Ogni tanto – purtroppo accade di rado – v'è qualcuno
che sa cosa dire e quando dirlo, anche alla chetichella. Qualcuno che, prima di
dare in pasto all'editoria musicale un prodotto, ci ha pensato, ha composto della
musica, ha studiato e fatto ricerca vera ed ha creato un rapporto simbiotico con
i suoi musicali-commensali. Purtroppo, non sempre, a tale "rerum novarum"
corrisponde la stessa notorietà che andrebbe attribuita. Antonio Flinta è
in questo ristretto agone, fatto di battaglieri artisti che "osano" ancora dare
freschezza al suono. Non si lascia ingabbiare dall'ovvietà e da suoni già uditi,
il suo Tamed profuma di freschezza e di influenze culturali disparate quanto
la sua cosmopolita vita che lo ha portato dal Cile (lì dove è nato) in Italia, passando
per Madrid e Boston. Otto brani, tutti firmati da Flinta, per poco più (si fa per
dire) 70 minuti di musica. Anche questo dato la dice lunga su quanto abbiano da
dire Flinta ed i suoi; il trio – consolidato – formato dai bravi e geniali Roberto
Bucci al contrabbasso e
Claudio Gioannini
alla batteria. Trio espanso dalla presenza, in parte dei brani, del tenorsassofonista
Piercarlo Salvia, non solo esornativo, ma ricco di sostanze e dotato di un
fraseggio finemente descrittivo.
Le liner notes svelano il significato di ogni singolo brano. La sospensione
evocativa di Yudhishthira's Song prende spunto da uno dei più importanti
poemi epici induisti: Il Mahābhārata, con un intro cesellata su poche note ed un'armonia
spezzata dalla tensione ritmica che dà ampia voce alla libertà espressiva del leader,
con volate incontenibili, ed alla calda voce strumentale di Salvia che muta il registro
espressivo del brano. Invisible People, notturno jazz passato nel solco della
tradizione nobile, è ispirata da Ralph Elisson, straordinario autore del libro "L'Uomo
Invisibile", per descriverne tutta quell'ironica passionalità che spinse la sua
penna. We Meet Once tradisce la passione del pianista cileno anche per il
jazz nordico, ma sempre spruzzato di uno swing ben organizzato. Un omaggio a due
geni: Thelonius Monk e Philip Glass è la natura di Monk On The Beach, con clusters
stentorei, modulazioni scabre, ritmi spezzati.
Poi, il fine mainstream di Sonico e la rapsodica 34th Street, con ampi
e travolgenti cambi metrici; l'hardboppeggiante Views e, giusta chiosa, la
solipsistica esibizione di Flinta con San Qiu, raffinatamente minimalista,
dispensatrice di eloquenti pause.
Un lavoro che amalgama perfettamente strutture melodiche e ritmiche e
che suona in modo originale e suggestivo.
Alceste Ayroldi per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 07/03/2010
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