Archivio Storico Olivetti - Villetta Casana
per la IX Settimana della Cultura d'Impresa, dal 14 al 22 novembre 2010
in collaborazione con l'Open World Jazz Festival
18 novembre, alle 17.30
La musica e il jazz nella Città dell'Uomo
di Franco Bergoglio
Come la cultura Olivetti ha saputo alimentare un territorio durante e dopo l'utopia
della società di Adriano. Dall'Euro Jazz festival all'Open World Jazz Festival.
Massimo
Barbiero, Maurizio Brunod, Laura Conti:
musicisti nati in un territorio che ha alimentato una creatività figlia di un "DNA"
culturale che né permesso uno sviluppo nel mondo.
Intervengono: Guido Michelone, Musica Jazz, Alias, Jazz Convention; Sergio
Giolito, La Sentinella del Canavese, presidente della Società Musicale Olivetti; Marco Buttafuoco, L'Unità, Giudizio Universale; Franco Bergoglio,
Jazzitalia; Marco Basso, La Stampa; Neri Pollastri, Musica Jazz, AAJ,
docente di filosofia.
Al termine dell'incontro, concerto con Laura Conti
(voce), Maurizio Brunod (chitarre) e
Massimo Barbiero
(percussioni).
www.arcoliv.org/index.asp
Un Blues per Olivetti
Ci arrampichiamo per la strada che conduce alla sede dell'Archivio Storico
Olivetti. La giornata uggiosa vela di nebbiolina il panorama, ma sono ancora
visibili le opere volute dall'ingegner Adriano Olivetti, il vulcanico homo faber
che ha trasformato una buona industria italiana in un simbolo universale del fare
impresa in maniera diversa. Olivetti voleva architetture di valore sia per le sedi
aziendali che per le case dei dipendenti e piani urbanistici che non deturpassero
il luogo in cui la fabbrica produceva. Inevitabilmente la tristezza climatica si
riflettere sul convegno: il tema La musica e il jazz nella Città dell'Uomo sembra
smarrirsi tra le sommesse lamentazioni per quanto ha perso l'Italia. Stipendi alti,
meritocrazia. Borse di studio. Relazioni sindacali rispettose. L'industria guarda
al territorio con attenzione, non con ingordigia inquinatrice. L'incontro si tiene
in una struttura piacevolissima, gli interni sono arredati con le riproduzioni di
pubblicità dei prodotti che costituivano il core business di questa industria:
macchine per scrivere e computer. Immagini graficamente appaganti, inserite in un
contesto privilegiato: sembra di visitare una piccola Fondation Maeght e
invece questa sede, una dependance dell'archivio vero e proprio, fungeva semplicemente
da asilo aziendale per i dipendenti (decenni prima che altri iniziassero a parlarne
qui funzionava). L'archivio principale si trova nell'elegante e vicina Villa
Casana. Una casa di famiglia? No. La sede del dentista per i figli dei dipendenti,
ci spiega uno dei collaboratori della Fondazione. Basta, tanto nessuno può crederci.
Piove e il verde del parco trascolora in un grigio plumbeo, come l'animo dei presenti.
Il convegno si rivela un successo di pubblico, ma l'orazione funebre su quanto ha
rappresentato l'Olivetti non ha fine e prosegue come una ferita tra gli interventi.
Neanche il trio che intervalla con del buon jazz le parole modifica il mood
del pomeriggio. L'inedito gruppo formato per l'occasione da
Massimo Barbiero
(batteria e percussioni), Maurizio Brunod (chitarra elettrica)
e Laura Conti (voce), parte con Over the rainbow.
L'arcobaleno della canzone evoca un passato aureo e mai si aprono le nuvole su di
un futuro insondabile. Nel presente piove. All'orizzonte non si profilano né politici,
né imprenditori, né intellettuali che possano ereditare il magistero di Olivetti.
Qualcuno ha scritto che la sua figura era troppo avanzata nell'Italia anni Cinquanta.
Voleva dirigenti capaci, i migliori esperti del settore. Si circondava dei massimi
intellettuali sfornati dal Paese, possibilmente giovani. Insieme inventavano e innovavano.
