Intervista a Roberto Ottaviano
di Alceste Ayroldi
La sua abilità, a parte quella strumentale, sta nell'essere poliedrico
al punto giusto tanto da riuscire ad amalgamare le Arti attraverso le sue note.
Roberto Ottaviano dopo cinque anni di silenzio discografico da leader, torna
ad incidere e lo fa per l'etichetta salentina Dodicilune. Con lui discorriamo
di musica, arte e didattica jazz.
Roberto, chi o cosa ti ha portato al jazz?
Dapprincipio c'è stato un incontro casuale che mi ha fatto cambiare prospettiva
nei confronti della musica "tout court"…Rovistando in una collezione di Long Playing
di mio padre feci una selezione e misi sul piatto il concerto per clarinetto ed
orchestra di Artie Shaw. Wow! Un vero shock. Mi ritrovai a ballare euforico
e coinvolto nel profondo, per me allora adolescente, da questa orgia di suono. Da
quel momento per me la musica non fu più la stessa cosa. Cominciai rapidamente a
sentire che c'era qualcosa di straordinario, complesso e semplice allo stesso tempo.
Qualcosa di magico e diretto che mi faceva stare bene. La mia formazione come ascoltatore
quindi procedette rapidamente con il rock progressive, fino a che trovai sulla mia
strada la "chiave" di accesso al mondo afroamericano attraverso Frank Zappa
e gli inglesi Soft Machine. E' quello il periodo in cui decisi di "emulare"
i miei eroi come fanno i ragazzi in genere con i calciatori…
Dal clarinetto al sassofono… Cosa non ti piaceva del primo
e cosa ti ha ammaliato del secondo?
In realtà il clarinetto l'ho studiato per un po' "accademicamente" al contrario
del saxofono che era il mio reale obiettivo ma che quando ho cominciato non era
uno strumento preso troppo sul serio in ambito conservatoriale (parlo del
'76 circa). Successivamente, ma già dopo una
diecina d'anni che suonavo, decisi di colmare alcune lacune sul piano della sua
conoscenza tecnica grazie all'aiuto, tra gli altri, di Federico Mondelci
straordinario virtuoso classico dello strumento.
Sei particolarmente poliedrico, ti dedichi a numerosi progetti
che abbracciano il teatro, la letteratura, danza, arti visive. Sembra che tu sia
alla costante ricerca di "qualcosa". Cosa ricerchi?
Non è che abbia una meta precisa. Semplicemente non mi piace essere "autoreferenziale",
e non credo che una serie di risposte ci arrivino unicamente dall'ambiente o dalle
cose che facciamo con priorità. Non ho mai sopportato le "parrocchie". Quelle di
vecchi appassionati di Jazz così come quelle di certi velleitari avanguardisti barricaderi.
Le trovo tristi e limitate. Io aspiro a fare in modo che nel mio suono, nella musica
che produco, ci siano movimento, storie, evocazioni, e quindi mi sembra naturale
trovarne un ideale luogo di proliferazione laddove registi, attori, danzatori, scultori,
ecc. nutrono le mie stesse ambizioni. Il sax è un veicolo ed il jazz è oggi più
che mai un mezzo per contattare altre realtà e comunicare delle cose. Duke Ellington
ci ha insegnato molto a riguardo.
Ti muovi in diversi ambiti della musica afroamericana.
Quale è quello che preferisci?
Oggi a 50 anni "suonati" credo di essere consapevole dei miei limiti e anche
di ciò che riesco a fare meglio, senza trascurare ciò che mi interessa realmente.
Certo nel corso della mia carriera ho fatto cose anche estremamente diverse fra
loro ma mai ho ceduto alla tentazione di produrre fotocopie di epoche passate e
tantomeno di accodarmi con le mode del momento. Per capirci meglio, non ho mai fatto
bop né mi sono fatto coinvolgere dall'acid jazz (che da noi è diventato moda dopo
10 anni che in Inghilterra il fenomeno si era già consumato…), o dalle ritmiche
house e hip hop. Sono stato sempre interessato a fare esperienze con i musicisti
"giusti" per il clima che esse richiedevano. E' stato così con Mal Waldron,
come con J.J.Avenel e J.Betsch che sono stati fedelissimi per anni
del mio maestro
Steve Lacy,
e con i quali ho avuto modo di entrare nel vivo della cultura afro-americana, così
come con G.Gaslini, F.Koglmann o P.Favre che hanno rappresentato
l'altra faccia del mio viaggio nel mondo del improvvisazione vista con la sensibilità
di un europeo che conosce la sua tradizione colta ed extra-colta.
