21a stagione
concertistica del Brass Group di Trapani
(ottobre-dicembre 2005)
di Vincenzo Fugaldi
È iniziata sotto i migliori auspici la ventunesima stagione concertistica
del Brass Group di Trapani, presso l'Auditorium Comunale (ex cinema Mazara) di Valderice,
uno spazio funzionale per le dimensioni contenute e per la buona acustica. Simpatica
è la consuetudine, ripresa dopo alcuni anni, di offrire al pubblico e ai musicisti
alla fine del concerto una spaghettata accompagnata da buoni vini bianchi e rossi
del trapanese.
L'ottimo avvio, il 12 ottobre,
è stato affidato alla nuova formazione del pianista statunitense Kenny Werner,
denominata "Cosmocentric". Werner ha alle spalle una carriera trentennale,
al seguito di musicisti del livello di
Tom
Harrell e John
Scofield, e da leader di proprie formazioni. I compagni di strada che al
momento lo affiancano sono il veterano sax tenore Bill Drewes, già al fianco
di Paul Motian,
Scofield e Dave Douglas, il trombettista Matt Shulman, il contrabbassista
Hans Glawishing e il batterista Dan Weiss, giovani ma già affermati
talenti dell'area newyorkese. La proposta musicale del quintetto di Werner
si muove nel solco di un hard bop aggiornato, che non lascia spazio a arditezze
o sperimentalismi.
Il concerto è stato introdotto da uno standard,
If I Should Lose You, venato
da qualche incertezza, ma che ha ben rodato il quintetto per i successivi brani,
tutti a firma del pianista. Il sax tenore di Bill Drewes ha mostrato per
buona parte del concerto una sonorità morbida, e nel quintetto, insieme al leader,
ha rivestito il ruolo di solista più tradizionale. Il contrabbassista non si è distinto
particolarmente nel ruolo di accompagnatore, forse per problemi di amplificazione,
ma è stato abbastanza convincente in assolo. Ma le vere sorprese sono venute da
Shulman e Weiss, che danno al quintetto un prezioso contributo di
freschezza e creatività. Il trombettista mostra una tecnica strepitosa, un fraseggio
torrenziale e una sonorità complessa, che spazia dall'emissione di suoni cristallini
all'uso di armonici e di suoni sporchi e modulati. Un talento di cui sentiremo parlare
ancora. Lo stesso vale anche per il batterista Dan Weiss, che si è dimostrato
finissimo accompagnatore, pronto a sottolineare il lavoro dei solisti con le sonorità
più appropriate e con scansioni mai banali, e costruttore di un assolo di semplice
ma perfetta geometria.
Werner non è solo ottimo pianista, ma anche valido compositore: tutti
suoi dunque i lunghi brani eseguiti dopo l'iniziale standard:
Big Unit,
Balloons, con un'introduzione
modale per piano solo, la sognante canzone
Uncovered Heart dedicata
alla figlia, il velocissimo Rhythm,
introdotto dalla batteria e lo splendido brano eseguito come bis,
Shivaya.
Il
27 ottobre è stata la volta
di un quartetto composto dagli statunitensi Andy Gravish, trombettista,
Steve Cantarano, contrabbassista, Roland Vazquez, batterista e dal
pianista italiano Riccardo Fassi. Fassi è noto soprattutto quale leader della
"Tankio Band", con la quale ha inciso un pregevole cd dedicato alle musiche
di Frank Zappa, mentre Gravish è un musicista che ha alle spalle un lungo
elenco di collaborazioni, tra cui quelle con prestigiose big band, e con numerosi
musicisti americani e italiani; anche il contrabbassista ha già collaborato con
Fassi in concerto e su disco, mentre il batterista ha suonato tra gli altri
con musicisti provenienti dal gruppo di Zappa. I brani eseguiti, per lo più composizioni
di Fassi contenute nei suoi più recenti cd, oltre allo sghembo tema di
Blinks di
Steve Lacy,
non sono risultati costantemente coinvolgenti negli arrangiamenti e nelle esecuzioni,
a tratti piuttosto scontate e di routine. I brani più riusciti sono stati
Random Sequence, il lirico
Compassion, colonna
sonora di un film mai realizzato, con il pianoforte in primo piano,
Mars, introdotto da un
buon assolo di contrabbasso, Solar
di Miles Davis e Bemsha Swing di Thelonious
Monk.
