Intervista a Max Ionata
Roma, 11 Luglio 2004
di Franco Giustino
La prima volta che ho sentito Max Ionata è stato ad Ostia, nell'ambito della manifestazione "Jazz Istruzioni per l'Uso", organizzata dal bravissimo
Massimo Nunzi. Devo riconoscere, che questo ragazzone con il suo sax color argento, mi aveva incuriosito. Il suo talento era evidente. Mi ero riproposto, alla prima occasione, di andarlo ad ascoltare. L'occasione si è presentata al "Meeting del Jazz" di Terni, in cui ha suonato con il suo quartetto, in una angusta Chiesa, dall'acustica mortificante. Nonostante l'handicap sonoro, Max Ionata è riuscito comunque ad esprimere tutte le sue enormi potenzialità.
Un plauso va doverosamente fatto anche al suo gruppo: Luca Mannutza al piano, Marco Loddo (che per l'occasione sostituiva Gianluca Renzi) al contrabbasso e Marco Valeri
alla batteria. A Terni ci siamo conosciuti dandoci appuntamento a Roma per
passare alcune ore tra chiacchiere e musica.
F.G.:
La tua passione per la musica nasce molto presto, quella per il Jazz?
M.I.:
Ho iniziato ad 11 anni, come tutti coloro che soffiano negli strumenti, nella Banda del Paese (e se qualcuno lo nega, non gli credere!). Molti se ne vergognano, rinnegando i loro trascorsi come suonatori nelle Processioni o nelle feste di Paese.
In Provincia, spesso è l'unica possibilità che si ha per suonare. La passione per il Jazz è venuta in seguito, tra molte difficoltà nel trovare incisioni ed informazioni. Pensa che il primo disco in cui ho ascoltato il sax tenore è stato "Sciò"
di
Pino Daniele dove vi suonavano mostri come:
Bob Berg,
Gato Barbieri e
Larry Nocella. In seguito qualcuno mi ha prestato alcuni dischi di jazz, tra cui quelli di
Parker e
Coltrane, e da li è iniziato tutto.
F.G.:
Devo confessarti che la prima cosa che mi ha colpito – prima che tu iniziassi a suonare – è stato il tuo sax tenore, molto particolare. Me ne vuoi parlare?
M.I.:
Certo! E' un sax Borgani, Italiano come me. Viene costruito a Macerata. Devi sapere che tutti i sassofonisti vorrebbero suonare i sassofoni che si costruivano prima degli anni
'60. In quell'epoca gli strumenti si realizzavano a mano e avevano, sia per la qualità dei materiali che per la costruzione artigianale, caratteristiche che per tristi motivi di consumismo non trovi in nessuna azienda moderna. La Borgani ha deciso di adottare quella antica politica, riuscendo a costruire degli strumenti davvero eccezionali. Oltre a me lo suonano i più grandi sassofonisti al mondo come:
Joe Lovano, David Sanchez e il compianto
Bob Berg, oltre a molti altri. Poi è fantastico avere rapporti diretti con il costruttore dei tuoi strumenti. L'Azienda si avvale, tra l'altro, della collaborazione di uno dei migliori riparatori al mondo:
Marco Collazioni. Ringrazio pubblicamente entrambi, è anche grazie a loro se oggi riesco ad esprimermi al meglio.
F.G.:
Dei vecchi Jazzisti di un tempo con chi avresti voluto suonare?
M.I.: Più che con dei
musicisti in particolare, avrei voluto vivere un particolare periodo. Magari
vagando per la New York degli anni
'50/'60, andando nei clubs, avere la possibilità di ascoltare dal vivo quelli che oggi sono per me i musicisti di riferimento.
Mi capita a volte di sognare di vivere quell'epoca. L'anno scorso ero negli Stati Uniti per una serie di concerti con il trombettista
Andy Gravish. A New York sono stato al Village Vanguard, al solo ricordo mi viene ancora la pelle d'oca. Avrei voluto essere lì ad ascoltare
Coltrane, negli interminabili solo, che regalava ad ogni occasione.
F.G.:
Chi ritieni essere il tuo ispiratore.
M.I.: Sicuramente
Coltrane e
Rollins, come la maggior parte dei tenoristi. Mentre dei contemporanei il mio preferito è
Jerry Bergonzi, al quale - nel mio ultimo disco - è dedicato il brano
Mr J.B.
di
Luca Mannutza. Ritengo che la maggior parte delle ispirazioni venga ascoltando qualsiasi cosa riesca a darci sensazioni. Per questo oggi non mi preoccupo più di suonare in un certo modo piuttosto che in un altro. Cerco di essere me stesso nella maniera più onesta possibile, credo che questo pensiero poi si riflette nella musica che viene fuori, e il pubblico se ne accorge.
Spesso capita che qualcuno alla fine di un concerto mi dica: "Io non
capisco nulla di musica, ma tu mi sei piaciuto molto". Per me questo è il
miglior complimento, vuol dire che sono riuscito a trasmettere emozioni, senza
che costui abbia contato quante note ho fatto o quale stile di jazz ho suonato.
Oggi, per qualcuno, sembra essere l'unica cosa che conta.
Sonny Rollins disse: "A volte il mio sax diventa il prolungamento della
mia anima". E' quello che sto cercando da un po' di collegare, spero di riuscirci un giorno.
