Questo disco, senza esagerazioni, è a dir poco stupefacente. Moltissime
sono le caratteristiche, e tutte assolutamente eccellenti, che ne fanno un'ottima
registrazione e lo rendono così notevole. Prima fra tutte, quella di essere il frutto
di una passione accorata e tangibile.
Il quartetto, composto da Claudio Giovagnoli
ai sax, Fabrizio Morganti alla batteria,
Paolino
Dalla Porta al contrabbasso e Leonardo Pieri al piano, è riuscito
in pochi giorni – così si legge nelle copiose note interne – a mettere in piedi
ben 17 brani che comprendono una spaziatura stilistica alquanto vasta, ma sempre
accorta a non innestarsi su un'esposizione esecutiva prevedibile e tradizionale.
Al contrario, e ciò è ben percepibile durante l'ascolto, l'approccio dei musicisti
alla materia sonora è istintivo, fresco e – soprattutto - naturale. I brani corrono
uno dietro l'altro con fluidità, grazie a un poderoso senso del ritmo, ed ognuno
sembra rappresentare una dimensione a sé stante, con il proprio riferimento stilistico
e le proprie contaminazioni.
Chiedersi e andare a cercare quali potrebbero essere anche solo le influenze
più palesi nel disco non è affatto cosa semplice, tanta è la ricchezza che ne ispessisce
il contenuto. Sicuramente c'è, in primo luogo, un grande riferimento, seppur generico,
alla musica fusion più moderna, così come al jazz rock (ed è palese nel primo brano,
uno spudorato quanto coinvolgente tributo ai Weather Report maturi), quindi
la tendenza a privilegiare ritmi ad ottavi pure piuttosto che "swingati". Più nel
dettaglio, invece, si scorgono in continuazione debiti alla musica centroafricana,
a moltissime tradizioni musicali popolari dal mediterraneo ai balcani, e persino
alla musica barocca o forse ancora più antica; frequente è inoltre l'impiego di
scale orientali o arabe. Ma è già chiaro al primo ascolto come sia impossibile cercare
di inquadrare i brani dentro qualche filone stilistico o a coerenti ed univoche
influenze. L'unica caratteristica percepibile con costanza è un volersi guardare
attorno, raccogliere sonorità e stili diversi, giocandoci nel senso più costruttivo
fino a trarne una lodevole fusione.
Inoltre trovo particolarmente bella l'idea, opposta a quella di allegare
qualche immagine di repertorio o l'estratto del parere lodevole di qualche recensore,
di sfruttare la possibilità di un libretto interno prodigandosi in una presentazione
della carriera dei musicisti ma soprattutto in una appassionata inquadratura del
progetto alla base di "Native Quartet". Così si permette all'ascoltatore di andare
subito più a fondo: ciò che sta per mettere nel lettore cd è un progetto compatto
e risoluto, anche nel far comprendere la musica dall'interno, dal punto di vista
di chi ha composto e suonato. Claudio Giovagnoli non ha intenzione di lasciar
sfuggire questo aspetto, e fa bene.
"Native Quartet", in riferimento tanto all'organico quanto al disco, trabocca
di passione e di libertà creativa. Non è necessario indagare troppo sulle peculiarità
dei singoli brani: sarà l'ascoltatore ad avere il piacere di scoprire i significati
non solo formali, ma anche genetici, di una così limpida produttività artistica.
Achille Zoni per Jazzitalia
15/05/2011 | Giovanni Falzone in "Around Ornette": "Non vi è in tutta la serata, un momento di calo di attenzione o di quella tensione musicale che tiene sulla corda. Un crescendo di suoni ed emozioni, orchestrati da Falzone, direttore, musicista e compositore fenomenale, a tratti talmente rapito dalla musica da diventare lui stesso musica, danza, grido, suono, movimento. Inutile dire che l'interplay tra i musicisti è spettacolare, coinvolti come sono dalla follia e dal genio espressivo e musicale del loro direttore." (Eva Simontacchi) |
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Data pubblicazione: 12/01/2009
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