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Jazz al Metropolitan 2005/2006
Tuck & Patti
26 aprile 2006
Tuck Andress
chitarra, Patti Cathcart voce

John Patitucci Trio
23 maggio 2006
John Patitucci contrabbasso, Adam Rogers chitarra, Clarence Penn batteria
Palermo, Teatro Metropolitan

di
Antonio Terzo
foto di Fabio Stassi

Precisiamo subito: sebbene il loro genere non sia in effetti jazz in senso stretto, tuttavia l'atmosfera respirata al teatro Metropolitan di Palermo per il concerto di Tuck & Patti era quella. La voce di Patti ha infatti sfumature che ne accostano pronuncia canora ed intensità espressiva alle migliori voci del jazz di tutti i tempi e Tuck con la sua chitarra riesce a sostituire una intera sessione ritmica.

Colpisce la strumentalità della voce, ma soprattutto la complementarietà dell'accompagnamento di Tuck, mai invasivo; e quindi la loro simbiosi musicale. E Joy Spring di Clifford Brown (nella versione con testo di Mike Stillman, pubblicata con il titolo We're alone nel loro "Paradise found" del '98) ne dà la misura, con uno scat boppistico non portato all'eccesso né ridondante, cui segue un articolato assolo di Andress, composito e in totale silenzio della compagna. Da "Chocolate moments" (2002) è invece tratta Love flows, intensa ballad blues, appropriato scenario per la corposa vocalità di Patti, e, sempre dallo stesso album, One For All, cantata non prima che l'interprete si sia messa a proprio agio togliendo via le scarpe – "La prima cosa che si fa quando si è a casa!" – in un piacevolissimo e danzante tre/quarti. Pescando a saltare nella loro discografia, Learning how to fly, dall'omonimo cd, con puntualissimo arrangiamento di chitarra, e Heaven down here, un momento di particolare empatia fra i due, con le corde di Tuck che avviluppano la voce di Patti e la platea tutta. Viaggia invece sul tempo sincopato della chitarra Comfort me (Chocolate moments), dove Andress offre un saggio della propria maestria tecnica armonizzando con incredibile velocità fra il basso e gli accordi spinti al di là della metà del manico, infondendo consonante movimento ritmico al pezzo.

Nell'inevitabile gioco delle parti in coppia, gli fanno eco i vocalizzi di Patti, su cui il chitarrista con agile modulazione cambia tonalità. Una delle loro composizioni più famose, Everything is gonna be all right, dal cd che li ha resi popolari in Italia, "Tears of joy" (1988), come attestano i prolungati applausi finali, seguita da una ben rifinita ed equilibrata My romance, minuzioso controllo del volume in ogni sua sfumatura, e timing che monta a rendere risonante il pizzicato di Tuck, regalando ancora una bella prova della sua enorme sensibilità chitarristica e musicale. È questa quasi una sorta di preparazione al concerto nel concerto, la fase in cui il chitarrista resta da solo sul palco per cimentarsi con trasporto in Over the rainbow con variazioni virtuosistiche ma anche profondamente poetiche, ad infilare temi dal "Pinocchio" disneyano, o prodursi in un cavallo di battaglia d'antan per chitarristi di razza, Europa di Carlos Santana, abile il nostro a rendere persino la carica blues-rock della seconda parte: il suo strumento sembra animato nel risuonare a seconda dei colpi sapientemente portati ora alla tastiera ora alla cassa ora al pick-up. Le emozioni proseguono a concentrarsi quando parte l'inconfondibile incipit della loro intima lettura di Time after time, la cui malìa lascia il teatro in silenzio fino a quando, sul finale, Patti invita la platea ad unirsi a lei nel ripetere il verso "Time after time", quello stesso che ad ogni data fa cantare al pubblico che così viene in qualche modo a trovarsi in comunione, volta dopo volta, sera dopo sera, tappa dopo tappa: un frangente davvero molto significativo.

