Massimo Nunzi Jazz istruzioni per l'uso Orchestra featuring Francesco Cafiso, Andrea
Tofanelli "The Modern World / The Music Of Stan Kenton" Sconfinando 2010. XIX Festival Internazionale di Musica & Suoni dal Mondo Sarzana (La Spezia), Fortezza Firmafede, 16 luglio 2010
di Vincenzo Fugaldi
Un interessante e fecondo approccio divulgativo-didattico ha
caratterizzato la nuova impresa musicale di
Massimo
Nunzi, attivissimo band leader autore di un recente volume per Laterza
dal titolo Jazz istruzioni per l'uso. L'eclettico festival sarzanese, alla
diciannovesima edizione, ha dato il battesimo in prima internazionale assoluta a
questa nuova orchestra, che vedeva schierati sul palco alle trombe
Andrea Tofanelli,
Mike Applebaum, Francesco Lento e Mario Caporilli; ai tromboni
Luca Giustozzi, Enzo De Rosa, Massimo Pirone e Rosario Liberti;
ai sassofoni Massimiliano Filosi, Luigi Di Nunzio, Pedro Spallati,
Alessandro
Tomei e
Marco Guidolotti,
oltre a Marco Loddo
al contrabbasso, Enrico Zanisi al pianoforte, Roberto Pistolesi alla
batteria e la partecipazione straordinaria di
Francesco
Cafiso.
La scommessa di Nunzi – vinta pienamente
visto il grande consenso ricevuto dal foltissimo pubblico presente – era quella
di avvicinare gli ascoltatori al jazz facendo leva su quanto loro è più familiare
in musica. E per il pubblico italiano il suono delle orchestre kentoniane è quanto
mai noto attraverso le colonne sonore dei film americani e dei cartoni animati,
ma soprattutto attraverso il sound dell'orchestra della RAI, per la quale il mondo
orchestrale di Stan Kenton ha costituito, sin dagli anni '50, il principale riferimento.
La visionarietà di Kenton, paragonata da Nunzi a quella di Frank Zappa e di Don
Ellis, la sua caparbia follia, il suo estremismo musicale, il suo sforzo di inglobare
sotto l'egida del jazz i ritmi cubani e le esperienze della musica contemporanea
europea, lo rendono ancora oggi oggetto di studio per i musicisti più attenti e
curiosi come Nunzi.
Le scelte di repertorio si sono rivolte ad alcuni notissimi cavalli
di battaglia del band leader di Wichita, eseguiti con gli arrangiamenti originali,
comparati con brani resi famosi dall'orchestra della RAI. Si sono ascoltati tra
l'altro Machito, scritto da Pete Rugolo, esperimento sulla musica cubana
contemporaneo a quelli condotti da Dizzy Gillespie, Autumn in New York arrangiata
da Bill Russo, Cuban Carnival, Frankie Machine, soundtrack del film
"L'uomo dal braccio d'oro" composta da Bernstein ed eseguita da membri dell'ambiente
kentoniano, Carl di Bill Holman dedicato a Carl Fontana, The End of a
Love Affair interpretata da Cafiso nell'arrangiamento di Lennie Niehaus,
Intermission Riff, da sempre utilizzata come sigla di TV7, per arrivare al mondo
della musica italiana con la splendida Brava di Bruno Canfora che ricordiamo
nella virtuosistica interpretazione di Mina, qui arrangiata da Applebaum; All
the things you are con gli assoli di Di Nunzio, Zanisi e Cafiso; una composizione
di Nunzi intitolata Pete Rugolo, la sigla de "Il rischiatutto" composta da
Mario Migliardi, per chiudere con il bis Dinaflow, composto da Kenton e Art
Pepper.
La compagine orchestrale, diretta da Nunzi con assoluta professionalità,
era perfetta in ogni sezione, nonostante la giovane età di molti dei componenti.
Proprio tra questi si sono avute le maggiori sorprese: oltre naturalmente a Cafiso,
che si è differenziato rispetto al sound comune per degli intriganti influssi dolphiani,
altri componenti come il trombettista Francesco Lento, il pianista Enrico
Zanisi, il baritonista
Marco Guidolotti
e il diciottenne sax alto napoletano Luigi Di Nunzio – nome questo da tener
particolarmente d'occhio – si sono distinti in assolo almeno quanto i navigati
Andrea Tofanelli,
che ha sostenuto con ottima tecnica il difficile ruolo fergusoniano dei sovracuti,
e il trombonista Massimo Pirone.