Il 6 novembre si
è esibito il quartetto di
Maurizio
Giammarco (sax tenore e soprano), Phil Markowitz (pianoforte),
Piero Leveratto (contrabbasso) e Fabrizio Sferra (batteria). Il gruppo
ha mostrato una coesione esemplare, poiché la collaborazione fra i quattro risale
alla fine degli anni '90, periodo in cui hanno
suonato a lungo insieme in concerto e inciso per l'etichetta francese "Night
Bird" il cd 7+8.
Giammarco
è una delle grandi realtà del jazz italiano, un musicista che ha sempre mostrato
creatività e rigore, vivendo molteplici esperienze musicali, senza mai poggiarsi
su formule risapute; Markowitz è un pianista americano di notevole spessore,
con un solismo ricco e suadente, affermatosi con
Chet Baker
alla fine degli anni '70, che ha collaborato
con molti musicisti importanti, come
Phil Woods, Miroslav Vitous, Bob Mintzer,
Toots Thielemans
e, per una lunga collaborazione, con
Dave Liebman.
Leveratto e Sferra costituiscono un'ottima sezione ritmica, viva e
stimolante per il solista di turno, attenta a sottolineare opportunamente i frequenti
cambiamenti di tempo e tutte le sfumature delle composizioni. I temi eseguiti sono
stati Libra (con
un intenso assolo del contrabbassista) e
Son di
Giammarco,
7+8 di Markowitz,
arduo e spigoloso, il meditativo
Wishes e
Jigsaw, recenti composizioni
del pianista, una intensa versione di Caravan,
con
Giammarco al soprano che esponeva il tema ellingtoniano con sapidi
vibrati. L'immancabile bis, un'altrettanto intensa versione di
'Round Midnight di Thelonious
Monk, ha chiuso nel migliore dei modi l'ottimo concerto. Il Sindaco di Valderice
Lucia Blunda e il Presidente del Brass Group di Trapani Andrea Marchione,
prima del concerto, hanno consegnato a
Maurizio
Giammarco il premio "Una vita per il jazz", giunto alla sesta
edizione.
La
sera del 20 novembre è stata
la volta del gruppo della cantante statunitense Erin Bode, al suo secondo
tour italiano, accompagnata da Adam Maness al pianoforte, Sydney Rodway
al contrabbasso, Chris Higginbottom alla batteria, con la partecipazione
speciale di Seamus Blake al sassofono tenore e alla chitarra. La giovane
Erin, che ha inciso due cd a suo nome per l'etichetta Max Jazz – Don't Take Your
Time, e il recentissimo Over and Over, ed ha collaborato con i pianisti
Eric Reed e Peter Martin, attiva in particolare nella zona di S. Louis, non è una
cantante di jazz: proviene piuttosto dalla popular music americana di qualità
- quel filone abbastanza recente cui appartiene
Norah
Jones - e ha una voce elegante, senza grandi qualità di estensione e potenza, ma
usata con buona tecnica; in concerto ha una presenza leggera e garbata, misurata
e dolce, e propone un repertorio estremamente gradevole, costituito da brani originali,
cover e classici del jazz, che interpreta con gusto, dando grande spazio
ai musicisti che la affiancano. Verosimilmente la caratteristica migliore della
musica di Erin Bode è l'approccio jazzistico a brani pop, l'innesto dell'improvvisazione
di un gruppo jazz in canzoni che hanno strutture che sembrerebbero a prima vista
non favorirla ma che, grazie agli arrangiamenti del pianista, diventano invece talvolta
- proprio per il rischio che propongono - stimolanti e interessanti per i musicisti
e per gli ascoltatori. La buona riuscita della proposta è legata alla competenza
dei musicisti: mentre il contrabbassista si limita ad un accompagnamento essenziale
e senza particolari slanci, il pianista si dimostra buon compositore, arrangiatore,
accompagnatore e valido solista; altrettanto bene va detto del batterista, londinese
che oggi vive negli Stati Uniti, del quale ritengo che sentiremo parlare ancora,
