Vicenza Jazz 2010
Allonsanfan. il Jazz di Là delle Alpi
di Giovanni Greto
Lunedì 10 maggio
Teatro Comunale
McCoy Tyner Quartet
McCoy Tyner,
piano; Gary Bartz, sax alto e sopranino; Gerald Cannon, contrabbasso;
Eric "Camau" Gravatt, batteria.
Martedì 11 maggio
Teatro Olimpico
Gonzalo Rubalcaba
Gonzalo Rubalcaba, pianoforte
Roy Haynes Fountain of Youth Band
Roy Haynes, batteria; Martin Bejerano, piano; Jaleel Shaw,
sax alto e soprano; David Wong, contrabbasso
Ancor più asciutto e lento nei movimenti e sempre seguito
da un'ombra dietro le quinte, che appena finito il concerto lo fa sparire alla prevedibile
curiosità di parte del pubblico, Tyner appare felice nel lungo set vicentino: novanta
minuti, compreso un bis di solo piano. Il pubblico quasi si spella le mani dopo
ogni assolo dei singoli musicisti. Tyner cerca forse di centellinare le proprie
forze e suona nel tema iniziale, nelle improvvisazioni e nel tema finale. La classe
è ancora cristallina. Il suono è riconoscibile alle prime note. E' sempre gustosa
la percussività con la mano sinistra e il percorso talora ancora assai veloce e
melodico con la destra. Soprattutto captiamo la voglia di suonare e la gioia di
sentirsi ancora molto amato dagli appassionati – giovani e non – di jazz. Il set
inizia con "Fly with the wind", ed il terzo pezzo è già "Walk Spirit,
Talk Spirit", dalle incisioni a suo nome nel periodo postcoltraniano per la
"Milestone". Traspare inoltre nelle introduzioni di piano solo una malinconia,
che si accentua con il passare dell'età, unita ad un senso di riflessione sul significato
della esistenza. Accanto a lui, la collaudata sezione ritmica del preciso e non
invadente Gerald Cannon al contrabbasso e del metronomico Eric Gravatt
alla batteria, un po' pesante, ci pare, negli assolo, con una scelta troppo frequente
di inserire durante gli scambi il piatto China.
Gradita sorpresa e gioia di vederlo in forma, Gary Bartz, convincente
sia al sopranino, che al contralto. Una sonorità non nasale, che spesso traspare
in chi suona quest'ultimo fiato, bensì piena. Padronanza e nessun timore nell'avventurarsi
verso sonorità acute. Eleganza nei suoni soffiati, a dimostrazione di un buon controllo.
Il pubblico ha partecipato attentamente allo sviluppo della scaletta, felice di
riascoltare classici come "Moment's notice", "Blues On The Corner"
e la ellingtoniana "In A Mellow Tone". Vorrebbe un bis ulteriore, dopo quello
gradevole di solo piano, ma capisce che è meglio non arrischiare pericolosi affaticamenti
e lascia educatamente il confortevole Auditorium.
Melodico, malinconico fino all'ultimo respiro, Rubalcaba ha tenuto desta
l'attenzione della platea del teatro Olimpico, una sala meravigliosa per i concerti
acustici, come spesso sono quelli di Jazz. Doveva essere un prologo al quartetto
del veterano batterista. Si è protratto per un'ora abbondante ed è stato tra quelli
visti da parte di chi scrive, il concerto più bello. Rubalcaba ha saputo scardinare
le nostre difese corporee, chiuse in questa società globale sempre più cupa e crudele.
Ci ha fatto capire che c'è ancora qualcosa di bello nella vita terrena, in un pianeta
in declino a causa dell'imperizia ed ignoranza dell'uomo. Ha eseguito diversi brani
dall'andamento classicheggiante con echi della ricca tradizione del suo Paese. Esemplare,
verso la fine, l'esposizione di un tema, "Besame Mucho", che purtroppo è
spesso presente nelle feste da ballo, in quei tristissimi ultimi dell'anno, dove
la gente si riempie la pancia di alimenti di scarso valore e sapore e si getta nella
danza, prigioniera dei trenini. Un tema che tarda a farsi riconoscere, preso alla
larga, quasi con pudore, ma che una volta inteso, ti entra dentro e ne capisci la
bellezza. Rubalcaba inoltre ha un ritmo non comune ad altri pianisti. Si legge nelle
biografie, che avesse tentennato tra il diventare batterista o pianista.
Gli anni sono passati anche per lui, ma fisicamente sembra ancora quel timido
ragazzino che pare abbia sorpreso il pubblico di Montreux nel 1990 suonando con
mostri sacri quali
Charlie
Haden e Paul Motian. Suona per oltre un'ora e mezza, concedendo una versione
medio veloce di "Donna Lee" come bis, l'ultimo veterano della
batteria jazz. Il pubblico lo gratifica di scroscianti applausi, brano dopo
brano, solo dopo solo, stupito di come un 85enne riesca ancora a macinare swing.
Certo non è più in grado di fare quegli attacchi tremebondi dopo o prima del
solo di un altro strumento, si concede pause, eccede nel percuotere i piatti. Ma
vederlo ancora impegnato in assolo faticosi fa ben sperare nell'allungamento –
ben vissuto – dell'età. Lo circondano tre bravi giovani – il migliore è forse il
pianista – attenti a correggere qualche errore o calo di tensione, perfettamente
comprensibile e affettuosamente perdonabile vista l'età. Ciò che piace è ancora
la sua voglia di suonare, di ideare assolo, quasi una metafora del percorso di
una vita che sembra riservare, buon per lui, ancora momenti di gioia. La musica
come terapia dell'esistenza che tiene lontano i malanni e, forse anche le
badanti.
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COMMENTI | Inserito il 15/8/2010 alle 19.55.47 da "danilo.memoli" Commento: Ciao Abbey, grazie per sempre! | |
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Data pubblicazione: 27/07/2010
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