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New Conversations Vicenza Jazz
"Il Jazz che venne dal freddo"
8-16 maggio 2009
di Giovanni Greto


8 maggio, Teatro Olimpico
"An Evening with John Zorn"
John Zorn featuring Uri Caine
Uri Caine, pianoforte; John Zorn, sax alto

10 maggio, Tempio di San Lorenzo
Jan Garbarek & Hilliard Ensemble, "Officium"
Jan Garbarek, sax tenore e soprano
Hilliard Ensemble: David James, controtenore; Rogers Covey-Crump, tenore; Steve Harrold, tenore; Gordon Jones, baritono

15 maggio, Ridotto del Teatro Comunale
Pete Churchill "solo Performance"
Pete Churchill, pianoforte e voce. Ospite: Alessia Obino, voce

Mingus Dynasty: ‘Mingus Ah Um'
Alex Sipiagin, tromba; Craig Handy, sax alto e flauto; Wayne Escoffery, sax tenore; Ku-Umba Frank Lacy, trombone e voce; David Kikoski, piano; Hans Glawischnig, contrabbasso; Donald Edwards, batteria

La serata dedicata alla musica di John Zorn ha luogo al teatro Olimpico, dove anche un alito di respiro e' acusticamente perfetto. Inizia Uri Caine e propone brani dell'amico musicista, uno di seguito all'altro, senza pausa. Il pubblico, a poco a poco rimane imprigionato – positivamente, si intende – nelle trame musicali del pianista. Lo stile e' energicamente percussivo, ma da' luogo ad uno swing appassionante. Il pubblico applaude dopo ogni finale e ritroviamo uno spettatore che da tempo segue il festival e che per manifestare la propria gioia, emette un grido profondo monosillabico, caratteristico, che puo' far sorridere, ma anche accalora di piu' l'atmosfera. Caine e' in serata rilassata, ma inesorabile come non mai. Alterna momenti dolcissimi, malinconici, a sequenze a pedale schiacciato, a fortissimi. Le improvvisazioni si snodano dal tema con trame azzeccate. La platea segue rapita e in silenzio, pronta all'esplosione finale. La tecnica e' impeccabile. La classicita' si mescola con le melodie della tradizione, forse ebraica. C'e' un frammento decisamente percussivo, con prevalenza della parte bassa della tastiera, che cresce di volume, quasi a togliere il respiro. Un altro che svolge una linea melodica strappalacrime, ma che grazie alla pratica improvvisativa tende a sganciarsi da un pericoloso sentimentalismo. Un itinerario che va dall'amato mainstream al jazz moderno sperimentale, alla musica del '900 con echi di Satie, Gershwin, fino al Klezmer, il tutto filtrato nella mente dell'artista e proposto come un genere personale, fresco, nuovo, ideato in quel particolare istante. Il tempo passa quasi senza accorgersene. Finche' arriva il momento dell'ingresso del compositore e sassofonista. Zorn si getta a corpo morto nell'improvvisazione piu' libera: armonici, fraseggi laceranti, uso della respirazione circolare, versi di uccelli imploranti, colpi d'ancia, effeti honky. La sala ammutolisce. Non sempre riesce a seguire le trame improvvisate, ma si rende conto della statura dell'esecutore. E quindi c'e' un senso di rispetto, quasi religioso, verso chi in certo qual modo esprime la difficolta' della vita umana e delle relazioni quotidiane, lasciandosi guidare dai pensieri della mente, spesso intricati, ansiosi, avventati, privi di equilibrio. Un lungo applauso allenta la tensione accumulata. Caine ritorna sul palco per altri tre brani, alcuni dominati da un fraseggio triste, forse dovuto anche alla nasalita' timbrica dello strumento di Zorn. I due si sfiorano, sembrano seguire ciascuno pensieri diversi, ma alla fine, grazie ad una morbida dissolvenza, si ritrovano la', dove erano partiti per un percorso solitario, perche', in fondo, ognuno era attento ad ascoltare cio' che faceva l'altro. Un bis brevissimo, per il tripudio finale. Poi, pur se affaticati, non lesinano foto ed autografi a quanti vanno a salutarli in camerino.



