Nel 1983, Graham Collier presentò
ufficialmente la sua Big Band alla nona edizione del festival di Bracknell. L'opera
era stata commissionata come prima performance del festival, e le aspettative furono
tali che Collier ebbe la possibilità di selezionare i musicisti che riteneva
più adatti all'esecuzione delle sue partiture, con totale carta bianca. Ne risultò
un organico eccezionale: fra gli altri si trovavano alle trombe Tomasz Stańko,
Henry Lowther, Ted Curson, Conny Bauer al trombone, John
Surman al sax baritono, Ed Speight alla chitarra ed un implacabile
Ashley Brown alla batteria.
Nello stesso anno John Zorn avrebbe smosso violentemente le acque
con "Locus Solus", e solo due anni dopo Bobby Previte avrebbe esordito
come band leader con il potente "Pump up the reinassance". C'era insomma,
condivisa da diversi compositori, una forza stilista decisamente orientata verso
un avanguardismo vigoroso e risoluto, prosperoso delle ricerche degli anni
'70, che negli anni successivi si sarebbe espansa
sotto forme diverse, prima fra tutte quella elettronica: viene subito in mente il
nome di Gil Evans.
Collier modellò le proprie composizioni su una struttura costituita proprio
da tale avanguardismo, giostrandole fra un susseguirsi di rigida scrittura e pura
improvvisazione. Come egli stesso si curò di far notare nelle note del programma,
l'intera piece risultava alla fine un'interazione complessa fra ogni membro
della band, che portava proprio al dissolvimento della linea di confine fra scrittura
ed improvvisazione.
Questo è sicuramente il miglior lavoro di Collier, che già aveva
steso un interessante canovaccio cinque anni prima con "The day of the dead",
in cui i movimenti sono permeati degli intenti compositivi che caratterizzano
Hoarded Dreams, ma senza presentare la stessa maturità.
L'edizione su CD permette finalmente a chi non ebbe la fortuna di assistere
dal vivo alla performance di assaporare la portata di un grande evento, dove l'abilità
del compositore si mischiava allo straordinario talento dei musicisti. Impossibile
non apprezzare la presenza di Ted Curson (e chi meglio di lui avrebbe potuto
trovare spazio in un progetto del genere?) punta di diamante della sezione delle
trombe, ma pure quella del il trio Griffiths, Bauer e Thelin
ai tromboni, o del bellissimo, costante suono di Paul Bridge.
La performance è suddivisa per comodità di ascolto (e riascolto) in sette
parti, ma attenzione a non basarsi troppo su una lettura frazionata di un'opera
che, invece, trova la propria coerenza e logica nell'essere un unico flusso, una
trama stretta ordita con grande cura. In essa, il perfetto susseguirsi di diverse
direzioni stilistiche, dettato dalla grande varietà di voci in capitolo, non concede
al disco neanche un momento di debolezza, testimonianza della potenzialità di una
delle migliori Big Band degli ultimi 30 anni.
Achille Zoni per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 15/11/2007
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