Yaron Herman
Piano Solo
Auditorium, Roma – 18 Aprile 2009
di Dario Gentili
foto di Daniele Molajoli
Il pianista Yaron Herman è, a detta di molti, già più che una giovane
promessa del jazz europeo. Israeliano, ma al momento di stanza a Parigi, si è conquistato
in soli sette anni una notevole fama internazionale non soltanto come solista e
come leader di un trio (con Matt Brewer al contrabbasso e Gerald Cleaver
alla batteria), di cui è stato appena pubblicato il cd Muse, ma anche come
conferenziere, in quanto ha sviluppato, sulle orme del suo maestro Opher Brayer,
una teoria e una tecnica dell'improvvisazione denominata "composizione in tempo
reale".
Il concerto in piano solo all'Auditorium di
Roma è stato un'occasione non soltanto per ascoltarlo nella sua prima esibizione
romana, ma anche per capire in cosa si distingue la "composizione in tempo reale"
dalla tipica improvvisazione jazz. Herman, infatti, nonostante dimostri di
essere a suo agio all'interno della tradizione del pianismo jazz, è un artista che
non si può ridurre esclusivamente al jazz: altrettanto fondamentali, nella sua formazione
e nella sua proposta musicale, sono la musica classica (il Novecento in particolare,
ma anche Bach) e la musica pop e rock della sua generazione.
Il concerto romano ha di certo dimostrato l'indubitabile talento e la
tecnica sopraffina di Herman, ma ha anche evidenziato come il giovane pianista
israeliano non si sia svincolato in modo del tutto originale dalla tendenza oggi
molto in voga di travestire jazzisticamente canzoni famosissime come
Hallelujah di Leonard Cohen (riletta però attraverso
la celeberrima interpretazione di Jeff Buckley), Heart-Shaped
Box dei Nirvana e Message in a bottle
dei Police. In quest'ultima l'interpretazione di Herman è riuscita a donare nuova vitalità
al brano. In altri casi non è riuscito a dissipare l'impressione che - in fin dei
conti - si tratti soltanto di un gioco decostruttivo di natura tecnica, che spinge
l'ascoltatore a indovinare il prima possibile quale brano si sta suonando. Lo stesso
discorso si potrebbe fare anche a proposito di standard molto inflazionati come
Somewhere Over the rainbow. Tuttavia, ascoltando
i suoi cd, l'impressione è alquanto diversa: le composizioni originali, pressoché
assenti nel concerto romano, sono davvero interessanti e la stessa esecuzione delle
cover meno "formalista": insomma, più improvvisazione jazz e meno "cerebralità".
La convinzione che Herman sia capace di ben altro è stata rafforzata
dallo stesso pianista quando, durante il concerto, ha voluto precisare di essere
appena reduce da Tokio. Ciò ha influito non soltanto in alcune suggestioni musicali
giapponesi emerse qua e là nelle esecuzioni, ma – con ogni evidenza - su una forma
fisica non proprio perfetta. In effetti, il concerto è stato in crescendo, rispetto
all'esecuzione più "contratta" dei primi brani. Verificheremo
questa convinzione: al prossimo concerto, Yaron.
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16/05/2010 | Angelique Kidjo all'Auditorium Parco della Musica: "Ciò che canta è solare fusione fra la cultura del Benin, suo paese d'origine, ed il blues, il jazz, il funk e, soprattutto, la Makossa: un'ibridazione certo non nuova ma innovativa per temi e poetica, un mondo di suoni ed immagini dai contorni onirici, dalle evoluzioni potenti d'una voce ben definita e dinamica, di ampia estensione, ricca di coloriture flessibili nella varietas delle esecuzioni..." (Fabrizio Ciccarelli) |
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Data pubblicazione: 04/07/2009
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