Chiusura con Say thank you, su un'andatura movimentata che però non convince gli spettatori a svuotare la sala: è necessario un ulteriore ingresso ed ancora un brano, l'incantevole Take my breath away, soffice e sussurrata, che lascia il ricordo di un'esibizione davvero toccante.

Più jazzistico certamente l'ultimo appuntamento della stagione, con il trio guitar di una vecchia conoscenza del teatro palermitano, John Patitucci, in formazione con il chitarrista Adam Rogers –già nei "Lost Tribe" con David Binney, Fima Ephron e Ben Perowsky – e Clarence Penn alla batteria, trio con cui il bassista newyorkese ha appena finito di incidere un nuovo disco, Line by line. Sempre intrigante il tocco energico e pimpante del contrappuntista d'origini calabre, con cui comincia Long ago and far away, standard scritto da Jerome Kern (testo di Ira Gershwin), qui in un arrangiamento del chitarrista, che si prodiga pure in un buon fraseggio, subito sottolineato dal primo applauso; quindi è la volta del leader, con un assolo breve ed artigliato sulle cadenze cristalline e schioccanti di Penn, a cavalcare il tempo in coda.



È Patitucci ad annunciare il titolo dei vari brani: Agitato, dedicato al traffico palermitano – pare infatti che a causa di questa "piaga alla Johnny Stecchino" il trio sia giunto in forte ritardo per il sound-check, meno di un'ora prima dell'inizio. Ipnotico, contratto e nervoso il contrabbasso, rapido il suo pedale, arabesche le note di Rogers, ed è sulle cromatiche progressioni che si staglia il notevole affiatamento fra i due strumenti. Di diverso appeal invece The root, incluso nel citato cd di prossima uscita, affrontato sul basso a sei corde ma con un arpeggio snodato che conduce alla freschezza di un ritmo in levare, una poliritmia molto africana, cui protagoniste sono le spazzole sorde del drummer afroamericano, a raccontare ancestrali storie incantatorie distese su variazioni di ritmi ed umori. Omaggio alla musica folk, spesso "negletta", in un'altra nuova composizione, Folklore, il cui disegno melodico iniziale sembrerebbe ispirarsi a "O sole mio": ampi paesaggi sonori, stoppate le corde del contrabbasso nel monologo di Patitucci, preziose le sottolineature di Penn sui piatti chiodati. È la volta di Rogers che imbraccia una acustica con corde di nylon per Dry September, la quale tuttavia risulta troppo composita, richiedendo una enorme applicazione da parte dei presenti.

Apprezzabile tecnicamente, questo spazio "chitarristico" invece culmina emotivamente con la performance in duo di Patitucci e Rogers, per Nanà dello spagnolo Manuel de Failla, assente Penn: archetto con profondi bassi cavernosi, chitarra ancora acustica, languide atmosfere spanish che tengono in tensione l'attentissimo pubblico, il quale alla fine tributa l'applauso. Si torna ad una musica più facilmente digeribile – e divertente – con Phrygia, introdotta dall'elettrica di Rogers: ancora Penn in risplendente intesa con il contrabbassista calabro-americano, ma non è da meno il chitarrista, che si inserisce con un felice intervento.

Conclude quindi la serata Purpose di Rogers – stratificazioni ritmiche, sestine a manciate di Patitucci e flessibili flussi melo-armonici per Rogers, sfavillante il break di Penn –: il brano più interattivo e disciolto della scaletta, avvincente, e poi il consueto balletto di inchini. Ovvio che l'auditorio insista per un bis, accontentato chiudendo il cerchio, come in apertura con uno standard, I fall in love too easily: armonicamente ineccepibile il periodare di Rogers, staccatissima la voce del contrabbasso al suo turno, elegante e preciso Penn, così da lasciare i convenuti soddisfatti d'aver ascoltato quasi un paio d'ore di buona musica – a tratti forse troppo assorta – e poter passare al rito di autografi e foto.







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Data pubblicazione: 06/07/2006

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