La sala è enorme, e quasi del tutto piena. Dominata
da un brusio d'attesa, si prepara, con febbricitante palpitazione a contenere
il grande evento. Coleman ha superato da un pezzo la soglia dei settanta,
e tuttavia, se si dovesse dire che l'impaccio dell'età, non interferisca
col suo modo di stare sul palco e con la sua voce strumentale, si direbbe
una bugia. Stretto in un vestito stravagante soprattutto per i suoi colori
accesi, Coleman, segue l'ingresso sul palco dei suoi compagni, strappando
un applauso rumoroso ma sentito, al quale il giovane vecchietto sembra non
dare troppa importanza, limitandosi a raggiungere il leggìo – posto al centro
del palco – per soffiare una frase incomprensibile al microfono, ed imbracciare
il suo solito sassofono bianco.
Un po' come nella sua musica, Ornette,
sembra voler fare a meno del superfluo, di quella patina inconsistente di
formalità, riferibile sia agli insignificanti convenevoli con il pubblico
– non parlerà mai durante tutto il concerto – che alla sua concezione musicale,
povera di inutili ricami e abbellimenti. A quasi cinquant'anni dalla sua
prima registrazione – "Something else" 1958
– il sassofonista texano, ripropone col suo quartetto acustico, un'idea
musicale molto vicina alla poetica dei primi anni: i temi, scarni e fulminei,
mossi da una continua tensione, sono spinti dall'importante lavoro della
batteria e di uno dei due contrabbassi, che dialogando ininterrottamente,
lasciano sia al leader che al secondo contrabbasso – suonato con l'archetto
– la possibilità di esprimersi in un'assoluta libertà ritmica e armonica.
In questa formazione piuttosto anomala, affascinante
oltre che per la risultante timbrica anche per una certa presenza scenica,
i due contrabbassisti, svolgeranno per quasi tutto il concerto ruoli del
tutto differenti: uno sarà impegnato nella scansione ritmica e nella tensione
armolodica; l'altro, dipingerà con l'archetto suoni di contorno, astratti
e sempre azzeccatissimi, ricordando un po' – forse il paragone potrebbe
sembrare un po' forzato – i pastosi e confusi fraseggi della tromba di
Don Cherry. Alla batteria siede invece il figlio di Ornette, Denardo
Coleman, che ci rivela un drumming potente e preciso, spesso però privo
di quel trasporto e quella fantasia di batteristi come Billy Higgins o Ed
Blackwell; limitato nel volume, da una gabbia di pannelli posti a semicerchio
intorno alla batteria, che sarà così oscurata dalle voci degli altri strumenti,
percepiti dal pubblico in modo più diretto – non si capisce se questo artificio
sia stato voluto per ottenere un determinato suono della batteria, o per
non aggredire i timpani malandati di Ornette...
Nonostante l'acustica della sala non permetta
una buona udibilità, l'impasto timbrico derivato dal suono di questa batteria
soffusa, dall'arguto e asimmetrico walkin' di un contrabbasso, dai visionari
suoni con l'archetto dell'altro e non per ultimo dalla voce politimbrica
del leader – che userà oltre al sassofono alto, sia la tromba che il violino,
anche se solo in rari e brevi episodi – è comunque affascinante e suggestivo.
Riesplorando il repertorio dei primi dischi come "Tomorrow is the question",
"The shape of the jazz to come" e "Change of the Century",
il gruppo giunge alla fine del concerto, concedendo due "bis" memorabili
con Lonely Woman
e Turnaround.
L'emozione tradisce a questo punto il pubblico,
che accompagna le prime note dei due temi – ma soprattutto del primo – con
una vera e propria ovazione: l'atmosfera diviene magica, evocativa, riempita
dalla voce incerta del sassofono, che attraverso repentine variazioni di
dinamiche, guida gli altri strumenti verso una libertà individuale, comunque
funzionale all'espressione del collettivo.
Il concerto, scorre nel suo complesso piuttosto
velocemente, attraverso composizioni brevi e non sempre ispirate, che lasciano
pensare a una certa voglia da parte del leader, di archiviare velocemente
la pratica, che per nostra fortuna, non sarà poi così veloce e sbrigativa,
concedendo bei momenti di improvvisazione, sostenuti soprattutto dalle note
dei due contrabbassisti, degni compagni del sassofonista.
Nonostante la vocalità strumentale di Coleman
non sia più aggressiva e devastante come una volta, la sua visione musicale
continua ad affascinare, a coinvolgere, e speriamo a stimolare una ricerca
che, negli ultimi trent'anni, non sembra aver fatto altro che rigirarsi
su se stessa.
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Un Teatro Augusteo insolitamente poco gremito
(il prezzo eccessivo dei biglietti, 50 e 38 euro, può essere una parziale
giustificazione) accoglie calorosamente l'inventore del Free Jazz. In platea,
fra i nostalgici cinquantenni che brandiscono copie consunte dei vinili
di Coleman, c'è chi ancora ricorda il concerto del
1987 al Palapartenope, con lo storico quartetto formato da
Billy Higgins,
Charlie Haden, e Don Cherry.
Questa volta Ornette, elegantissimo con il suo
cappello da Chicago anni '30, sale sul palco accompagnato da un insolito
(ma ormai affiatatissimo) quartetto composto dal figlio Denardo alla
batteria e da due contrabbassisti, Tony Falanga e Greg Cohen.
Mentre il drumming del giovane Denardo risulta fortemente penalizzato da
una cattiva acustica, causata da un muro di plexiglas che lo avvolge, è
il lavoro dei due bassisti a incantare per tutta la durata del concerto
(meno di un'ora) gli ascoltatori; mentre Greg Cohen si concentra
sul ritmo e tiene le redini delle esecuzioni, il suo collega Tony Falanga
è libero di disegnare con il suo archetto linee melodiche che a volte
contrastano, altre volte dialogano a intreccio, con quelle che fuoriescono
dal sax del leader.
Di tanto in tanto, e in modo particolare quando
Ornette suona (a modo suo, manco a dirlo!) la tromba e il violino, si ha
l'impressione che gli anni comincino a farsi sentire, ma questa sensazione
svanisce ogniqualvolta il vecchio musicista imbraccia il suo tanto amato
sax alto bianco.
Al momento di congedarsi, il vecchio Ornette,
quasi sorpreso dall'ovazione della platea, indugia, sembra voler annunciare
che la serata (e con essa anche la brevissima tournee italiana) è conclusa,
poi torna sui suoi passi, si consulta con Tony Falanga, e, con
Turnaround, regala
un secondo, insperato bis.
Sembra quasi che con il passare degli anni (per
la cronaca, 75!) la musica di Ornette sia diventata meno complessa e più
"democraticamente" fruibile. In poche parole, l'armolodia non è mai stata
tanto decifrabile quanto stasera.
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