Jazzitalia - Live: James Farm Quartet (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)
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James Farm
Bologna - Teatro Duse - 10 novembre 2015
di Niccolò Lucarelli
foto di Achille Serrao

Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)Bologna Jazz Festival  James Farm  (J. Redman, A. Parks, M. Penman, E. Harland)
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Joshua Redman - sax tenore, sax soprano
Aaron Parks - pianoforte
Matt Penman - contrabbasso
Eric Harland - batteria

A scaldare le notti bolognesi, arriva da New York James Farm, un quartetto che si pone fra le realtà più interessanti della nuova scena jazzistica della Costa Orientale americana. Per l'occasione, calca il palcoscenico del Teatro Duse, particolarmente importante per la rassegna bolognese, poiché proprio qui, nel novembre di dieci anni fa, Cassandra Wilson aprì la prima edizione del Bologna Jazz Festival.



I quattro di New York (almeno di adozione), presentano al pubblico italiano alcuni brani dell'ultimo album, City Folk (2014) - che ribadisce la natura di questo jazz dalle profonde radici urbane -, accanto a brani di James Farm (2011).

La struttura del quartetto è fortemente paritaria, nel senso che un leader sembra non esserci, ognuno dei componenti avendo a disposizione un ampio spazio musicale, cosa che emerge nei momenti di assenza del sax, quando piano, batteria e contrabbasso ne approfittano per lunghi dialoghi condotti quasi a occhi chiusi, guidati da un istinto ormai collaudato. Un passo in avanti rispetto all'album di debutto, l'eponimo James Farm, dove il sax rivestiva un ruolo predominante. Adesso, invece, dal quartetto scaturisce un jazz compatto, un muro di colore come una tela di Mark Rothko, che non lascia momenti di vuoto fra gli strumenti, e gode di una maggior organicità. E ancora, dal bebop dell'esordio, i brani di City Folk passano a un dinamico e coinvolgente hard bop, a rimarcare anche concettualmente la spigolosità urbana inseguita dalla band.

Ad aprire la serata, Two Steps, un jazz misurato in 3/4 che alterna brevissimi crescendo - piccoli lampi di follia su un arabesco di genialità -, a un amalgama sonoro gradevole e dinamico, specchio della sobrietà della New York del Duemila, dopo gli eccessi degli anni Ottanta e Novanta.

Al sax, Redman esprime un jazz radical-chic, a tratti caustico come un pensiero di Gore Vidal nei suoi passaggi sul registro acuto, a tratti introspettivo e nostalgico come un romanzo di Rick Moody, nell'alternare crepuscolarità e solarità nei fraseggi sul registro grave, in particolare con il sax soprano. Harland alla batteria passa con disinvoltura dalle sommesse percussioni a shuffle scatenati, che danno corpo a ogni singolo brano, e contribuiscono a costruire quell'onnipresente atmosfera urbana, alla base del jazz del James Farm.

Si attraversano atmosfere romantiche, sorrette dal sax soprano, cui si affianca una robusta e solare batteria, a evocare una solitaria passeggiata ai Cloisters, appena dopo il tramonto. Il sax si muove sul registro semiacuto, e il pianoforte sul grave suggerisce uno sconfinamento nel blues, quello del Filmore East degli anni d'oro. Un jazz che racconta un'America matura, che si è ormai lasciata alle spalle gli anni delle piazze e degli eccessi, ma che non ha rinunciato a credere negli ideali.

Farms, è caratterizzata da un'introduzione di "jazz progressivo", con la batteria cadenzata e il piano elettrico che insiste su un motivo a tre note, cui risponde un sax classico, quasi a evocare una donna elegante che passeggia da sola nel Bronx. Una breve escursione di Parks nella psichedelia, con liquide note che cadono come lacrime di nostalgia, prima di una conclusione su toni contemporanei, in 4/4.

Suggestiva City Folk, aperta da un sax lamentoso sul registro acuto, che si scaglia contro il muro sonoro del contrabbasso, un brano vicino al "jazz di Chicago" degli anni Venti, diviso fra un'anima "bianca", tumultuosa, polemicamente antisentimentale, e quella più autentica dei ghetti neri, introspettiva e scintillante insieme. Un brano che nel titolo richiama "il popolo della città", in America costituito da decine di gruppi etnici diversi, la prima differenza visibile essendo però quella fra bianchi e neri. Una differenza che purtroppo, in certe zone degli USA, fa ancora sentire il suo peso.

Al termine del concerto, applausi scroscianti e meritati per un collettivo che esprime una forma di hard bop contemporaneo, che alla raffinatezza formale unisce interessanti considerazioni di stampo sociologico.







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Data pubblicazione: 29/11/2015

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