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Intervista a Fabio Morgera
Uèffilo - Cantina a Sud - 7 maggio 2005, Gioia del Colle (BA)
di Marco Losavio

Incontriamo Fabio Morgera all'interno del Uèffilo di Gioia del Colle, nuovo jazz club pugliese in cui il trombettista napoletanamericano si è esibito in un set insieme a Norberto Tamburrino al piano, Marco Bardoscia al contrababsso e Alessandro Napolitano alla batteria.

M.L.: Hai studiato con svariate persone da Rava a Wheeler, Ponomarev, ottimo didatta, Donald Byrd...ma chi ti ha lasciato qualcosa che ancora oggi ti porti dietro e che usi nella tua vita e/o nella tua professione?
F.M.: Donald Byrd, senza dubbio. Con lui ho fatto una lezione nella quale mi ha indirizzato verso la mia strada. E questo ha cambiato la mia vita musicale, indicandomi la strada che dovevo percorrere...

M.L.: Quale strada ti ha indicato?
F.M.: La mia. Crearmi i miei esercizi, il mio vocabolario, il mio modo di suonare...

M.L.: Quindi saper studiare individuando autonomamente come migliorarsi...
F.M.: Sì, farsi il proprio metodo.

M.L.: La decisione di rimanere negli Stati Uniti come è nata?
F.M.: Prima c'è stata la voglia di conoscere una città come New York. Stabilitomi lì, non sono riuscito a staccarmene, anche ora faccio avanti e indietro. Musicalmente è la città più stimolante che esista per cui è difficile andar via.

M.L.: Quindi oramai ti senti perfettamente integrato a questa città...
F.M.: Sì, tant'è che fra dieci giorni faccio l'intervista per diventare anche cittadino americano.

M.L.: Passiamo all'aspetto discografico. I due album che hanno contribuito nell'indicare una possibile svolta per questa musica, sono prevalentemente Slick e Colors. Sei d'accordo? E dove sta andando la musica di Morgera?
F.M.: Mah, dove sta andando...Bisognerebbe parlare di cosa sto facendo ora. Colors risale a 4 anni fa oramai. In questo momento è appena uscito un disco per la Wide Sound, che si intitola The Voice Within, ed è un disco di jazz-funk che racchiude tutte le mie esperienze effettuate sino ad ora che includono jazz, funk, musica dance...e c'è un po' un convergere di tutte queste influenze in un'opera compiuta che è questo nuovo disco. Invece, per quanto riguarda Colors, la musica era ancora influenzata un po' dall'hard bop, un po' ancora da Art Blakey and the Jazz Messengers, però i pezzi con Jd Allen erano più verso Ornette mentre i pezzi con Steve Turre erano più i miei pezzi di stile melodico.

M.L.: Ma com'è nata l'idea di Colors? Una delle cose più belle dell'album è la libertà, da parte dell'ascoltatore, di poter associare alla musica e al colore una propria immaginazione...
F.M.: L'idea è nata perchè avevo già un paio di pezzi che si chiamavano con nomi di colori come Red, dedicato sia alla Red Records che a Malcom X il cui soprannome era Red, Green, che era sugli accordi di On Green Dolphin Street, e allora da lì ho iniziato a comporre pensando ai colori.

M.L.: La collaborazione con Jd Allen come nasce?
F.M.: Nasce da una collaborazione in uno storico locale di NY (Mock), circa una decina di anni fa, suonavamo insieme in jam session finchè una sera gli dissi: "I believe in you!" (credo in te!), e lui mi fa: "What?" (ride)...non ci credeva...e così ho iniziato a chiamarlo per registrazioni concerti e da allora abbiamo continuato a suonare insieme.

M.L.: Sarai stato il primo allora a dirgli di credere in lui...
F.M.: Sì, era molto giovane e non lo conosceva nessuno. Io sono un po' un talent scout, ho molta fiducia nel mio istinto. Se sento un musicista giovane sento dove può arrivare, sento cosa diventerà e quindi mi basta questo, il talento, al di fuori della precisione, della tecnica che sono cose che si possono imparare successivamente. Ad esempio, nel nuovo disco c'è un brano registrato con Norah Jones nel 2000 perchè lei ha fatto alcune serate con me e questo ben prima che registrasse per la Blue Note quando ancora non la conosceva nessuno. Anche ora ingaggio musicisti giovani, promettenti e sono abbastanza sicuro che questi diventeranno musicisti conosciuti.

