Cartellone
molto ricco per questa tre giorni di jazz, ma non solo - 6 concerti serali, 2 mattutini,
4 afterhours.
Il programma serale era stato aperto dal quartetto TRIGON, formatosi
nel 1992 a Chinisau, capitale della repubblica
moldava, il cui stile, citiamo dalle note del programma ufficiale "è una fantasiosa
miscela di danze popolari balcaniche, dolci ballate dell'area moldava, jazz
moderno, fino ad arrivare ai Weather Report di 'Birdland'". A seguire, ha favorevolmente
impressionato il quintetto di
Dave Holland,
contrabbassista e compositore inglese, che ha compiuto 59 anni proprio in ottobre
e che da poco, sulla scia di
altri
musicisti importanti, ha fondato una etichetta propria, abbandonando la limpida
ECM. Rispetto al consueto quintetto, una sola variazione, quella del batterista:
al posto di Billy Kilson, c'è il più pesante, nel tocco, Nate Smith.
Nel lungo set unico, in crescendo per intensità e fantasia dei singoli, hanno brillato
Chris Potter, soprattutto al sax tenore, il trombonista Robin Eubanks
e il vibrafonista e in certi casi marimbista Steve Nelson. Sempre misurato,
ma efficace, sia l'accompagnamento che il fraseggio improvvisativo del leader, dal
timbro caldo e dalla cavata sicura come sempre, che ci è parso più attento a bilanciare
le varie personalità musicali, indirizzandole verso un punto d'incontro gradito
a tutti. Applausi ai confini dell'ovazione, con ovvio e meritato bis.
La seconda serata, in un teatro Comunale ai limiti della capienza, si è aperta
con l'affiatatissimo quartetto QUEST, guidato dal sassofonista tenore soprano
Dave Liebman
e completato dal pianista Richard Beirach, dal contrabbassista Ron Mcclure
e dal batterista Billy Hart, che abbiamo ritrovato in gran forma a distanza
di un mese dall'international jazz festival di Rotterdam. Il primo Quest
fu fondato nel 1981 da
Liebman
e Beirach e comprendeva
George
Mraz al contrabbasso e Al Foster alla batteria. La formazione attuale,
immutata dal 1984, evidenzia la massima confidenza
e fiducia tra i 4 musicisti che danno il meglio di sé in souplesse, quasi
stimolandosi a vicenda. Particolarmente efficaci i lunghi breaks tra il soprano
di Liebman
e la batteria di Hart. Quest'ultimo, esigente nell'accordatura, ci ha spiegato
che quando suona su uno strumento non suo, non avendo calma e tempo per visionarlo
a fondo, preferisce tirare le pelli, specie quella del rullante, al massimo. Il
suo modo di suonare dà un grande risalto ai piatti, che percuote spesso per accentare
la fine di una frase o il passaggio di battute nell'improvvisazione del sax o la
fine dell'improvvisazione di uno strumento e l'inizio di un altro. Pur ricordando
Elvin Jones, in special modo nel gioco tom-cassa che cresce di volume e velocità
in un vulcanico climax, non usa però i piatti chiodati e non eccede nell'accompagnare
i 4/4 con la scansione in 6/8. Ci è sembrato anche voglioso di suonare e ha spesso
picchiato duro, soprattutto nelle fasi di accentazione, accennando anche un netto
movimento con la testa. Beirach ha mostrato il suo valore, sia pianistico
che compositivo - sua la lunga e diversificata 'Pendulum'
iniziale - spesso non adeguatamente valutato dagli addetti ai lavori. Senza particolari
afflati emozionali il lavoro di McClure, comunque puntuale e pronto ad assecondare
le mutevoli improvvisazioni dei compagni. Due parole infine sul leader: un suono
corposo, soprattutto al tenore, che a certi vecchi appassionati ha ricordato a tratti
Coltrane, ma è da aggiungere che
Liebman
appare originale, sia alle prese col tenore, che col soprano, cui conferisce un
timbro meno nasale di quello che si è abituati a sentire da questo sassofono verticale.