Intervista a Massimo Nunzi Sarzana (La Spezia), 17 luglio 2010
di Vincenzo Fugaldi
Qual è la genesi del progetto su Stan Kenton che hai
presentato in prima assoluta qui a Sarzana?
Jazz istruzioni per l'uso nasce con uno scopo preciso:
quello di avvicinare le persone che sono interessate al jazz ma non hanno il coraggio
né il tempo di approfondire l'argomento con dei concerti che possano rappresentare
una guida, ma anche incuriosire e stimolare le persone che già conoscono questa
musica. Ho avuto la fortuna di lavorare in tanti campi diversi, ho diretto l'orchestra
della RAI, fatto musica da film, lavorato in Francia, dove poco tempo fa ho diretto
l'Orchestra nazionale del Jazz a Parigi su una mia opera. Ho diretto anche orchestre
sinfoniche, scritto per orchestra sinfonica, per balletto, per teatro. Questa capacità
diciamo "multitasking" mi ha permesso di incontrare tanta gente, e ho trovato sempre
un grande interesse nei confronti della musica più sofisticata e colta, ma anche
una certa difficoltà a entrarci per motivi legati a una qualche forma di timidezza.
Infatti la prima frase che mi dicono è sempre "io non mi sento all'altezza". Allora,
utilizzando gli elementi che ho a disposizione, che sono storici, di costume, politici,
sociali, costruisco un tessuto che permette alle persone di entrare nel jazz dalla
porta principale, che è la loro esperienza, ciò che sanno. Per esempio, se racconto
che Jacqueline Onassis è stata una delle più grandi committenti di opere - per esempio
la Grande Messa di Bernstein è stata commissionata proprio da lei, ma anche tante
altre cose, anche in campo jazzistico -, probabilmente attraggo anche un pubblico
di persone che sa chi è Jacqueline Onassis ma non sa chi è Leonard Bernstein,
o Duke Ellington.
Perché la scelta è ricaduta su Stan Kenton?
Perché Kenton, nel rapidissimo periodo di evoluzione del jazz,
che ha visto passare sul suo palcoscenico tantissimi geni, è stato rapidamente epurato,
per una serie di motivi anche legati al fatto che è stato accusato di essere fascista,
di essere un musicista che non suonava mai con i neri, eccetera. Io ho un grande
amico, Marvin Stamm, che ha suonato molto tempo con lui quand'era molto giovane,
e ho una visione diversa di Kenton. Per esempio so che il problema dei bianchi e
dei neri nelle orchestre era sentito anche da Woody Herman, o da Buddy
Rich. Ma la verità era che semplicemente che i neri non potevano viaggiare insieme
ai bianchi. Ad esempio Roy Eldridge in tournee con Artie Shaw lamentava
di non riuscire a trovare un posto dove dormire se non a decine di chilometri dal
luogo dove suonava l'orchestra, e questo rappresentava un enorme disagio, perdurato
sino agli anni '70.
Probabilmente Kenton aveva simpatie politiche di destra
ma sicuramente non è stato razzista.
No, infatti ha suonato con Charlie Parker, con Dizzy Gillespie.
Certamente riconosceva la grandezza di Earl Hines, che era il suo mito.
Non possiamo applicare le nostre logiche politiche a quelle
di sessanta anni fa negli Stati Uniti.
Certo, il conservatorismo americano è completamente diverso.
Kenton sicuramente stimava moltissimo Benny Carter, ha copiato Don Redman,
Jimmy Lunceford, infatti tutto quel suono puntuto dell'orchestra all'inizio,
con gli staccati dei sassofoni era preso proprio da Lunceford.
Ma la scelta di Stan Kenton è una scelta estetica, nel
senso che tu preferisci le musiche di Stan Kenton a quelle di Basie?