M.L.: Ma com'è la situazione dei musicisti giovani in America oggi che devono forse più degli italiani combattere con dei miti talmente grandi che potrebbero scoraggiare sin dall'inizio?
F.M.: Mah, in America, c'è molto spazio per il nuovo. Nonostante ci siano i miti, c'è sempre la voglia di ascoltare qualcosa di nuovo. Soprattutto se uno ha la preparazione che si ha negli Stati Uniti, prima di sfondare devi essere comunque un grande musicista, rifarti al passato ma portare qualche innovazione. E questo funziona, guarda ad esempio Roy Hargrove, magari non è Lee Morgan, ma è qualcosa che viene da Lee Morgan ma che è andato anche in una direzione sua particolare. Scommetto che tuttora c'è più gente che compra Roy Hargrove che Lee Morgan e questo perchè il nuovo piace all'America. Semmai in Europa è difficile per le novità attecchire. In Europa siamo più legati alla tradizione...

M.L.: Non c'è quindi il rischio, ammesso che lo sia, che la gente conosca Roy Hargrove e non conosca mai Lee Morgan?
F.M.: In America forse sì, in Europa non credo perchè abbiamo un alto rispetto per la tradizione e quindi è d'obbligo passare per i trombettisti della tradizione. In fondo poi anche in America, ad esempio con Wynton Marsalis, si è dato molto valore al passato per cui tutti i jazzofili conoscono Lee Morgan. Ma rimane il fatto che lui abbia fatto un certo numero di dischi, tanti, ma finiti, non lo si può vedere più dal vivo. Ma è uno stile diverso, Hargrove ora si è portato più verso il jazzfunk che è più contemporaneo e assimilabile da tutti in questo anno 2005.

M.L.: In Europa, l'innovazione che i musicisti cercano di ottenere è quella della fusione tra il linguaggio del jazz con quello della propria etnìa, col folklore, col popolare mentre in America quindi si va verso il jazzfunk. E' questa l'unica direzione?
F.M.: C'è anche il free jazz...io ho suonato con Butch Morris, un fantastico direttore d'orchestra free, però anche lui ha delle band che suonano jazz funk, in cui ad esempio vi sono due batterie, basso elettrico, tastiere e fanno atmosfere sonore simili a Miles degli anni '70, '80, quindi diciamo che nonostante Wynton Marsalis continui a preservare lo swing ormai il jazz non è più solamente swing. Vi sono ritmi nuovi che provengono sia dal rhythm&blues ma anche etnici, africani, indiani...tuttora ci sono molte influenze di world music nel jazz. Secondo me, il futuro, ma anche il presente, è contaminazione del jazz con musica elettronica, world music, funk, hip hop e la musica popolare afroamericana...

M.L.: Un album al volo che desidereresti ascoltare...
F.M.: C'è il concerto live di Miles Davis, al Lincoln Center, nel 1963, da cui hanno tratto due album: "Four & More" che racchiude i pezzi veloci e "My Funny Valentine" che racchiude invece i pezzi lenti. "My Funny Valentine", secondo me, tuttora resiste come uno degli album più belli mai registrati. Poi ce ne sono tanti...a me piace molto Woody Shaw, grandissimo trombettista, di cui consiglio l'album "Rosewood" della Columbia...ora in questo periodo ascolto un po' di world music, ascolto musica indiana, musica araba, però per quanto riguarda il jazz, consiglierei i soliti Mingus, Thelonious Monk, Miles Davis, John Coltrane, Joe Henderson...

M.L.: E' interessante notare come un musicista come te che si sta adoperando per portare la propria musica oltre il jazz, consigli poi i capisaldi del jazz come ascolti fondamentali. Ritieni quindi che la base debba continuare ad essere questa?
F.M.: Sì, certamente. Io apprezzo molto il lavoro ad esempio di Steve Coleman, molto moderno, o di tanti altri, però credo che chi si avvicina al jazz, comunque alla fine vedrà che sono questi nomi ad aver prodotto i risultati migliori...come si fa...dopo Miles Davis, Woody Shaw...persino Wynton Marsalis, per me, non è un innovatore come lo è stato Woody Shaw. Ora il jazz per sopravvivere deve cambiare pelle...poco fa guardavamo un DVD di Diana Krall quindi o sopravvive così, nel plastico...la cantante, la big band...cose che sono appetibili però non c'è niente di nuovo, oppure la via è unire l'improvvisazione e la qualità del musicista di jazz, ai ritmi moderni, la dance, l'hip hop...così hai un ritmo che piace a tutti e sopra potrai farci tutte le finezze che vuoi le quali saranno comprese e apprezzate da chi ha un orecchio affinato e da chi non lo ha affinato saranno per lo meno ascoltate e contemporaneamente le vendite non si appiattiscono...perchè un disco venda sono importanti il groove, il ritmo e le voci, delle belle voci...poi il resto può essere anche supersofisticato. E così in questo modo si accontenta sia chi ne capisce "un po' meno" e sia chi ha le orecchie più raffinate...