L'Olivetti che realizzava profitti alla sua guida non sfoggiava tronfi manager dell'outsourcing.
Comandavano Paolo Volponi e Geno Pampaloni. La poesia al potere, verrebbe
da pensare. E invece in questi nostri mala tempora si studia con profitto
il problem solving, per concludere, supportati da dotte teorie economiche,
che bisogna delocalizzare in Cina. Quale sublime immaginazione imprenditoriale
al servizio dell'umanità! I grafici che realizzavano le pubblicità del marchio rappresentavano
il meglio su piazza. I musei americani fanno incetta, espongono. I prodotti erano
funzionali, ma anche belli: sono entrati storia nobile del design industriale…E
qui nel bel Paese? nebbia fitta! Curiosando tra i manifesti affissi non si vede
però una pubblicità della lettera 22 dove Duke Ellington che, come
fosse al pianoforte, accarezza elegantemente i tasti con una mano, ingioiellata
-politically incorrect!- da una voluttuosa sigaretta. Chiunque utilizzando
quella macchina avrebbe arpeggiato parole melodiose. Il jazz a Ivrea è di casa da
sempre. La Olivetti predisponeva una programmazione culturale di primissima qualità,
a un costo ridicolo. Altro che il dopolavoro di stampo fascista o quelli modesti
dei gruppi industriali dell'italietta anni Cinquanta. Olivetti desiderava esporre
dipendenti e cittadini al meglio della cultura e dell'arte contemporanee. Invitava
a Ivrea il gotha mondiale dei concertisti classici e anche il jazz, nel suo piccolo,
non veniva trascurato. Le rassegne dedicate alla musica afroamericana iniziano presto,
quando nel resto del Paese rappresenta ancora un oggetto misterioso e negli anni
successivi, mentre gli altri sono fermi al mainstream, qui si ascolta l'avanguardia.
Non è un caso se i figli di quel milieu sono sbocciati numerosi e si sono
potuti dedicare a ricerche di frontiera, come testimoniano, tra i presenti, le figure
di Barbiero e Brunod. La sera uscivano a piedi e disponevano del meglio.
Come spiegare il fervore creativo di Ivrea senza tornare all'uomo che ha dato una
simile impronta? Ecco una sintesi dell'Olivetti pensiero/azione:
La sua grandezza è legata alla concezione dell'impresa come sintesi di cultura internazionale,
tecnologia all'avanguardia, organizzazione efficiente, cooperazione partecipante,
il tutto al servizio della comunità. È legata alla concezione dell'uomo come sintesi
di produttore, consumatore e cittadino. È legata alla concezione dello Stato come
sistema integrato di molteplici comunità radicate nella propria tradizione ma aperte
alla modernizzazione. È legata alla concezione dell'estetica, intesa come valore
imprescindibile, aggiunto alla perfezione delle macchine, degli edifici, del territorio.
È legata alla concezione della cultura, intesa come sintesi di scienza e tecnica,
umanità e arte. È legata soprattutto alla grinta rivoluzionaria con cui queste concezioni
non sono rimaste sulla carta ma sono state concretamente trasformate in fabbriche
belle ed efficienti, in prodotti esteticamente sorprendenti e funzionalmente impeccabili,
in piani di sviluppo territoriale che restano esemplari, in correnti intellettuali
che hanno segnato la cultura dell'intero Paese, in movimenti politici che, pur nella
loro fragilità, sono tuttavia riusciti a scuotere la burocratica protervia della
partitocrazia.
In Olivetti, dunque, il ruolo dell'imprenditore si intrecciava con quello del
teorico, dello scrittore, del mecenate, dell'editore, del politico, dell'urbanista,
dell'esteta. Lontano mille miglia dalla febbrile voracità dell'accumulazione, dall'ignorante
avventurismo dell'azzardo, dalla smaniosa ostentazione dello spreco che tuttora
contagiano tanti altri imprenditori.