Io non amo Stan Kenton. Non lo amo per niente, lo trovo irritante
per certi versi. Ma sono attratto dai visionari come lui, come Frank Zappa,
Don Ellis. Sono curioso della musica, la rispetto e rispetto i musicisti
anche se fanno scelte che non condivido. Credo che Kenton sia stato interessante
per noi italiani perché l'orchestra della RAI del '58 formata da Armando Trovajoli
era stata creata proprio con una tipica formazione kentoniana 5-5-5: tra le 5 trombe
c'era Beppe Cuccaro, che faceva i fischi come Ferguson, e i musicisti che
hanno lavorato in Italia nei primi anni '60
(ricordo Bill Gilmore al trombone, che aveva suonato con Chet e con
Dino Piana,
Bill Holman che aveva realizzato una colonna sonora per un film) avevano
importato il suono e il sapore di Kenton. La televisione, che a quell'epoca quando
non c'erano le trasmissioni aveva il monoscopio, spesso lo sonorizzava con il west
coast jazz, poi ripreso anche dal sestetto italiano di Valdambrini-Piana,
e tutto quel mondo del west coast veniva sempre dalla lezione di Kenton,
che aveva con sé Lennie Niehaus,
Lee Konitz, Bud Shank, Bob Cooper, Shelly Manne,
Shorty Rogers. Kenton mi interessava come fenomeno musicale, per me è interessante
musicologicamente. Sono come un chirurgo, studio gli arrangiamenti. Ho studiato
con Pete Rugolo. Pete ha fatto delle cose francamente anche brutte, ma capisco
il suo sforzo, e rispetto moltissimo questi musicisti. Come rispetto Bob Graettinger,
che ha composto anche delle cose aberranti, che non si possono proprio suonare,
però ne rispetto l'afflato verso la novità, verso il "moderno", che era una febbre
che aveva preso tutti, e Kenton è stato sicuramente un visionario che ci ha rimesso
di suo, ha speso tutti i suoi soldi, è andato al fallimento, ha avuto periodi di
grave disagio psichico, come me d'altra parte [ride, n.d.r.], perché portare avanti
un'orchestra non è mai stato facile.
Mi è piaciuto molto il tuo approccio divulgativo e didattico.
È qualcosa che hai sempre fatto, o è una scelta legata a questa occasione?
Da quando ho scritto il libro Jazz istruzioni per l'uso,
per la Laterza, e poi la serie sulla storia del jazz per l'Espresso-Repubblica,
ho evoluto questo rapporto con una divulgazione popolare ma nello stesso tempo sofisticata.
Ieri per esempio ho raccontato l'evoluzione della musica di Kenton non nel jazz,
ma nella musica popolare, quindi l'influenza che ha avuto sulla musica da film,
sui grandi media, sui cartoni animati. Tutte le musiche di quegli anni erano realizzate
da orchestre in qualche modo kentoniane, anche la musica dei Flinstones, dove la
prima tromba fa degli acuti imitando Ferguson.
Parliamo di questa big band che hai riunito per Sarzana.
Ci sono dei giovani interessantissimi e anche dei "vecchi leoni" del jazz italiano.
Penso che, come diceva Italo Calvino nelle Lezioni americane
(che ho ripreso tra l'altro come opera che ho scritto e suonato in Francia con l'Orchestra
nazionale del jazz francese), la visibilità sarebbe stata la cosa più difficile
da ottenere oggi, con tutta questa enorme massa di informazioni. Allora l'orchestra
è ancora oggi uno spot essenziale per la popolarità di un giovane musicista, e soprattutto
per farsi le ossa. Infatti i giovani mi ringraziano di questa opportunità, perché
hanno la possibilità di suonare una musica che non conoscono, forgiandosi tecnicamente,
perché suonare con l'orchestra è difficilissimo, richiede una grande attenzione.
Per esempio Francesco Lento, questo prodigioso nuovo trombettista, o Luigi
Di Nunzio, altista di Napoli che ha appena diciotto anni, erano in estasi, perché
per loro dopo aver fatto un lavoro così attento, così preciso sulle partiture, alzarsi
e fare un assolo sembra quasi come volare, perché non hai più quel blocco della
parte, quella costrizione. D'altronde non è un caso che
Lee Konitz e molti i grandi musicisti, anche
Stan Getz abbiano suonato tanto in orchestra. È formativo.