Una domanda a bruciapelo: meglio il jazz europeo, americano
o africano?
Oggi credo il livello di preparazione sia piuttosto elevato un po' ovunque. Ciclicamente
poi ci sono delle proposte e degli approcci che provengono da luoghi e culture diverse
che a me sembrano più interessanti di altre, sempre che si consideri questa musica
in costante evoluzione. Parlando ad esempio di ritmiche è interessante notare come
nella seconda metà degli anni '60 il tandem
Ron Carter/Tony Williams sia stato una autentica rivelazione per il
jazz afroamericano. Dieci anni dopo, a mio parere, la Norvegia di Palle Danielsson/Jon
Christensen ha trasformato ulteriormente il modo di percepire lo spazio temporale.
E però come era pregnante e "terrigno" il sound africano di Harry Miller
e Louis Moholo….Con questo voglio dire che in America come in Europa o in
altre parti del mondo il jazz è ancora una straordinaria avventura se scommette
sulla sua capacità di rimettersi costantemente in gioco piuttosto che cristallizzarsi
in un cliché buono solo per le halls di certi alberghi.
Ed ancora un'altra: si suona del buon jazz in Italia?
Accidenti! Credo che nel nostro paese ci siano alcuni tra i migliori musicisti
ed i migliori talenti europei, ma direi anche mondiali. Peccato però che in giro
vadano solo e sempre i soliti noti, che sono bravissimi ma non sono gli unici. Chi
organizza e promuove dovrebbe avere un po' più di informazione, coraggio e volontà.
Il pubblico, sono sicuro, non mancherebbe se potesse venire a contatto con questo
grande patrimonio underground e, finalmente, potrebbe apprezzare la differenza.
Mi fa poi rabbia che spesso capitino da noi ed abbiano molto spazio, alcuni solisti
e gruppi stranieri davvero insignificanti che ci propongono idee riciclate e/o stantìe,
con la convinzione che abbiamo ancora l'anello al naso.
Sei un affermato docente del conservatorio di Bari. E'
necessario studiare jazz?
Se vuoi fare musica devi studiarla ed il jazz forse più di tante altre pratiche
musicali. Ma qui si apre una profonda diatriba su quali possano essere i migliori
strumenti didattici per la trasmissione di un sapere che per tanto tempo è stato
solo trasmissione orale (anedottica il più delle volte) e/o auditiva. Personalmente
ho sempre adottato un sistema bilanciato tra istinto e osservazione, tra prassi
e teoria, tra artigianato e scienza. Naturalmente, ma questa banalità che sto per
dire è valida per l'arte in genere, il talento non si insegna.
Quale è l'attuale situazione della didattica musicale in
Italia? Pregi e difetti dei conservatori italiani…
La didattica musicale italiana è una delle migliori in assoluto ma non va confusa
con i pregi ed i difetti dei "contenitori" in cui deve operare. I "contenitori",
cioè i Conservatori scontano la pena e pagano il conto della scuola pubblica italiana
ridotta ad uno strazio. Tra burocrazia sovietica e finanze fantasma, una scuola
così è solo la caricatura di sé stessa anzi, un miracolo. In queste condizioni in
qualsiasi altro paese si sarebbe andati a casa. Ciò nonostante si ha ancora voglia
di costruire laddove, con meticolosa cura, la politica progressivamente distrugge.
Chi ha maggiormente influito sulla tua formazione musicale?
Tutti i musicisti che ho conosciuto.
Un Dio Clandestino è il tuo ultimo lavoro discografico,
nato a distanza di circa 5 anni dal precedente. Perché questa lunga pausa prima
di andare in sala di registrazione?
Perché in un mondo che ha perso l'intervallo, che non conosce più l'attimo per
fermarsi a riflettere su ciò che accade, in cui si produce per esserci e non per
necessità, e che gira in tondo, io preferisco "scendere". Forse quando avevo vent'anni
o trenta mi sembrava logico andare in studio periodicamente e sviluppare il solito
rituale della ricerca dell'etichetta, della spedizione delle copie promozionali,
della disperata ricerca della recensione e della partecipazione ai referendum. Ma
quel tempo è ormai lontano sono anni che ho recuperato il gusto di fare musica perché
è importante, perché vitale, perché ho da dire qualcosa. Di conseguenza vado in
studio solo se ciò che debbo documentare mi sembra realmente utile e giustifichi
il fatto che poi qualcuno il disco infine lo compri.
