Jazzitalia - Yaron Herman Trio: Muse
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Laborie Records 2008
Distr. Naive Commercial France
Yaron Herman Trio
Muse


1. Muse - 3:20
2. Con Alma - 3:11
3. Vertigo - 5:15
4. Lamidbar - 6:37
5. Perpetua - 6:31
6. Isobel - 6:25
7. Joya - 4:27
8. Lu Yehi - 4:45
9. Twins - 6:06
10. And The Rain - 2:18
11. Rina Balle - 8:05

Yaron Herman - piano
Matt Brewer - contrabbasso
Gerald Cleaver - batteria

Featuring "Quatuor Ebène":

Pierre Colombet - violino
Gabriel Le Magadure - violino
Mathieu Herzog - viola
Raphael Merlin - violoncello



Quando si accoglie con caloroso interesse, come in tutta sincerità fa il sottoscritto, l'ultima produzione discografica di un artista della caratura di Yaron Herman, e se ne parla con volontario quanto malcelato trasporto, occorre qualificarne i punti di riferimento, operazione non necessaria ma spesso utile al lettore. Potremmo operare circonvoluzioni sulle influenze di Paul Bley, Lenny Tristano e Keith Jarrett, giungere perfino a ricordare il cromatismo impressionistico di Maurice Ravel e la sintassi della musica yiddish, ma il tutto potrebbe apparire riduttivo e non renderebbe il merito dovuto al giovane musicista israeliano.



U
gualmente, non possiamo non ricordare quanto osservato da Marco Lorenzo Faustini per Outune.net, citando una splendida frase di Ludwig Wittgenstein menzionata dal Nostro in una recente intervista: "Se consideriamo l'eternità non come un tempo infinito ma come l'assenza di tempo allora chi vive il presente vive nell'eternità".

Il pensiero si adatta perfettamente alla serena disciplina e alla tensione emotiva (quasi transfisica, se garba il termine) che rendono questo album una delle opere più convincenti dell'anno. E' questa una conferma tutt'altro che inattesa per chi lo conosca (e chi non ne ha la ventura provi ad ascoltarlo): magnifica la sensibilità espressa nelle quattro prove precedenti, "Takes 2 to know 1 (Sketch 2002), "Variations" (Laborie Records 2006), "Suite elegiaque" (Zig-Zag Territoires 2006), "A time for everything" (Laborie Records 2007), performance quest'ultima che lo ha imposto con pieno merito all'attenzione internazionale.

Francese d'adozione e israeliano di nascita, il ventottenne pianista idea "Muse" con la giusta scelta di Matt Brewer al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria, strumentisti molto più che comprimari, avvalendosi anche degli archi del "Quatuor Ebène", scelta che sempre meno lo allontana dalla classica contemporanea.

L'opera rivela un pianista in continua crescita sia da un punto di vista tecnico che da quello interpretativo puro: un linguaggio volto in direttrici omogenee sia nei modelli di riferimento sia nella libertà di ricerca di perfezione del suono. Le sue doti – la creatività melodica, il senso del timing, il virtuosismo esecutivo – si fanno luce nel progetto di un romantico edonismo ben più ampio nei significati di quanto non accada, purtroppo, per il "solito" pianismo di alcuni "eccentrici" esecutori a noi vicini per lassi temporali.

Disinteressato alle categorizzazioni, l'estro improvvisativo di Herman si distingue per un travolgente flusso espositivo che ingloba in sé il classico, il barocco, il blues, la contemporanea, rendendoli forme ipnotiche ed imprevedibili nelle figure "ostinato" dei bassi. I pentagrammi non vengono limitati alla forma del tema con variazioni, vengono coniugati in spazi vigorosi, complessi, trascinanti, ove l'interplay con Brewer e Cleaver appare improntato ad una varietas di strutture che riapre il discorso sulla sonorità del pianoforte tradizionale, come, ad esempio, in "Isobel" di Bjork.

L'eclettismo di Herman, il suo appassionato talento esecutivo può riconciliare con il jazz molti ascoltatori disorientati da tante scelte, irte e dissonanti o easy e new age, di certa produzione attuale. La sua evoluzione stilistica è giunta a sonorità liquide e sospese, ad approcci suggestivi tanto nel "pianissimo" quanto nella particolare concezione di "fuga" altamente formalizzata in stile Keith Jarrett.

Eppure egli sembra dimostrare anche di essere solista autenticamente bop, ovvero non sempre interessato alla forma complessa quanto piuttosto incline all'estemporaneità, alla session, con esiti davvero felici, come in "Con Alma", indimenticato evergreen di Dizzy Gillespie.

In "Twins", come in "Lamidbar" dall'incipit yiddish o in " Perpetua" o in "Lu yehi" (brano pacifista in memoria dei caduti nella guerra del Kippur), gli effetti vibratili non hanno ruolo episodico, rivelano anzi tutta la classica purezza del suo talento; la compostezza delle morbide angolazioni tonali, inoltre, dà senso profondo alla molteplicità delle atmosfere di "Muse", agli accenti lirici potenti, insinuanti, fluidi, velati da inflessioni blues e da un respiro inventivo assolutamente naturale.

C'è chi dice che a giudicare dal suo pianismo non lo si direbbe un musicista così giovane, ma, come direbbe Bertold Brecht, "di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio"…

Fabrizio Ciccarelli per Jazzitalia







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Data pubblicazione: 04/07/2009

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