime varianti dal clarinetto basso di Jason
Stein, tutti giocando sulle dinamiche e sull'addensamento e diradamento degli intrecci,
su un unico centro tonale e medesima velocità del tempo (medium), sulla falsariga
dell'ultimo lungo brano suonato dalla orchestra di Mazurek di cui si è parlato poc'anzi.
Solo che qui non ci si è limitati a una ventina di minuti, e due ore non sono poche,
considerando le diverse volte in cui il brano sembrava volgere al termine ma riprendeva
di continuo forza e vigore, come un'araba fenice. Anche in questo caso non ci troviamo
di fronte a una operazione "minimal" (dal minimalismo ispirata solo per la lunghissima
interminabile reiterazione), perché là i tratti sono uniformi e la tinta è grigia,
qua l'andamento è cangiante, di continuo raggiungendo acmi e cadendo in avvallamenti
e i colori sono sgargianti. Gli incessanti mutamenti, all'interno del "sempre uguale"
ripetitivo, sono valsi per far assumere alla lunghezza esagerata un valore esteticamente
positivo, ma avrebbe potuto benissimo durare di meno, come addirittura durare di
più, come tagliare a metri la stoffa. Così le due ore sono state per alcuni ascoltatori
esaltanti, ma semmai per loro un solo minuto in più e cadeva tutto il castello;
per altri il castello era caduto già da un pezzo e le due ore sono state distruttive
(e qui si torna a una delle domande suscitate dalla esibizione di Allevi e al contempo
ci si rifà alla naturale considerazione che le opere d'arte dovrebbero attagliarsi,
per dimensioni e durata, all'ambiente umano, e che se dei gusti si può disputare
quanto si vuole, delle taglie si disputa molto di meno: per esempio, non può diventare
"opera" una statua alta dieci chilometri, nemmeno se la scolpisse Michelangelo).
Al festival, essendo incentrato, come da programma, sui "confini fra Sardegna e
jazz", non poteva mancare lo spazio dedicato alla musica e alla cultura sarda. Benvenuto
e benemerito è stato il doppio omaggio alla ricerca creativa sulle launeddas dell'indimenticato
Carlo Mariani, musicista romano grande amico della Sardegna e della sua musica,
scomparso nel 2018. Il primo omaggio ha visto
l'ottima Sardinia Instabile Orchestra, diretta dal sassofonista Sandro
Satta (solista di classe superiore), dal pianista Paolo Carrus e dal
chitarrista Alberto Balia, eseguire composizioni e arrangiamenti dello stesso
Carrus, dove la moderna orchestrazione per big band si è mescolata sapientemente
con istanze popolari sarde, lasciando spazio alle celebrate launeddas suonate con
maestria da Giuseppe Orrù e Graziano Montisci.
Il secondo omaggio è stato quello di Ambrogio Sparagna, uno dei più importanti
musicisti e ricercatori di musica folklorica, che si è presentato con la sua
Orchestra popolare italiana, un originale ensemble di voci, organetti, percussioni
e diversi strumenti tradizionali, nello spettacolo intitolato "La notte del gran
ballo" (ospiti, sempre Orrù e Montisci alle launeddas).
Per finire, ha dato dimostrazione della sua validità musicale e spettacolare anche
l'orchestra Bandakadabra, tipica street band guidata da Gipo Di Napoli composta
da sette fiati e due percussioni con un repertorio di brani delle big band degli
anni Trenta (Count Basie e Duke Ellington soprattutto) eseguiti perfettamente (quasi
etimologicamente) con grande swing e attenzione ai particolari, mischiando la proposta
musicale estroversa con una serie di boutade cabarettistiche di estrosa comicità.
Come corollario alla musica, c'è stata la presentazione al ristorante "La Peschiera"
del bellissimo libro "Cloud Arrangers" del fotografo sloveno Ziga Koritnik, uno dei maggiori
specialisti di foto di jazz odierni, da anni amico di S. Anna Arresi. Con "Cloud
Arrangers" – un volume in formato 25 x 30, 376 pagine, 278 foto quasi tutte
in bianco e nero, carta e stampa eccellenti, 79 euro – Ziga Koritnik fa il
punto di oltre trent'anni di suo lavoro sulla musica. (Koritnik ha dato il suo prezioso
contributo per la buona riuscita di questo reportage, unendosi a Luciano Rossetti,
Pietro Bandini, Danilo Codazzi e Agostino Mela, fra i massimi specialisti italiani,
che compartecipano già da diversi anni).
Il festival, si è visto, cambia, si adegua, perde colpi ma si aggiusta, incassa,
risponde, come se fosse un corpo vivente. Alla fine, l'ultimo giorno, il direttore
artistico Basilio Sulis ha voluto comunicare alla stampa, e quindi rendere
pubblico, di essere stanco di continuare il proprio lavoro in una continua incertezza
(economica e burocratica) e soprattutto dispiaciuto per non avere ancora stabilito,
dopo trentaquattro anni, un rapporto di reciproca soddisfazione con la propria comunità,
quella di Sant'Anna Arresi: medita di cambiare abito, di traslocare in altra casa,
addirittura di terminare l'attività; ma poi, no, sembra ripensarci, perché il Sindaco,
presente alla conferenza stampa, in parte lo rassicura, promette collaborazione.
Ci sono già delle idee per allestire il programma del prossimo anno, Sulis ce le
ha riferite in separata sede. Se si tradurranno in realtà, sarà una delle più belle
edizioni della storia ultratrentennale del festival (poi, se ci saranno altre defezioni,
importa sì, ma poco: il festival è troppo grande e importante per badare a delle
piccolezze).