Sonny Rollins all'Auditorium di Roma
Sala Santa Cecilia, 11 Novembre 2009
di Fabrizio Ciccarelli
Sonny
Rollins - Umbria Jazz 2008 (by Riccardo Crimi)
Sonny
Rollins (aka Theodore Walter Rollins: Harlem, 7
settembre 1930), all'Aditorium di Roma: un sestetto formato da ottimi elementi,
tra i quali piace ricordare il trombonista Clifton Anderson, il batterista
Kobie Watkins ed il chitarrista Bobby Broom, bravi in assoli equilibrati
e formalmente coerenti.
Veniamo al dunque.
Mai scordata l'antica influenza parkeriana, ipnotizza
ancora il suo solismo ambizioso, a volte umanamente tradito da incertezze tecniche,
bellissime e audaci, trascinanti nel dar vita al proprio senso dell'improvvisazione
in un modo perfino troppo vasto e mai, proprio mai, fuori della sua portata emozionale.
Così nel ricordo di "My One And Only Love"
oppure "In A Sentimental Mood".
Gli assoli vivono ancora sul materiale tematico più che sulla riflessione
sugli accordi di base: annuncia i propri ingressi con un senso della struttura formalmente
perfetto, vigoroso, smarrito nel calore e nell'immediatezza dell'istante, in un
pathos che non conosce né fraseggi declamatori né saccenti passi virtuosistici,
ma solo passione e senso del divertissement.
Suona un'ora e quaranta minuti senza soluzione di continuità – "non rifiata
mai?" osserva il giornalista alle nostre spalle – dà spazio quando vuole alla
band e nemmeno in quei momenti riesce a tacere: improvvisa sugli assoli, guarda
divertito il pubblico, dondola e pencola ritmando il drumming, per quanto
l'artrite gli consenta.
D'amblé ferma l'attenzione in una pensosa solitudine che esplode, in modo
altrettanto inaspettato, in frasi policrome o nell'interazione, superba, col solista
di turno, e raggiunge, stupendo, vertici stilistici inusuali nel jazz contemporaneo.
Non si concede tempo per pensare, continua ad accarezzare le proprie riflessioni
musicali nei modi dello scherzo, negli accenti spostati, nelle note glissate,
una battuta dopo l'altra, volta per volta alterando l'intonazione. A quasi ottant'anni
conferma la propria non appartenenza agli hard boppers ortodossi, dell'incontro
col free riprende le innovazioni, le distorsioni e l'attenzione al sound
come vis espressiva, sonda le risonanze del suo sax alzandolo o abbassandolo
fino a sfiorare il legno del palco, l'asta del microfono, il rullante della batteria.
35 minuti finali di mambo e calypso: lo sciamano newyorkese sembra, fra i sei, il
più convinto, il meno ingombrante, colui che domina in silenzio le proprie pulsioni,
appena tradito dal camicione di raso rosso che riflette tutte le luci della sala.
Ed intorno la penombra, il debole scintillio dei metalli sonanti nelle mani dei
partners che lo guardano ammirati, ma davvero ammirati, in modo straordinariamente
affettuoso.
Noi lo pensiamo ancora come tanti fra il pubblico, come il "Saxophone
colossus" della Prestige anni '50, arrangiatore svagato, ironico e malpensante,
vivo d'una primavera creativa finalmente ascesa alla dispersione di quei problemi
dell'anima che sembrarono rincorrerlo per anni.
Molte volte Rollins ha provato a ritirarsi, molte volte è riapparso
on stage con nuove intensità spiritate; adesso potrà forse dirsi soddisfatto
perché la sua fuga fra il jazz e la vita è terminata, chiudendosi sinuosa nei magnifici
sorrisi della "sua" gente.
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Data pubblicazione: 14/11/2009
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