F.G.:
Mi descrivi come è la vita del musicista. Come si concilia con la famiglia. Sei spesso in giro?
M.I.: Sai la vita del musicista non è sempre splendida. Spesso si è in giro per concerti. Viaggio molto, a volte ci sottoponiamo
sia io che Stefania, mia moglie, a veri "tour de force", pur di riuscire a stare insieme. Poi si vive di notte. Mi sono reso conto che
Luca Mannutza aveva gli occhi chiari dopo un paio di anni che ci suonavo insieme! Abituato a vederlo sempre di notte, con la strana luce dei clubs. Per fortuna gli sforzi sono ripagati con abbondanti soddisfazioni, che possono essere delle buone recensioni, o dei semplici complimenti ricevuti a fine concerto - di importanza vitale per un musicista -, o il fatto stesso che tu abbia deciso di intervistarmi.
F.G.:
Come hai conosciuto i musicisti del tuo quartetto?
M.I.:
Li ho conosciuti alle jam sessions del Gregory's a Roma. Dove ho anche avuto la fortuna di suonare al fianco di
Carlo Atti e
Steve Grossman, imparando tantissime cose. Con tutti ho un ottimo rapporto, in particolare con
Luca Mannutza che, oltre ad essere il mio pianista, è stato il mio maestro.
Devo dire che da lui ho imparato davvero molto, non a caso gli ho dedicato il
brano "Little Hand", che da il titolo all'album.
F.G.:
A questo proposito, come nasce "Little Hand"?
M.I.: E' il risultato di innumerevoli ore di musica passate insieme, suonando, ascoltando e viaggiando, su e giù per lo stivale e qualche volta anche oltre confine. Come, ad esempio, il concorso "Tramplin Jazz D'Avignon", l'ultimo "contest" internazionale vinto insieme.
F.G.:
Nel tuo disco i brani proposti sono quasi tutti tuoi. Come articoli le composizioni. Lavori in maniera "organizzata", o dai libero sfogo alla tua improvvisazione creativa. O entrambe le cose.
M.I.: A volte l'una, a volte l'altra cosa. Talvolta viene fuori una sola frase, sulla quale cerchi di montare un intero pezzo, cercando altre idee se vengono, altrimenti rimangono trascritte nel mio blocco di fogli pentagrammati sul pianoforte, contenente numerosi pezzi iniziati e mai finiti. Speriamo di avere altre ispirazioni cosi da non dover gettare via quegli appunti. A volte invece, come nel caso di "Little Hand", il brano gira tutto intorno ad una sola frase, che è la prima del tema. Questo pezzo è nato durante una prova con l'aiuto di tutti. Ho proposto la frase e gli altri ci hanno suonato, ed è così che è nato il brano.
F.G.:
Dei tuoi lavori come solista o in collaborazione, quale è quello di cui vai più fiero.
M.I.: Del disco con
Ada Montellanico "Suoni Modulanti". Principalmente perché Ada è una splendida cantante, oltre ad essere una seria professionista. Devo a lei inoltre la fortuna di avermi fatto conoscere un musicista eccezionale, di immensa cultura:
Massimo Nunzi. Molto devo anche a
Gianluca Renzi, ad i fratelli
Iodice ed a
Fabrizio Bosso, che approfitto per salutare e fargli gli auguri di una pronta guarigione.
F.G.:
Dei musicisti italiani con i quali non hai mai lavorato, con chi vorresti suonare?
M.I.: Sicuramente
Roberto Gatto, per me è sempre stato un punto di riferimento come batterista e "band leader". Poi con
Enrico Pieranunzi, un musicista di gran classe. Ho avuto l'opportunità di suonare i suoi splendidi arrangiamenti con il gruppo di
Ada Montellanico.
F.G.:
Quali sono i tuoi progetti futuri.
M.I.: Di progetti ne ho molti, moltissime idee che spero di realizzare. E' da un po' di tempo che sto portando avanti un lavoro in trio, suonando un tributo a
Sonny Rollins, con
Lorenzo Tucci
e
Pietro Ciancaglini. Vorrei iniziare a scrivere per questo progetto, rendendolo originale, per poi portarlo in studio. Vorrei incidere anche un nuovo disco, con il quartetto, che oggi è composto da:
Luca Mannutza
al Piano,
Gianluca Renzi
al Contrabbasso e
Marco Valeri
alla Batteria. Questa idea, come è ovvio, mi spaventa un po', ti spiego anche il
perché.
Giovanni Serrazanetti
- il gestore della Cantina Bentivoglio di Bologna -, mi disse: "Caro Max ora sei in guai grossi, hai fatto un disco
(Little Hand - n.d.r.) bellissimo, il grande problema ora è realizzarne un altro che sia migliore o almeno come questo!". Ho in mente anche un tributo al grande Joe Henderson, da realizzare in duo con il pianoforte, sto cercando chi abbia voglia di produrlo. Insomma le idee non mi mancano, ciò che manca è qualcuno che creda in questi progetti. Vorrei ci fosse più attenzione verso i giovani musicisti Jazz, senza timore di sacrificare risorse, incentivando progetti apparentemente poco appetibili. Devo riconoscere di avere avuto, in soli quattro anni di attività, grandi soddisfazioni ma non mi sento certamente appagato.
F.G.:
Grazie di tutto Max.
M.I.: Grazie a te.
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Data pubblicazione: 28/08/2004
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