Assai gradevoli, nella scaletta, sia la tradizionale
'Dark
Eyes', introdotta da un piccolo flauto in legno, dai feltri di Hart,
per poi svilupparsi in un lento 4/4 felicemente melodizzato dal tenore, che
'Redemption', un brano
che ha dimostrato anche il percorso compositivo di Billy Hart, e davvero
infuocati certi duetti di soli sax tenore e batteria, stavolta sì a ricordare i
compianti Elvin Jones e
John Coltrane.
Ovazioni ha suscitato l'esibizione del WORLD SAXOPHONE QUARTET,
ascoltato anche 4 giorni dopo a Padova, nell'ambito della stagione del Centro D'Arte
degli studenti dell'antica università. Da segnalare l'assenza a Cormons per altri
impegni di Oliver Lake al sax contralto, cofondatore del quartetto, nato
nel 1976 come The Real New York Saxophone
Quartet, sostituito da Steve Potts. Quest'ultimo si è saputo inserire
nelle trame sonore del gruppo, anche se la presenza di Lake ha forse dato
qualcosa in più, per lo meno a livello di carisma. Ai 4 sassofonisti David Murray
al tenore e al clarinetto basso, Hamiet Bluiett al baritono, Bruce Williams
al soprano curvo e al contralto, oltre al citato Lake - si sono affiancati
il trombonista Craig Harris, il bassista elettrico Jamaaladen Tacuma
e il giovane batterista Lee Pearson. Il settetto ha proposto pressochè interamente,
ma con improvvisazioni più lunghe, il disco 'Experienced',
inciso nel 2003 e dedicato all'interpretazione
di 8 pezzi dell'indimenticato chitarrista americano Jimi Hendrix. Rispetto al disco,
non c'è il violino di Billy Bang, per altro presente in un solo brano, Tacuma
ha sostituito Matthew Garrison mentre Pearson il più maturo Gene Lake.
La versione dal vivo di 'Hey Joe'
si è più avvicinata all'atmosfera originale, soprattutto nel giro di basso elettrico
che in studio era stato fatto dal sax baritono. Buona l'intesa tra i fiati e ben
congegnati gli arrangiamenti di Harris, specie in 'Freedom',
nella quale si è anche ritagliata un'intensa improvvisazione. Sempre piacevoli e
non eccessivi, quasi un contrassegno del gruppo, i suoni honky prodotti con
una percussione particolare sulle ance. Ma soprattutto l'irruenza di David Murray,
la puntualità e il colore di Bluiett, mentre anche Williams non ha
demeritato né al controllo, né soprattutto al soprano curvo. Ancora acerbo e da
riordinare il drumming di Pearson che si è esibito anche in momenti circensi
durante un lungo unico assolo, che ha comunque strappato, più a Padova che a Cormons,
consensi gridati nel pubblico. A Padova, forse per il fatto di essere il concerto
di un unico gruppo, i 4 del WSQ hanno concesso un bis per soli fiati, ripieno di
sonorità che hanno ricordato i versi di volatili e di animali da foresta, mentre
Harris, seduto a terra, si è impegnato in un lungo bordone con il faticoso
Didgeridoo, antico strumento ligneo degli aborigeni australiani.
Domenica
mattina, risollevati dal ritorno dell'ora legale, abbiamo assistito, sempre al Comunale
al progetto 'Inner Roads- Le vie interiori' del sassofonista sardo
Enzo Favata,
affiancato da
Daniele
Di Bonaventura al pianoforte e al bandoneon e dal batterista U.T.Gandhi,
vera gloria locale, sempre più ricercato ed entrato di recente nel giro della prestigiosa
etichetta tedesca ECM. Abbiamo ascoltato composizioni molto aperte, originali, nelle
quali sia il leader che Gandhi hanno inserito con maestria episodi di live
elctronics che hanno regalato sonorità diverse e, in Gandhi, tra l'altro, la fedele
riproposizione del Berimbau, l'arco musicale brasiliano di provenienza africana.