Adesso tocchiamo un tasto dolente. In questa situazione
di grave crisi economica, cosa significa vivere oggi in Italia il ruolo di band
leader?
Io posso affermare ufficialmente che per portare avanti un'orchestra
sono in totale remissione. Vivo facendo altre cose musicalmente parlando, faccio
il compositore. Tutto quel che riguarda l'orchestra è in perdita. Ma è sempre stato
così. È stato così per Quincy Jones, è stato così per Stan Kenton,
per Ellington, che se non fosse stato per i diritti d'autore sarebbe naufragato
dopo poco tempo.
È sempre stato così, però fino a qualche anno fa la RAI
aveva tante orchestre e adesso non ne ha più nessuna.
Questo fa parte di un programma di smantellamento della cultura
che credo sia evidente ma credo che sia ormai "accettato". Ecco, una cosa che io
non sopporto, da parte anche dei miei colleghi e della critica jazzistica, e lo
dico anche per creare se possibile un dibattito, è che non è sufficientemente compreso
che se non si ricostituisce il pubblico siamo tutti fregati. Un lavoro come quello
che ho fatto ieri a Sarzana può creare un grande interesse da parte di pubblici
che non hanno nessuna dimestichezza col jazz. Infatti tantissimi mi hanno chiesto
il libro che ho scritto, per approfondire. Invece l'atteggiamento di chiudersi dei
jazzisti e dire "io me ne frego, faccio la mia musica" e magari anche criticare
cose come quelle che faccio io (può succedere, dei colleghi lo hanno fatto) è una
forma di autodistruzione. Spesso vedo molta rigidità nei musicisti, una chiusura,
una specie di atteggiamento snobistico che dice: no, io non devo spiegare niente.
Ma se non spieghiamo niente, alla fine ai concerti non verrà più nessuno. Perché
quello che noto, nei festival e quando giro per il mondo (meno in Francia e in Germania),
e anche in Italia, il pubblico medio del jazz ha un'età molto alta. Non ci sono
giovani. Dunque quando non ci saranno più i vecchi non ci sarà nuovo pubblico. Dunque
dobbiamo lavorare per ricostruire il pubblico, questo deve essere il nostro principale
obiettivo.
Siamo pienamente d'accordo. Chiudiamo con una domanda sulla
crisi italiana in rapporto alla crisi a livello internazionale.
La mia esperienza principale all'estero è in Francia, dove realizzerò
adesso un disco per Harmonia Mundi della mia opera su Calvino con un tentetto
composto da alcuni membri dell'Orchestra nazionale del jazz francese e da Fabrizio
Sferra alla batteria. In Francia c'è una grandissima umiltà da parte dei musicisti,
una collaborazione commovente. C'è un atteggiamento di comunanza d'intenti, e quindi
anche di sacrificio, forse perché lì la crisi si sente più forte, e tutti dal primo
all'ultimo si adoperano a dare il massimo. Noto che all'estero c'è più rispetto
tra musicisti, c'è più afflato, molta più collaborazione e più apertura, per quello
che ho visto io, almeno. Con me sono stati tutti estremamente generosi, anche fermandosi
di più alle prove per fare una cosa perfetta, sacrificandosi anche se ci sono meno
soldi. Tengono molto alla musica. Hanno anche programmi di divulgazione nelle scuole,
dove anche io ho lavorato molto. Ho provato a farlo anche qui, ma in Italia è tutto
troppo legato alle mutevoli decisioni degli amministratori. Credo che la crisi sia
mondiale, ma nel nostro paese ancora secondo me non si sente per quello che è, perché
qualcosa è rimasto in piedi. Tuttavia già dall'anno prossimo penso che si sentirà
molto forte.
Intervista a Carmen Bertacchi direttore artistico e organizzatore del festival "Sconfinando" Sarzana, 17 luglio 2010 di Vincenzo Fugaldi
Il festival "Sconfinando" reca già nel nome la sua idea
di base, che è quella di eludere i confini – pure esistenti – tra le musiche e le
arti, e i confini geografici tra queste, realizzando, già da quasi vent'anni, delle
proposte di estremo interesse che contribuiscono a una positiva connotazione del
territorio sarzanese. Come è nata l'idea di realizzarlo?