Dalla Prefazione di Domenico De Masi a: Beniamino de' Liguori Carino,
Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960) Roma,
Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, N. 57,
2008, pdf sul sito
http://www.fondazioneadrianolivetti.it/quaderno%2057.pdf
L'Olivetti ha rappresentato un'originale modello di impresa intellettuale.
La qualità e la quantità delle menti che vi hanno lavorato impressiona. Sociologi,
architetti, scrittori, scienziati della politica e dell'organizzazione industriale,
psicologi del lavoro. Un elenco di talenti sensazionale: da Bruno Zevi a Tiziano
Terzani. Per non parlare degli intellettuali coinvolti da Adriano Olivetti nel progetto
politico e nella rivista Comunità, tra i quali si ricordano: Luciano Gallino,
Franco Ferrarotti, Furio Colombo, Eugenio Montale…
Il poeta Giovanni Giudici, dirigente e autore, con Luigi Fruttero e Franco Fortini,
di alcuni testi delle campagne pubblicitarie Olivetti, definirà la macchina per
scrivere Valentine (cui sono legate le mie prime prove di scrittura professionale)
una "Lettera 32 travestita da sessantottina". Di un rosso rivoluzionario, rappresentava
al meglio gli anni Settanta, con il Paese in bilico dinamico tra fermenti rivoluzionari
e geniale innovazione industriale. Anche quando il giudizio sull'Olivetti non risultava
favorevole (come nel caso di Sanguineti, sulle cui parole
Massimo Barbiero
e Rossella Cangini hanno modellato il disco Denique Caelum) nascevano
querelle nobili, come quella che lo oppose a Fortini. Ci troviamo a distanze
siderali dal gossipparo culturame odierno.
Quale è il lascito dell'avventura di Adriano Olivetti sulla cultura d'impresa? Non
sono titolato a pormi questa domanda, per fortuna. Oltretutto la mia risposta sarebbe
forse arbitraria e unilaterale. Tuttavia rimango dell'opinione che non vi sia proprio
una eredità da spartire. L'azienda è stata distrutta da una cattiva economia alleata
a una peggior politica, pronte insieme, come un mostro bicefalo, a sbranarsi quanto
realizzato con la fatica e l'intelligenza da migliaia di lavoratori nel corso di
un secolo. Qualcuno, ad esempio Furio Colombo (anche lui in Olivetti giovanissimo),
ricorda quell'esperienza, ma è solo nostalgia. In America e libertà. Da Alexis
de Tocqueville a George W. Bush (Baldini Castoldi Dalai,
2005) Colombo riconduce l'idea di comunità
di Olivetti a quella dei padri costituenti americani, al modello di libertà che
il nuovo continente è stato in grado di elaborare. Quel concetto di libertà peculiarmente
americano che così spesso -in positivo o in negativo- viene associato al jazz. Proprio
l'America formerà il pensiero di alcuni importanti menti della Olivetti. Due in
particolare hanno studiato e lavorato negli States ma hanno anche contribuito a
migliorare la conoscenza del jazz in Italia e nel mondo. Il primo nome è ovviamente
quello di Franco Ferrarotti, collaboratore stretto di Olivetti, tra i fondatori
della sociologia italiana e acuto commentatore della musica nera nelle sue varie
forme e implicazioni socio-politiche. Grazie al lavoro di intellettuali come Ferrarotti
l'analisi sociale della musica è diventata una pratica degna di considerazione accademica.
Il secondo, Piero Scaruffi, Laureato in Matematica a Torino, si trasferisce giovanissimo
a Cupertino in California, per dirigere il Centro di Intelligenza Artificiale dell'Olivetti.
Dopo la chiusura del centro prosegue le attività di ricerca e insegnamento (a Stanford
dove si sono formati i futuri creatori di Google e della net economy e a
Berkeley). Scaruffi è stato uno degli esploratori della sfera virtuale, con il suo
sito www.scaruffi.com, tra i primi nel web, prefigurando i fenomeni del blog e dell'editoria
telematica. Tra i suoi interessi, fondamentale quello per la musica: rock, classica,
avanguardia, blues…e jazz. La sua Storia del jazz ha l'indubbio merito di
spingersi fino al duemila, considerando la contemporaneità alla stessa stregua dello
swing o del be bop. Una capacità di ascolto non da tutti.
