Intervista a Rita Marcotulli
Padova Porsche Jazz Festival 2008
19 novembre 2008
di Maria Giovanna Barletta
Rita Marcotulli,
tra i "decani" del pianismo jazz italiano, al Porsche Jazz Festival come
guest del "Sounds of Rome" della Paolo Damiani Quasi Band, ci racconta come il suo
approccio alla musica, attraverso l'esigenza compositiva, sia mutato nel tempo divenendo
elemento imprescindibile di una maturità artistica oramai riconosciuta a livello
internazionale.
Cosa pensa della scena jazzistica europea oggi?
In passato si era molto più concentrati sull'America,
perché è una musica che nasce lì. I musicisti europei ci sono sempre stati, sono
sempre esistiti; in questo momento, il livello si è alzato tantissimo in Italia
e ci sono tanti musicisti bravissimi, soprattutto pianisti. Una delle prime etichette
che ha dato spazio e scoperto grandi musicisti europei è stata l'ECM, come ad esempio
Kenny Wheeler, John Taylor e lo stesso
Enrico Rava
che in quel periodo registrava con loro.
Ci sono pianisti che lei predilige che fanno parte della
scena contemporanea italiana?
A parte i famosi,
Stefano
Bollani,
Danilo
Rea, amici che stimo, c'è
Claudio Filippini
e tantissimi altri…Personalmente mi sento più compositrice, perché il jazz in realtà
è "una composizione istantanea", mi piace suonare le mia cose; la voglia
di ricerca e di sperimentazione nasce probabilmente perché nel jazz si parla di
se stessi e si descrive quello che viene vissuto in prima persona.
Nel nord Europa c'è una tendenza che si muove maggiormente
verso l'elettronica, chi secondo lei si distingue per essere molto all'avanguardia?
Una volta Thelonious Monk rispose a
Steve Lacy:«il
genio è quello più vicino a se stesso.» Risposta che io condivido; la cosa più
importante è quindi l'originalità nel tirare fuori le proprie cose. I musicisti
nord europei, a mio avviso, si pongono il problema di dire qualcosa di loro stessi,
non soltanto di essere dei bravissimi interpreti come tanti nel jazz. Generalmente
molti musicisti conoscono perfettamente il linguaggio armonico, ma hanno poca personalità.
Io apprezzo maggiormente chi non si fa tanti cliché e che riesce però a trasmettere
emozioni.
Lo studio quindi, aiuterebbe a maturare il proprio linguaggio?
Sicuramente, ma anche l'esperienza, la vita. Se uno studiasse e basta probabilmente
suonerebbe per i muri di casa (sorride). L'arte è un mezzo d'espressione, ponte
tra l'inconscio e la memoria, più si matura e meglio è. Ad esempio un libro letto
a quattordici anni acquista un altro peso rileggendolo a quasi cinquant'anni come
me! (sorride) Dipende dal peso che si dà alle cose, come anche nelle note. Le note
sono sempre le stesse, è come uno riesce ad esprimerle, che peso gli dà e questo
sicuramente nasce dall'esperienza.
Nell'armonia e nel suono che spesso la contraddistinguono
riconosco sovente Debussy…
Senza dubbio. E' una musica che a me piace molto, forse mi ritengo abbastanza
impressionista se così si può dire! (sorride) Mi piace quel colore lì, quel suono
e soprattutto l'armonia. Trovo che ci sia molta ricerca armonica in Ravel,
Debussy, Satie, in cui senti sovrapposizioni di accordi che si ritrovano
tanto anche nel jazz contemporaneo.
Secondo lei come viene accolto oggi dal pubblico e dal
mercato discografico americano un musicista italiano che suona jazz in America?
Beh, se vai in America e cerchi di suonare come Charlie Parker, ti dicono
che è già esistito, ma se riesce in qualche modo a dare la tua impronta, sicuramente
rimangono molto colpiti, è quello che ricercano. L'Italia poi, è sempre vista come
le cose che propongono, purtroppo, o come gli spaghetti. Attualmente, tanti musicisti
italiani che sono lì riescono a suonare. Personalmente ho suonato per molto tempo
con musicisti americani, come ad esempio Dewey Redman per quindici anni,
Billy Cobham, Joe Lovano,
Pat Metheny…
Le è capitato di insegnare ad analizzare partiture jazzistiche?
Sto insegnando a Santa Cecilia, dove analizziamo dei pezzi di
Bill Evans,
per esempio, che forse è lo Chopin d'eccellenza nel jazz, non a caso particolarmente
appassionato di mazurche chopiniane. Dietro le sue composizioni esiste sempre un
concetto; essendo un genio musicale, è sorprendente scoprire come il suo pensiero
si sviluppi seguendo prima una logica matematica, per poi essere plasmato in forma
musicale, molto musicale. (sorride)
Ultimamente si è impegnata in un progetto che riguarda
i Pink Floyd, come mai?
Perché penso che la musica bisogna viverla a 365 gradi, non faccio distinzioni
tra jazz e altri generi, che abbiano una ricerca e una profondità. Era il mio gruppo
dell'adolescenza che ascoltavo e loro erano sicuramente innovativi. Dal punto di
vista del suono sono stati i primi ad aver utilizzato i suoni concreti, cioè l'acqua
e qualsiasi cosa che fa parte della natura, riutilizzandola; è quello che poi succede
nel jazz ultimamente. Nel 2000 ci sono stati tanti artisti come Bjork, che
io amo particolarmente, che hanno dato vita a questa ricerca sonora.
Come anche l'avanguardia del ‘900…
Assolutamente sì. L'armonia è sicuramente europea e il jazz odierno nasce dalla
fusione tra ritmi africani e armonia europea ovviamente.
Si è ispirata anche al mondo del cinema, come il suo
album, che personalmente prediligo, dedicato a Trouffaut…
Per me è stata una folgorazione vedere tutti i suoi film e quindi questo omaggio,
che è anche uno dei progetti a cui tengo di più e che è andato molto bene…
24/10/2006 | Stefano Bollani, Rita Marcotulli, Andy Sheppard, Bobo Stenson tra i protagonisti del Brugge Jazz 2006 (Thomas Van Der Aa e Nadia Guida) |
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Data pubblicazione: 08/03/2009
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