Ludwigsburger Schlossfestspiele Brad Mehldau, Bill Frisell, Joe Henry Song Conversation Ludwigsburg - 16, 19 giugno 2010 di Vittorio Pio foto di Lucia Bianchi e
Reiner
Pfisterer
Grandi bagliori per la settantottesima
edizione dello Schlossfestspiele a Ludwigsburg, negli immediati dintorni di Stoccarda,
che accanto a programma di classica di assoluto livello, ha ritagliato per merito
del suo direttore artistico Thomas Wordenhoff, un'appendice di ulteriore
pregio dedicata a canzoni di "libera" ispirazione nella scelta effettuata quest'anno
dai ben noti Bill
Frisell e
Brad Mehldau,
convocati però da Joe Henry, cantautore americano da sempre in bilico con
altre musiche, che è tra i pochi a vantare una partecipazione a un suo disco nientemeno
che di Ornette Coleman.
Giusto con qualche indicazione di massima, data la coscienza
della straordinaria duttilità dei primattori che si erano già sfiorati vicendevolmente
in carriera, il magnifico triumvirato si è trovato appena il giorno prima per riordinare
le idee in un soundcheck lungo e appassionante. Sebbene le aspettative createsi
fossero ben alte, il risultato finale è stato assolutamente clamoroso lungo la triplice
serie di duetti che ne ha animato la serie.
L'esordio è toccato a Mehldau ed Henry per condensare
nell'ineffabilità del concerto un temperamento eclettico e vitalistico, tendente
a una corposa investigazione delle possibilità interne al duo. Sommesso e delicato
il dialogo ha offerto uno sbocco stupefacente nella sequenza dedicata a Cole Porter,
("I Concentrate On You", "I've Got You Under My Skin","Night And
Day"), insieme a brani propri ed altre citazioni (dal trip onirico dei Massive
Attack alla pura ortodossia di
Frank Sinatra),
in cui la delicata sapienza del pianista che deve all'Europa la sua consacrazione
si è ben amalgamata alle speziature da autentico crooner del partner, capace di
ben destreggiarsi anche alla chitarra acustica.
Atmosfere sospese e cariche di tensione anche nel rendez-vous
tra Frisell e Mehldau, a partire dall'esordio fuori schema affidato
alle inquietudini dei Nirvana di Kurt Cobain. Il chitarrista dalle svariate carriere
è sempre più concentrato sull'essenzialità di uno stile in cui comunque abbonda
una magnifica eloquenza, imperniata su ricami e silenzi alla stregua di un novello
cercatore d'oro sempre capace di fare affiorare quei tesori assimilati ovunque.
Il senso narrativo delle sue improvvisazioni si è amalgamato alla perfezione con
la ribadita capacità di Mehldau nel saper muovere le voci interne alla melodia,
come nel caso dello straordinarie nuances di "Zingaro", brano ascrivibile
al genio di Tom Jobim e consegnato alla leggenda da
Chet Baker,
per un concerto che da stato di grazia in altre e quasi insospettabili deviazioni
(Beach Boys), si è trasformato in esaltazione pura nell'elegiaca "Moon River",
il capolavoro di Henry Mancini ben conosciuto nelle sue sfumature ad entrambi e
posto come ultimo suggello di un set memorabile.
La stessa platea entusiasta e partecipe ha poi condiviso l'ultimo
atto più marcatamente "americano" fra Henry e Frisell, con altre aperture
(addirittura Prince, ma anche l'imprescindibile Johnny Cash), e nuovi vicendevoli
stimoli in queste inebrianti prove "senza rete" che a partire da quest'anno dovrebbero
rappresentare un elemento costante alla programmazione del festival. Una pura bellezza.