T
empio di San Lorenzo gremito, per la ripresa di "Officium", ossia l'incontro tra il quartetto vocale inglese degli Hilliard Ensemble e il sassofonista norvegese Jan Garbarek. Ne era uscito un disco capolavoro, registrato nel '93 e pubblicato nel '94. Un lungo set, non interrotto da applausi, se non nel brano finale, come era stato chiesto all'inizio dal frate che aveva presentato la serata, per non spezzare l'atmosfera magica – finalmente l'occasione giusta per usare un aggettivo troppo spesso utilizzato a sproposito – instauratasi fra esecutori ed ascoltatori. I cantori dell'Hilliard – gli stessi di 15 anni fa, ad eccezione del tenore Steve Harrold, al posto di John Potter – sono apparsi come al solito professionalmente impeccabili, mentre Garbarek, dal suono inconfondibile sia al sassofono tenore che al soprano ricurvo, ha improvvisato, cogliendo sempre l'attimo adatto per inserirsi, le frasi melodiche adeguate e la giusta collocazione spaziale, variabile, a seconda del brano interpretato. Abbiamo riconosciuto oltre a pezzi contenuti in ‘Officium', in un periodo che dai canti Gregoriani del Duecento si spinge fino al Cinquecento, altri che fanno parte del doppio CD ‘Mnemosyne', il quale pero' non incontro' un uguale successo, altri in parte opera di autori contemporanei, ascoltati per la prima volta, che potrebbero, chissa', comparire in una futura registrazione, come ci hanno rivelato gli Hilliard a fine concerto, prima di essere ricondotti in pulmino dalla chiesa all'albergo. Saremmo rimasti ad ascoltarli, anche piu' a lungo dei 75 minuti effetivi, una durata, d'altronde non breve per un concerto impegnativo, con episodi solistici sia del quartetto che di Garbarek. Piacevole, la dipartita finale, una lenta processione verso la sacrestia continuando a cantare, mentre il suono via via scompare e con la sensazione di aver arricchito il nostro senso dell'udito e di aver pulito la mente dai cattivi pensieri. Garbarek rimane un insuperabile descrittore di paesaggi, immersi in una natura inscindibile dalla vita dell'uomo, eppure sempre piu' in pericolo a causa di una cementificazione scriteriata. E proprio l'ascolto dei 5 artisti dovrebbe indurre a una riflessione i politici insensibili al bello, desiderosi solo di fare i propri interessi, attraverso giochi perversi, per ottenere il consenso dei grandi elettori, con conseguenze letali per la vita degli umani, sotto la cui categoria anch'essi dovrebbero pensare di appartenere. Un'ultima riflessione: l'ascolto dal vivo di un simile organico, collocato in uno spazio accogliente come la chiesa vicentina, risulta piu' ricco ed emozionante, che quello proveniente da un CD, sia pure tecnicamente sofisticato come ECM, anche se inserito in un impianto Hi-fi strabiliante quanto a professionalita'.

La serata al teatro Comunale e' stata aperta dal pianista, cantante, compositore e docente Pete Churchill, stabilitosi in Inghilterra nel 1985 dopo aver completato gli studi musicali in Canada. Una gradevole mezzora di standard ad opera di uno swingante crooner –citiamo tra i titoli l'iniziale ‘Come rain or come shine'. Ad un certo punto, il pianista ha invitato a salire sul palco l'italiana Alessia Obino, che stava partecipando al workshop di canto dal 14 al 16 tenuto da Churchill, che avrebbe avuto come esito un saggio-concerto il pomeriggio del 16 al conservatorio Pedrollo della citta' veneta. Non tradendo, o forse solo celando una comprensibile emozione, la cantante ha ben duettato con il maestro denotando una buona pronuncia, qualita' assai importante per chi non e' di madrelingua inglese.

Ma il pubblico era in attesa degli scatenati musicisti della "Mingus Dynasty", voluta e subito messa in piedi dalla vedova Sue Mingus, non appena ripresasi dalla scomparsa del marito nel 1979, per continuare a rendere viva la sua musica. Per il festival, vista la ricorrenza temporale, il settetto americano ha riproposto con arrangiamento e carica in cui aleggiava la presenza del carismatico contrabbassista, il capolavoro – eravamo nel 1959- nonche' primo album uscito a suo nome, "Mingus Ah Um", un titolo ideato dal leader – come ha spiegato Sue in un intervista contenuta nel libretto del festival - ispirato dalle declinazioni del latino. E dunque Mingus, maschile, Minga, femminile, Mingum, neutro. La Dynasty appare in forma sin dal primo brano senza alcuna necessita', come spesso si verifica, di scaldarsi. Ecco allora inanellate una dopo l'altra le attraenti composizioni di un album memorabile da "Better git in your soul", nel ricordo di Sue "un ritorno all'infanzia, ai Gospel, all'educazione cristiana" ad "Open letter to Duke", "una sorta di remix di vecchi brani, ispirati alle musiche di Ellington", a "Fable of Faubus", "un attacco al governatore dell'Arkansas che nel 1957 aveva assunto una posizione antigovernativa diffondendo la segregazione nelle scuole di Little Rock" esposto in un brano " che rappresenta al meglio la militanza di Charles". Aggressivi, feroci e allo stesso tempo commoventi gli assolo dei fiati, molto lunghi e avvolti dalle frasi che insieme gli altri tre disegnavano per colui cui toccava il compito di improvvisare. Ottimi i rilanci della sezione ritmica, un instancabile Donald Edwards alla batteria, abile scompositore poliritmico, ideatore di accentazioni efficacissime, ed attentissimo nel mantenere un metronomo quasi sempre ultraveloce, con raddoppi interni, all'unisono con gli altri compagni. Swingante e godibile il fraseggio di David Kikoski, un pianista capace ad inserirsi in contesti differenti, dando prova di tecnica e fantasia. Ha ben figurato anche il contrabbassista Hans Glawisching, con pochi interventi in assolo, ma un driving attento e sicuro ed un timbro caldo e pastoso. Energici apportatori di una tensione scoppiettante i 4 fiatisti, tra i quali ha sorpreso la corposa, spesso arrabbiata, vocalita' del trombonista Frank Lacy, che ha interpretato con molto soul ‘Good bye Pork Pie Hat', tributo a Lester Young, che all'epoca del disco era morto da poco e che Mingus "adorava come un santone del jazz". Applausi scroscianti, accompagnati sovente da urla per un pubblico conquistato ed eccitato dalla vitalita' di un organico che continua con ardore e passione a riproporre una scrittura che rivela sorprendentemente ad ogni rilettura qualche cosa di nuovo.

Vicenza Jazz ha gia' pronto il titolo per le New Conversations di maggio 2010: "Allonsanfan: il Jazz al di la' delle Alpi".







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Data pubblicazione: 01/11/2009

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