Quando si accoglie con caloroso interesse, come in tutta sincerità fa il
sottoscritto, l'ultima produzione discografica di un artista della caratura di
Yaron Herman, e se ne parla con volontario quanto malcelato trasporto,
occorre qualificarne i punti di riferimento, operazione non necessaria ma spesso
utile al lettore. Potremmo operare circonvoluzioni sulle influenze di Paul
Bley, Lenny Tristano e
Keith
Jarrett, giungere perfino a ricordare il cromatismo impressionistico
di Maurice Ravel e la sintassi della musica yiddish, ma il
tutto potrebbe apparire riduttivo e non renderebbe il merito dovuto al giovane musicista
israeliano.
Ugualmente, non possiamo non ricordare quanto osservato
da Marco Lorenzo Faustini per Outune.net, citando una splendida frase
di Ludwig Wittgenstein menzionata dal Nostro in una recente intervista: "Se
consideriamo l'eternità non come un tempo infinito ma come l'assenza di tempo allora
chi vive il presente vive nell'eternità".
Il pensiero si adatta perfettamente alla serena disciplina e alla tensione
emotiva (quasi transfisica, se garba il termine) che rendono questo album
una delle opere più convincenti dell'anno. E' questa una conferma tutt'altro che
inattesa per chi lo conosca (e chi non ne ha la ventura provi ad ascoltarlo): magnifica
la sensibilità espressa nelle quattro prove precedenti, "Takes 2 to know
1 (Sketch 2002), "Variations" (Laborie
Records 2006), "Suite elegiaque" (Zig-Zag
Territoires 2006), "A time for everything"
(Laborie Records 2007), performance quest'ultima
che lo ha imposto con pieno merito all'attenzione internazionale.
Francese d'adozione e israeliano di nascita, il ventottenne pianista idea
"Muse" con la giusta scelta di Matt Brewer
al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria, strumentisti molto
più che comprimari, avvalendosi anche degli archi del "Quatuor Ebène", scelta
che sempre meno lo allontana dalla classica contemporanea.
L'opera rivela un pianista in continua crescita sia da un punto di vista
tecnico che da quello interpretativo puro: un linguaggio volto in direttrici omogenee
sia nei modelli di riferimento sia nella libertà di ricerca di perfezione del suono.
Le sue doti – la creatività melodica, il senso del timing, il virtuosismo
esecutivo – si fanno luce nel progetto di un romantico edonismo ben più ampio nei
significati di quanto non accada, purtroppo, per il "solito" pianismo di alcuni
"eccentrici" esecutori a noi vicini per lassi temporali.
Disinteressato alle categorizzazioni, l'estro improvvisativo di Herman
si distingue per un travolgente flusso espositivo che ingloba in sé il classico,
il barocco, il blues, la contemporanea, rendendoli forme ipnotiche ed imprevedibili
nelle figure "ostinato" dei bassi. I pentagrammi non vengono limitati alla
forma del tema con variazioni, vengono coniugati in spazi vigorosi, complessi, trascinanti,
ove l'interplay con Brewer e Cleaver appare improntato ad una
varietas di strutture che riapre il discorso sulla sonorità del pianoforte
tradizionale, come, ad esempio, in "Isobel"
di Bjork.
L'eclettismo di Herman, il suo appassionato talento esecutivo può
riconciliare con il jazz molti ascoltatori disorientati da tante scelte, irte e
dissonanti o easy e new age, di certa produzione attuale. La sua evoluzione
stilistica è giunta a sonorità liquide e sospese, ad approcci suggestivi tanto nel
"pianissimo" quanto nella particolare concezione di "fuga" altamente
formalizzata in stile
Keith Jarrett.
Eppure egli sembra dimostrare anche di essere solista autenticamente bop,
ovvero non sempre interessato alla forma complessa quanto piuttosto incline all'estemporaneità,
alla session, con esiti davvero felici, come in "Con
Alma", indimenticato evergreen di Dizzy Gillespie.
In "Twins", come in "Lamidbar"
dall'incipit yiddish o in " Perpetua"
o in "Lu yehi" (brano pacifista in memoria dei
caduti nella guerra del Kippur), gli effetti vibratili non hanno ruolo episodico,
rivelano anzi tutta la classica purezza del suo talento; la compostezza delle morbide
angolazioni tonali, inoltre, dà senso profondo alla molteplicità delle atmosfere
di "Muse", agli accenti lirici potenti, insinuanti, fluidi, velati da inflessioni
blues e da un respiro inventivo assolutamente naturale.
C'è chi dice che a giudicare dal suo pianismo non lo si direbbe un musicista
così giovane, ma, come direbbe Bertold Brecht, "di tutte le cose sicure
la più certa è il dubbio"…
Fabrizio Ciccarelli per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 04/07/2009
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