M.L.: Ma perchè secondo te oggi non si riescono a superare i grandi tipo Miles, Trane, Monk ecc...eppure oggi abbiamo a disposizione tanta di quella tecnica, tanto di quel sapere ma non riusciamo ad essere superiori, perchè?
F.M.:...è un po' difficile...credo che si debba guardare anche la storia e i suoi periodi...l'ultimo periodo storico veramente interessante della nostra storia, è rappresentato dagli anni '60, il '68 e gli anni '70 e infatti se tu guardi quel periodo è pieno pieno di grandissime opere perchè era un periodo stimolante. Quello è stato l'ultimo picco...dopo il '68 non credo che ci siano stati dei periodi interessanti dal punto di vista generale che possano aver sviluppato un'arte altrettanto interessante. Charlie Parker è uscito nel dopoguerra e quella era una situazione che stimolava, il bebop era una musica rivoluzionaria. Le musiche rivoluzionarie succedono quando c'è una situazione storica che lo permette. Un po' negli anni '90 ci siamo liberati da questo schema ma era un riassunto di tutto ciò che si era fatto, la fine del secolo, il mischiare tutto...io per esempio sono entrato nei Groove Collective e abbiamo mischiato tutti gli stili. Ora si tratta di portare avanti qualcosa di nuovo ma se il periodo è un periodo di conservatorismo, di arte soppressa, cosa vuoi portare avanti...ci saranno quei piccoli nuclei i quali più tardi, quando la situazione sarà più favorevole, magari tra cinque anni, sicuramente usciranno fuori con cose nuove ma in questo momento è molto dura...

M.L.: Hai suonato con due orchestre, la Mingus e la Village Vanguard. Molto diverse, molto importanti e rigorose. Come hai vissuto questa esperienza? Cosa ne hai tratto?
F.M.: Guarda, io non sono considerato un trombettista da Big Band. Ma a NY se non fai big band non ti chiamano per fare jazz ma se fai big band ti chiamano solo per fare big band...voglio dire, bisogna fare attenzione a non entrare nel giro sbagliato perchè poi alla fine ci rimani e la gente ti etichetta. Io sono conosciuto come musicista di jazz, jazzfunk, jazzdance...Sono state comunque delle esperienze molto importanti. Con la Village Vanguard ho fatto solo una data e ho dovuto suonare a prima vista, cosa molto difficile perchè il repertorio è difficile e quella è un'orchestra che cura moltissimo l'insieme, la dinamica, fermare il suono insieme, staccare insieme, quindi è stato molto impegnativo per me fare quella serata. Invece la big band di Mingus è una situazione già più aperta nonostante alcune partiture siano ancora più difficili ma lì c'è più spazio per i solisti, la perfezione è quasi sconsigliata...perchè Mingus amava il suono "crudo". Inoltre è stato anche molto eccitante perchè ho avuto l'opportunità di suonare con grandi musicisti. Alla batteria una sera c'era Jeff "Tain" Watts, una sera Johnathan Blake...insomma, tutti grandi...

M.L.: Qualcosa invece sui Groove Collective che mi sembra di capire possano essere un preludio a quanto oggi proponi nel tuo nuovo lavoro...
F.M.: Quando siamo partiti con i Groove Collective, ci hanno etichettato come acid jazz ma non facevamo altro che unire jazz, funk, musica latina e hip hop. Mescolavamo il tutto e ancora oggi lavoriamo. Siamo un gruppo meno folto di prima, siamo in sei, ma andiamo in Giappone, in Messico. Stiamo uscendo con un nuovo album di cui ancora non conosco il titolo e che uscirà per un'etichetta francese. L'esperienza è stata ottima per me, il mio ruolo è quello di portare il jazz in un gruppo che suona sostanzialmente funk quindi ho preso molto dal funk e in più ho dato a chi veniva a sentirci dei modi per avvicinarsi al jazz, gli assoli sono jazz...in ogni caso si tratta di musica strumentale pertanto ci vuole qualcosa che si faccia gradire. Il pubblico non è composto dai jazzofili più preparati ma non è neanche tipo quello di Madonna, ad esempio. Quest'ultimo disco, The Voice Within,  ha voluto riunire tutte le esperienze che ho fatto. E' un risultato di un tentativo di dare un corpo unico a tutte esperienze. Sono tutte mie composizioni tranne una versione di Alleria di Pino Daniele e di Freedom Jazz Dance di Eddie Harris. La ritmica base è composta da Bruce Cox alla batteria e Jonathan Maron al basso elettrico, che suona con me anche nei Groove Collective e poi ci sono tanti ospiti. Tre tastieristi, Krystle Warren, una cantante giovane ma fantastica che secondo me verrà sicuramente fuori, poi c'è un brano dal vivo suonato con Norah Jones che fa un solo improvvisato molto bello che magari ora non fa neanche nei suoi dischi. Poi c'è Josh Roseman che è un trombonista, un pezzo con Stefano Di Battista, un pezzo con l'armonicista che ora suona con Pat Metheny che si chiama Gregoire Maret e tanti altri...

E allora...andiamo ad ascoltare il nuovo album di Fabio Morgera....(click)...



Fabio Morgera
The Voice Within








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Data pubblicazione: 16/07/2005

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