che ha recentemente pubblicato il primo
cd
in quartetto a proprio nome (One, Basho Records), dove esegue anche alcuni
brani di sua composizione, e che mostra un drive fresco ed efficace; ma la
vera forza del gruppo è il sax tenore di Seamus Blake, uno dei nomi più interessanti
oggi sulla scena newyorkese, radicato nella grande tradizione del suo strumento
ma anche dotato di una cifra personale, che sa sostenere con pertinenza la voce
della cantante e in ogni assolo edifica costruzioni sonore sempre diverse e perfette,
piene del giusto pathos, con tecnica sublime, musicalità e controllo del suono probabilmente
senza pari nel panorama attuale dei sassofonisti trentenni, negli standard come
nei brani di matrice pop. Tra i brani eseguiti vi erano composizioni originali (Home
Again, The Optimist,
Over and Over,
Don't Take Your Time,
Sidney Come Down), ballad
appartenenti alla storia del jazz (Once
Upon A Summertime, una suggestiva versione di
Everything Happens To Me, Over the rainbow)
e cover pop (Graceland
di Paul Simon, I Can't Help It
di Stevie Wonder).
Il 25 novembre la
serata è stata dedicata ad un trio di recente costituzione, composto dal pianista
Salvatore
Bonafede, dal contrabbassista Paolino Dalla Porta e dal sassofonista
Javier
Girotto. I tre hanno proposto una musica dal fascino inusuale,
di forte valore evocativo, che sollecita l'immaginario cinematografico di chi ascolta.
Il sostegno ritmico grava in buona parte su Dalla Porta, che svolge il suo
ruolo con musicalità e pertinenza davvero notevoli, contribuendo a dare equilibrio
ad una musica che a tratti non paventa di rischiare, collocandosi ben al di fuori
dei sentieri consueti.
Del
resto, gli altri due musicisti in scena hanno storie e approcci musicali diversi
e peculiari:
Bonafede, musicista e compositore di livello internazionale, ha
un pianismo personalissimo, con riferimenti sia nella musica colta europea che nel
jazz; Girotto,
argentino da anni stabilitosi in Italia, ha una sonorità e un fraseggio spesso distanti
dal jazz e profondamente intrisi della sua matrice etnica. L'unione fra i tre è
contraddistinta da una poetica inedita,
straniante,
ma non priva, in alcuni brani, di momenti non pienamente risolti, che necessitano
probabilmente di una ulteriore messa a punto. Tutti i componenti del trio hanno
presentato proprie composizioni, tra cui
Leggenda metropolitana,
Reputation and Character,
Taceas, me spectes
e Actor-Actress
di Bonafede,
Blu e
Game 7 di Dalla Porta,
Enero e
El Cacerolazo di
Girotto.
Fornire ancora una volta una prova della grande vitalità del jazz - una
musica che sa costantemente rinnovarsi senza rinnegare la propria tradizione, con
quello che senza dubbio è stato il miglior concerto di una rassegna il cui livello
è stato quasi costantemente elevato – è quanto ha fatto il
3 dicembre il quartetto del
batterista statunitense Ari Hoenig, con Seamus Blake al sax tenore,
Jean Michel Pilc al pianoforte e Danton Boller al contrabbasso.
Hoenig è già ben noto per far parte del trio di Kenny Werner, ma ha nel suo
carnet un'impressionante serie di collaborazioni, da Chris Potter, a Joe Lovano,
a Joshua Redman, solo per citarne alcune; dal 2004
è leader di un proprio quartetto, ed ha inciso un primo cd per l'etichetta "Smalls",
The
Painter.
Grande
è l'intesa, corroborata da una lunga collaborazione, con il pianista Jean Michel
Pilc, che lo accoglie da anni nel suo trio. Pilc, parigino stabilitosi
da un decennio a New York, è arrivato alla notorietà negli ultimi anni grazie ad
un contratto con la francese Dreyfus Jazz (per la quale etichetta ha collaborato
su disco anche con il nostro
Rosario Giuliani).