Mi occupo da molti anni del Settore cultura e spettacolo del
Comune di Sarzana. In precedenza ho vissuto a Firenze, in anni in cui il capoluogo
toscano era molto vivo (gli anni '70-'80),
e ho cominciato ad ascoltare musiche di un certo tipo, nella rassegna "Musica dei
popoli", al FLOG, nei festival jazz a Boboli, dove si esibivano tutti i più grandi
nomi. Tornando a Sarzana ho cominciato a pensare a un progetto, in anni in cui non
c'erano ancora internet e google. Nel fossato della fortezza, non era ancora completamente
restaurata, che abbiamo appositamente ripulito, abbiamo dato il via a "Sconfinando".
In realtà la primissima edizione è stata fatta nel 1991
in due piccole piazzette del centro storico, e abbiamo realizzato in teatro un concerto
di Jan Garbarek
la prima volta che venne a suonare in Italia. Il senso è dunque quello di uno sconfinamento
mentale, e il nome viene fuori dal fatto che siamo una terra di confine, questa
bassa Lunigiana che confina con l'Emilia, La Liguria, la Toscana. Abbiamo un po'
le caratteristiche di tutte queste regioni. E poi mi piaceva l'idea di mescolare…
Quello che posso dire in tutta sincerità è che questo festival mi corrisponde molto,
l'ho messo su con tanta passione, mettendo insieme il jazz, la classica, la prosa,
le arti performative. Ho sempre cercato di dare voce e spazio a cose inconsuete,
realizzando un percorso che all'inizio è stato un po' faticoso, perché sono stata
la prima a fare un progetto di questo tipo in una realtà di provincia. Naturalmente
"Musica dei popoli" ha ispirato tutti a proporre world music in tempi in cui questo
genere aveva un senso, mentre adesso la fase è già superata. D'altronde non si può
sempre star fermi su un genere, ma bisogna andare a cercare quello che c'è di nuovo,
da oriente a occidente. Ho sempre realizzato progetti speciali, cercando di unire
in maniera ideale mondi differenti, con religioni differenti. Il mio è un piccolo
contributo personale per far passare delle proposte non omologate o incanalate in
un contenitore televisivo e consumistico. È quasi una piccola missione, perché non
abbiamo grandi finanziamenti, ed è difficile far passare questa cosa anche in un'amministrazione
come Sarzana, dalla quale comunque io dipendo da un punto di vista amministrativo,
che ha creduto nel progetto sin dall'inizio e mi ha permesso di portarlo avanti
per vent'anni. Però all'inizio è stata dura, far capire qui cos'erano i monaci tibetani,
il canto Höömij della Mongolia, chi era Joe Zawinul. Il pubblico locale era
abituato ad artisti più conosciuti.
Affrontiamo l'aspetto del jazz nell'ambito di "Sconfinando".
Ho visto dai programmi che negli anni ci sono stati vari eventi. Come ti regoli
per le scelte in questo settore?
Mi rivolgo a un jazz "contaminato", per usare una parola abusata,
per esempio Garbarek o Zawinul con
Trilok Gurtu. La scelta parte
dall'idea di cercare qualcosa di particolare, informandomi su ciò che avviene nel
mondo della musica e tessendo una rete di relazioni con delle agenzie che credono
nei progetti e realizzano produzioni originali. L'anno scorso abbiamo avuto un grande
del jazz come Wynton Marsalis con la Lincoln Center Jazz Orchestra,
con un impegno finanziario notevole per il nostro piccolo grande festival, piccolo
soprattutto per il budget, ma che negli anni è riuscito ad avere anche dei grandi
nomi del jazz, come è il caso del bellissimo progetto su Stan Kenton di
Massimo
Nunzi che ha abbracciato l'idea con grande generosità. Il jazz è una
musica che a me piace molto, lo ascolto anche nella mia attività artistica. La musica
mi piace tutta, però vedo il jazz come uno spazio libero, un linguaggio di assoluta
libertà nonostante il fatto che chi lo suona abbia dei canoni spesso rigidi da osservare.