I musicisti interrompono il flusso dei pensieri (e degli interventi "parlati") improvvisando
un blues finale. Ne avevamo bisogno. Come ha scritto lo psicologo cognitivo (e chitarrista
rock) Daniel Levitin, la musica triste consola meglio di quella allegra perché crea
empatia. Laura Conti si scatena in un solo in scat, mentre Brunod
e Barbiero smettono i panni impegnati e swingano in old fashioned style.
Restando al tema musicale, vale la pena ricordare una esperienza degli ultimi anni
che ripropone e aggiorna in campo artistico l'idea di Comunità Olivettiana. La mente
va al gruppo eporediese Odwalla: impresa comunitaria, multidiscipliare.
Formazione di sole percussioni, contamina un Africa reale, non da cartolina col
jazz, passando per ogni genere musicale che trovi il modo di unirsi al fiume inventivo
collettivo. E' glocale in senso nobile: parte dal territorio ma si allarga
a collaborazioni con ospiti di ogni parte del mondo. Integra improvvisazione
e scrittura e soprattutto la musica con le altre arti: a partire dalla danza, imprescindibile
al progetto, alla fotografia, al video, alla letteratura. Per usare un termine filosofico,
potremmo definirlo un esperimento di olistica musicale: incorpora quanto
più possibile svariati aspetti della realtà artistica in un tutto che travalica
la classica idea del solismo individuale dominante nel jazz.
Piero Scaruffi: Web & jazz
di Franco Bergoglio
Il rizoma è un tubero e viene contrapposto da Deleuze e Guattari all'albero e
alla radice. La struttura arborescente cresce dall'alto al basso, attraverso uno
o più fusti su cui si innestano le ramificazioni, in conformità a un orientamento
gerarchico che stabilisce punti e modalità delle connessioni fra le diverse componenti.
Diverso è il procedere del rizoma, che si sviluppa secondo configurazioni decentrate
e in cui ogni parte può essere connessa a un'altra senza necessario passaggio per
punti notevoli predefiniti. L'immagine che oggi più immediatamente si può associare
al rizoma è senza dubbio quella della rete…
Massimiliano Guareschi, Introduzione a Mille Piani di Deleuze, Guattari,
Castelvecchi, 2006.
La sua prima fanzine via posta elettronica risale al 1985,
il primo database va on line tra il 1986 e il
1990 e nel 1995
nasce il sito internet www.scaruffi.com.
Date archeologiche per il Web. Viaggiatore infaticabile del globo reale, Piero Scaruffi
è stato soprattutto uno dei primi esploratori della sfera virtuale, prefigurando
il blog e l'editoria telematica e oggi il suo sito -enciclopedico, ipertrofico-
contiene migliaia di pagine rivolte ai diversi interessi dell'autore. Solo a voler
restare in ambito musicale, tra recensioni, commenti, classifiche, elenchi e sezioni,
parliamo di centinaia di documenti. Ogni tanto una sua stroncatura di qualche icona
rock scuote violentemente la rete. Anche il New York Times gli ha riconosciuto
lo status di "precursore" dedicandogli un ritratto. Come definire Scaruffi? Forse
un esempio compiuto di intellettuale rizomatico, reticolare e orizzontale dell'internet
globale. In ossequio a Deleuze e Guattari, la gerarchia tra i saperi lascia il posto
alla possibilità di una conoscenza in continua espansione. Lui rifiuta questa definizione,
insofferente a classificazioni univoche. Giornalista freelance, scienziato
cognitivo, informatico, critico cinematografico e letterario, commentatore politico,
poeta, fotografo, autore di resoconti di viaggio e di numerosi libri tra ricerche
dotte e varie storie della musica: una sul rock in 6 volumi, una per la new age,
una sull'avanguardia (pubblicate da Arcana) e infine una corposa sintesi dedicata
al jazz (la si leggere in ampi stralci e la si può ordinare direttamente dal sito).