L'ultimo doppio concerto, domenica sera, si è aperto con il recente progetto
dell'instancabile trombettista e compositore americano Dave Douglas. Su commissione
del Paramount Center for the Arts, Douglas ha scritto le musiche per
i 'Silence Movie' di Roscoe "Fatty" Arbuckle per la casa di produzione cinematografica
'Keystone'
dal cui nome è stato preso il titolo del progetto. Ex garzone di un idraulico, Fatty
esordì nel cinema nel 1913 e, sfruttando il suo buffo aspetto di 'grassottello',
divenne in breve tempo un divo recitando con i mitici Buster Keaton e Charlie Chaplin,
fino a vedere interrotta la sua fulminea carriera a causa di una accusa non del
tutto provata di molestie sessuali. Peccato non aver visto all'opera il quintetto
contemporaneamente alla visione del film. Ma Douglas, da bravo selfmanager
ha pubblicizzato il proprio website
che indica anche il nome della sua propria etichetta discografica, assicurando la
risata a tutti coloro che lo visiteranno. Buono anche così, comunque, il concerto
con echi dal Miles Davis di 'Bitches Brew', con un funky non esasperato,
ritmicamente mantenuto da Gene Lake alla batteria e Brad Jones al
basso, l'amato Fender Rhodes maneggiato da Adam Benjamin, mentre il leader
e Marcus Strickland al sax tenore e soprano, ricordavano a volte Miles Davis
e Wayne
Shorter. Non particolarmente "noised" il lavoro di DJ Olive al turntables
e molto curate le dinamiche dei pezzi con volumi che sfumavano, per poi ricrescere
con veemenza, segno di una vigile attenzione da parte dei musicisti. In buona forma
Douglas, sia a tromba libera che con la sordina, da cui ha fatto uscire un
suono acuto, ma estremamente compresso.
La
grande delusione della tre giorni, infine, va assegnata al concerto conclusivo dell'OMAR
SOSA QUINTET. Presentato nel programma come un "nuovo straordinario ambasciatore
del pianismo contemporaneo", creatore di un "mix vincente di jazz, musica
cubana e world music con forti radici africane", Omar Sosa è parso non
saper bene che pesci pigliare. Pur disponendo di un bassista, Childo Thomas,
dal Mozambico, che ha aperto il set con canti, percuotendo un piccolo pandeiro e
suonando la kalimba o Sanza, ossia il cosiddetto piano a pollice, di un batterista
di Brooklyne, Marque Gilmore, di un conghista e percussionista e di un sassofonista
alto e tenore cubani - rispettivamente Miguel 'Anga' Diaz e Luis Depestre
- dunque di diversi 'colori', il pianista, entrato in scena per ultimo come
si conviene ad un leader, vestito di bianco, accendendo incensi e ornato di collanine,
secondo il rituale yoruba, non ha proposto né una musica tradizionale cubana, o
un latin jazz convincente e né un 'altrettanto credibile World o Ambient Misic.
Sembrava tutto buttato là, con uno spreco soprattutto nelle percussioni - 5 congas,
timbales e cajon che avrebbero dovuto far venir giù il teatro - sperando che in
fase di esecuzione scendesse dall'alto un'idea felice…Invece… Complimenti comunque
ha chi ha saputo produrre interesse per un artista che tutt'al più potrebbe accompagnare
nomi più illustri. Tanto per essere comprensibili, tra i due cubani al momento più
conosciuti nell'ambiente jazzistico, tanto di cappello per Gonzalo Rubalcaba, tecnicamente
ineccepibile sia come pianista che come compositore.
Ci ha piacevolmente sorpreso durante i concerti la presenza di numerosi
fotografi, che scattavano in continuazione senza subire nessun tipo di reprimenda,
Questo va collegato probabilmente al workshop di fotografia musicale, svoltosi nei
giorni del festival e diretto da Luciano Rossetti e Luca D'agostino,
del quale si è potuta ammirare una piccola esposizione di scatti nella libreria
spazioarte Rebus. 'Immagini in Movimento' per una persona che è anche appassionato
di jazz, organizza concerti e produce dischi. Infine un ringraziamento a tecnici
ed organizzatori che non hanno mai allontanato quanti volevano avvicinare i musicisti
nel backstage, per parlare con loro, fotografarli o farsi firmare i CD. Per coloro
i quali, leggendo queste righe, pensassero ad una visita a Cormons per la prossima
edizione del festival, ecco alcune informazioni.
Organizzatore è il
Circolo Controtempo di Gorizia
www.controtempo.org
e-mail: info@controtempo.org
tel.:347-4421717; 348- 4466770