Perché è Clandestino il Dio di cui parli?
Perché è sempre più nascosto e costretto a rivelarsi in condizioni di grande
difficoltà e spesso non è riconosciuto. E' un Dio che si manifesta nella solitudine
e che ci parla quando siamo ormai convinti che il sipario è calato. E' un Dio che
scorre nei nostri campi di grano, tra i riflessi del sole che trafiggono i rami
degli ulivi, nelle melodie struggenti che ci avvolgono a tradimento, nel sorriso
dei volontari che non chiedono nulla. E' perfino clandestino nelle stesse chiese
che hanno edificato intorno al suo nome, in cui si aggira lento e scruta volti ed
animi delle persone per capire e per offrire compassione.
Come è nato questo progetto?
Molto semplicemente dal rapporto di quattro persone che stanno bene insieme e
che hanno stabilito un rapporto di autentica amicizia. Su questa base che certo
non è trascurabile va poi ad aggiungersi un appetito vorace per tanta musica che
abbiamo incontrato nel nostro cammino e che viene necessariamente filtrata attraverso
il gusto e l'arte dell'improvvisazione jazzistica e non. La maturità finalmente
di poter suonare ciò che ci pare senza porci il limite di un etichetta o di un atteggiamento
che forzosamente la rappresenti.
10 tracce attinte da diverse parti del Globo. Quali sono
stati i criteri di scelta?
Questo disco rappresenta un momento assai particolare per me, poiché per la prima
volta ho rinunciato a documentare composizioni originali ed ho pensato solo a tirar
fuori da un repertorio non jazzistico, ma dalle suggestioni musicali forti, due
elementi che hanno sempre contraddistinto il mio modo di fare musica: il canto ed
il ritmo. In nostro gruppo in poco tempo ha accumulato un repertorio molto vasto
di canzoni ed arie antiche e moderne che vengono dal continente africano, dal centro
e sud-america come dall'america latina, da paesi dall'europa mediterranea ma anche
dai paesi del nord e dal mondo orientale. Abbiamo scelto per "Un Dio Clandestino"
alcuni brani con un forte carattere comunicativo che era ciò che ci premeva maggiormente
in questo momento.
Il libro che stai leggendo…
"Mille splendidi soli" di Hosseini Khaled
Il disco che stai ascoltando…
"The Optimist LP" dei Turin Brakes,
pieno zeppo di meravigliosi brani rock-folk capaci di far salire le lacrime agli
occhi anche ai più tenaci assertori del cinismo postmoderno. A tratti la musica
dei Turin Brakes ricorda Radiohead, altre volte si rivela come un
cocktail di Ry Cooder ed Elliot Smith.
Quali sono i prossimi impegni di Roberto Ottaviano?
Certo la promozione del gruppo Pinturas attraverso alcuni concerti e festivals
che abbiamo nei prossimi mesi. Inoltre sono particolarmente coinvolto dai progetti
della Minafric Orchestra e dal quintetto Canto General in compagnia,
tra gli altri di Louis Moholo e
Pino Minafra,
con cui abbiamo in cantiere una nuova registrazione per la Ogun Records e la partecipazione
ai festivals di Le Mans e Lubjana. Ho ricevuto inoltre un invito a tenere una masterclass
a Woodstock N.Y. presso il Creative Music Studio dove incontrerò Karl Berger
che mi ha invitato a far parte del suo collettivo che omaggia Don Cherry.
Se ora dovessi imbracciare il tuo sassofono, cosa suoneresti?
"Dear Lord" di
John Coltrane.
A chi vorresti fare una dedica? E cosa vorresti dirgli?
A tutti i bambini del mondo che sono il futuro del nostro pianeta. Amarsi, sorridere,
fare in modo che chi ti sta vicino sia felice perché se questa cosa si trasmette
come un virus si può invertire la spirale che porta verso il male.
leggi
la recensione del disco "Un Dio Clandestino"...>>>
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Data pubblicazione: 11/12/2008
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