Laureato in Matematica a Torino, nel
1983 Scaruffi si trasferisce a Cupertino in California, per dirigere
il Centro di Intelligenza Artificiale dell'Olivetti. In questo periodo collabora
con l'Università di Harvard (1984).
Dopo la chiusura del centro, avvenuta nella metà degli anni Novanta, Scaruffi prosegue
le attività di ricerca e insegnamento (Stanford, Berkeley).
Appartieni a quella schiera di intellettuali passati attraverso la straordinaria
esperienza della Olivetti. Una impresa che riusciva a coniugare creatività, incrocio
tra approcci culturali e scientifici diversi, slancio verso il nuovo e fiducia nei
giovani, tensione etica verso la società circostante e un mondo più equo. Come valuti
e/o ricordi quello scenario intellettuale, dal quale sono usciti, insieme a splendidi
prodotti industriali, anche tra i migliori architetti, poeti, grafici, pubblicitari,
scrittori, critici, sociologi, economisti italiani…
C'erano sicuramente ingegneri molto creativi, in particolare un paio di manager
che valutavano positivamente le idee originali e non solo la disciplina. Purtroppo
io arrivai in Olivetti quando un management più pragmatico (che dava più importanza
ai pianificatori che agli inventori) stava prendendo il potere. Nel mio piccolo
formai un Centro di Intelligenza Artificiale che godette di parecchia libertà e
poté interagire con centri di ricerca fra i più importanti del mondo.
Credo di dovere soprattutto questo all'Olivetti: di avermi consentito (quasi obbligato)
a conoscere e interagire ambienti internazionali. Ebbi quasi subito l'occasione
di trasferirmi al centro di ricerca che l'Olivetti aveva in Silicon Valley, dove
venni esposto all'entusiasmo e alla creatività di quegli anni (Ottanta/Novanta).
Sospetto anzi che il mio Centro di Intelligenza Artificiale sia stato l'ultimo progetto
di quelle dimensioni che riuscì ad emergere in Olivetti dal milieu ingegneristico.
Dopo furono i burocrati a guidare in maniera sempre più rigida i progetti. A giudicare
dalle storie che mi raccontavano i colleghi più anziani, nei decenni precedenti
l'Olivetti diede spazio a molti progetti avveniristici. Io arrivai che era già diventato
difficile trovare quello spazio. Anzi era difficile persino far accettare anche
le più banali innovazioni a Ivrea ricordo che i manager di "Palazzo Uffici" rifiutavano
di lasciare messaggi sulla segreteria telefonica e solo un paio impararono cos'era
l'e-mail). Parenti lontani di quelli che avevano inventato il primo desktop computer
(l'ing. Perotto) e che avevano portato internet in Italia.
Le tue teorie risentono in qualche maniera dell'apporto dell'improvvisazione,
dell'attitudine alla libertà della musica nera? Mi chiedo se e in quale misura la
musica jazz può aver influenzato le tue ricerche scientifiche…
Credo che tutte le arti e le scienze abbiano una grossa componente di improvvisazione.
Sono ben poche le scoperte che arrivarono "pianificate".
In genere uno sta svolgendo un compitino e improvvisamente gli viene un'idea, e
la "scoperta" avviene seguendo quell'idea, senza saper bene dove condurrà. E ovviamente
questo vale anche per tutte le arti. In particolare, quasi tutte le composizioni
nascono da un'improvvisazione. Dove il jazz è diverso è nel concetto di improvvisazione
"collettiva".
Se rimuovi il "collettivo" allora siamo tutti improvvisatori.
L'improvvisazione collettiva invece fu veramente un concetto rivoluzionario perché
la civiltà umana (non solo occidentale) si stava muovendo in direzione opposta,
verso la totale organizzazione della società. Gli unici a cui era consentito improvvisare
collettivamente erano i bambini quando giocano in cortile e gli intellettuali al
caffè. Il jazz fu importante nell'introdurre un modo nuovo di guardare non solo
alla musica ma alla vita e alla società in generale, un modo che in fondo è molto
antico (non per nulla arrivò via gli schiavi Africani dal
continente meno "organizzato"). Non sono sicuro che la scienza abbiamo imparato
molto però. La scienza continua a inseguire l'ultra-specializzazione, con la conseguenza
che scopriamo particelle sempre più esotiche ma capiamo sempre meno di come è fatto
l'universo.
