Il famoso cortile di Via Margutta 51, immortalato nell'immaginario
collettivo dalle sequenze di "Vacanze Romane" – il mitico film con Gregory
Peck e Audrey Hepburn - apre le porte dal 23 luglio all'11 settembre per ospitareil Roma Summer Jazz Fest, ormai l'unico festival jazz estivo nella capitale,
con un cartellone di artisti nazionali e internazionali, tra i quali Roy Hargrove,
Mark Turner, Nir Felder con
Roberto Gatto,
Roberta Gambarini,
Maria Pia De Vito,
Rosario Giuliani,
Alessandro Lanzoni e molti altri. La programmazione nasce dall'esigenza di colmare
un imperdonabile "vuoto", che rischiava – incredibile ma vero – di lasciare una
delle capitali europee priva di una rassegna jazz estiva, con la Casa del Jazz momentaneamente
"declassata" ad ospitare il Festival dell'Unità, Villa Celimontana interrotta ormai
da anni, ed altre rassegne più giovani ferme al palo.
Nell'ambito del jazz, e della musica
dal vivo in generale, si è creata a Roma una situazione assai complessa, per non
dire critica, che merita un serio approfondimento nelle opportune sedi, manageriali,
politiche, istituzionali prima ancora che artistiche. Merito dunque agli organizzatori
che hanno avuto il coraggio di proporre una rassegna di rilievo in una "location"
dal fascino unico: un luogo allo stesso tempo intimo e raccolto, ma in grado di
garantire un'adeguata capienza di pubblico.
L'inaugurazione del 23 e 24 luglio con i due concerti del quintetto americano di
Roy Hargrove non ha tradito le attese. B.A.M.: Black American Music, questo
sembra essere l'appellativo più adeguato a definire il percorso artistico del trombettista,
che, partendo dalla più rigorosa tradizione post-bop, ha sempre dialogato con le
suggestioni funky e hip-hop che hanno certamente influenzato i musicisti della sua
generazione, come ben evidenziato nei dischi prodotti con il progetto parallelo
RH Factor.
Il quintetto "classico" rimanda immediatamente alla grande tradizione dell'hard
bop nelle forme più evolute e sofisticate degli anni Sessanta, seguendo il grande
arco dei trombettisti dei Jazz Messengers, a partire da Clifford Brown fino a Woody
Shaw, passando per gli imprescindibili Lee Morgan e Freddie Hubbard. Roy Hargrove
assieme al suo gruppo riassume e rielabora nel suo stile gli echi di tanta storia,
ma non si tratta di accademia, perché riesce ad infondere alla musica quei caratteri
di urgenza, di autenticità e, perché no, di gusto del gioco, facendo cose difficilissime
senza prendersi troppo sul serio, caratteristiche che, fino a prova contraria, restano
ancora la quintessenza del jazz. Lo dimostrano i dischi incisi con questo tipo di
formazione, "Nothing Serious" del 2006, e soprattutto il più recente ed acclamato
"Earfood".Il concerto del 24 luglio – seconda serata – non a caso si apre
in chiave profondamente blues, con un possente giro di basso che introduce "Tom
Cat" di Lee Morgan, e si chiude, prima dei bis, con gli accenti gospel e soul
di "Bring it on home to me" di Sam Cooke.
Nel mezzo tanta musica e tanta sostanza di alto livello: Justin Robinson è un Cannonball
Adderley del terzo millennio: potente, funambolico, fortemente espressivo, a volte
rischia di rubare la scena al leader. La sezione ritmica ad alta temperatura "cuoce"
a dovere, con una menzione speciale per il solidissimo Ameen Saleem, perno fondamentale
della formazione, un brillantissimo Quincy Philips dietro i tamburi, e l'ottimo
lavoro, elegante, inappuntabile e mai sopra le righe di Sullivan Fortner al piano.
Rispetto ad altre esibizioni di qualche anno fa, Roy, non avendo più bisogno di
convincere per le sue innegabili doti tecniche, sembra maggiormente interessato
ad un ambito più espressivo, concentrandosi maggiormente sulla profondità dell'interpretazione.
E proprio nelle ballads, accarezzate dalla voce del flicorno, che fornisce le prove
più convincenti, salvo poi calarsi nelle vesti di "crooner" con una esilarante versione
vocale di "Never let me go".
Un grande concerto che conferma ancora una volta questa formazione ai massimi livelli
internazionali.