Di Seamus Blake si è già fatto cenno nelle note che riguardano il concerto
di Erin Bode. Il nome meno noto era quello del contrabbassista Danton
Boller, anch'egli attivo da tempo a New York come collaboratore di numerosi
musicisti e come leader di una propria formazione. Descrivere la musica di questo
quartetto non è semplice: il concerto è stato talmente riuscito e coinvolgente da
rendere arduo persino trovare aggettivi non banali per raccontarlo. Innanzitutto
il drumming di Hoenig: musicalissimo, intenso, ricco di fantasia, in prima
linea nei momenti giusti ma pronto a mettersi in secondo piano per sottolineare
con leggerissime sfumature il solista di turno. Un perfetto mix di tecnica e di
cuore, e una concezione della musica come "comunicazione", che riesce a coinvolgere
emotivamente gli ascoltatori. Poi il pianismo di Pilc, sulla medesima lunghezza
d'onda, virtuosistico ma mai stucchevole, trascinante, capace di passare da travolgenti
soli in fortissimo a delicatissimi, sussurrati fraseggi nelle ballad. Perfetti nell'equilibrio
del quartetto gli altri due comprimari: Blake è un sax tenore ideale per
tutti i contesti, ha un senso della forma nella costruzione degli assoli che oggi
non ha pari tra i sassofonisti della sua generazione; Boller è un contrabbassista
notevole, con una tecnica solidissima e un'ottima intesa con i partner. Il concerto
si è basato su alcune belle composizioni del leader (l'iniziale
Without Within, l'intensa
ballad Dark News, la
gioiosa The Painter,
Green Spleen), una strepitosa
versione di Giant Steps, un blues lento
ricco d'atmosfera tutto dedicato ai tamburi di
Hoenig
percossi con le bacchette da timpano tirando le pelli per ottenere la giusta
intonazione, per concludersi con il bis di Blue In Green,
suonata con sobrio e meditativo rispetto dell'originale.
Ancora
di elevata qualità l'ultimo concerto della rassegna, il
17 dicembre, con il trio composto
da Bill Carrothers, Ben Street e Jim Black. Carrothers,
pianista che ha al suo attivo una lunga carriera, con esibizioni nei principali
festival internazionali, collaborazioni con grandi protagonisti del jazz come Bill
Stewart, David King, Scott Colley, Dave Douglas, Curtis Fuller, Drew Gress, Billy
Higgins, Gary Peacock, ha realizzato da leader una dozzina di incisioni discografiche,
e mostra in pubblico una disincantata verve umoristica, come è intriso di
simpatia e autoironia il suo strampalato
sito web. Ben
Street è un contrabbassista strepitoso, che ha collaborato tra gli altri con
Kurt Rosenwinkel ed Ethan Iverson. Jim Black è un batterista attivo da molti
anni a New York e richiestissimo da musicisti creativi come Dave Douglas (nel "Tiny
Bell Trio"), Ellery Eskelin, Chris Speed, Tim Berne,
Uri Caine,
Laurie Anderson; ha anche un proprio quartetto che ha inciso per l'etichetta
Winter & Winter. Il trio ha suonato con una empatia e un interplay che facevano
pensare ad una collaborazione di lunga data: invece è costituito da pochissimo tempo,
e non ha ancora pubblicato alcun cd. L'equilibrio è democraticamente ripartito fra
i tre, che sembrano condividere la stessa idea della musica, sorniona, ironica,
disincantata. La fantasia di Carrothers, capace di plasmare e rendere godibili
e "nuovi" anche gli standard più ovvi, trova perfetta rispondenza nel drumming
di Jim Black, creativo e imprevedibile, ardito e mai banale. Al centro della
musica il contrabbasso di Ben Street, dalla sonorità possente e solidissima,
eccellente anche in assolo. Il trio ha spaziato da celebri brani di Thelonious Monk
(Evidence,
Rhythm-A-Ning,
Off minor) a canzoni della prima Joni Mitchell
(For the Roses), all'ellingtoniana
Caravan, tutti sottoposti ad una convincente
rilettura.