I tuoi interessi culturali, assieme a quelli scientifici, sono disparati, vari,
multipli. Dipingono un intellettuale vecchio stampo, di quelli che trovavano il
tempo per operare delle invasioni di campo in zone dello scibile umano apparentemente
lontane tra loro. Questo a dispetto della tua grande capacità di interpretare e
anticipare il valore dei nuovi media, come internet. Come leggi la storia del jazz
nel turbine del secolo passato, di questo Novecento definito breve,
ma denso di eventi culturalmente rilevanti?
Il jazz emerse negli stessi anni in cui operavano Joyce, Eliot, Proust, etc.
Non è una coincidenza. E venne subito dopo la generazione che aveva inventato cubismo,
espressionismo, futurismo, la relatività e la
meccanica quantistica. Non è una coincidenza. Quindi non è solo il jazz. E' tutta
la civiltà occidentale che viene percorsa da un movimento prima di rottura e poi
di rinascita. Tutto ciò che successe dopo (hippies, rivoluzione sessuale, movimenti
studenteschi, musica rock, pop art, quello che vuoi) fu una conseguenza. Quello
che è più difficile da mettere in prospettiva è come il computer e l'internet
hanno contribuito/accelerato/decelerato questo processo. Dici giustamente che sono
un intellettuale vecchio stampo (un "tuttologo"dicono i detrattori italiani, un
"uomo rinascimentale" dicono i pochi che mi stimano!) e dici giustamente che ho
cominciato a usare l'internet fin da quando nacque (si chiamava ancora Arpanet quando
pubblicai i primi saggi musicali online). Può darsi che siano stati proprio il computer
e proprio l'internet a invogliarmi e consentirmi di occuparmi di tante materie.
Forse abbiamo tutti la tendenza a fare i tuttologi, ma per secoli ci è stato proibito
di farlo perché la società industriale aveva bisogno di specialisti. Ci venne insegnato
che era male occuparsi di due materie allo stesso tempo, ed era bene diventare il
super-specialista di una sola (il premio Nobel è la suprema manifestazione di questa
ideologia). Il jazz fa parte dei primordi di un movimento che mise in discussione
tante cose. Il computer e l'internet hanno consentito di metterne in discussione
tante altre. Ma credo che senza l'impulso di quella generazione (quella che inventò
sia il jazz sia la meccanica quantistica) oggi non useremmo il computer come lo
usiamo. In fondo l'internet (wikipedia, facebook, etc) è il primo medium che consente
di fare improvvisazione collettiva in tutto e su grande scala.
Le tue analisi musicali sono spesso giustamente calate nella realtà socio-economica
del periodo che vanno ad analizzare. Seguendo le indicazioni dell'intellettuale
francese Daniel Bensaid potremmo definire questo tuo approccio al jazz ampiamente
fuori moda, come se attuasse una résistance à l'air du temps, una battaglia
per non tenere fuori dal campo dell'analisi le esperienze che potremmo definire
di alto profilo.
Vivo negli USA da 27 anni. Sono ovviamente più influenzato dalla cultura degli USA
(che è un gran caos di movimenti incoerenti) che dalla cultura europea odierna
(di cui confesso di sapere sempre meno). In USA uno dei trend più significativi
degli ultimi decenni è stata la "storia globale" che analizza gli eventi nel contesto
socio-economico mondiale, non solo regionale, e la California ne è uno dei centri
principali. Inevitabilmente sono influenzato anch'io da questo trend (e nel mio
piccolo penso di aver contribuito). Credo di dover qualcosa anche al fatto di aver
viaggiato molto (più di 130 nazioni), in particolare alle civiltà più antiche e
influenti (India e Cina, entrambe poco soggette al concetto Europeo di super- specializzazione).
Arriviamo a una delle considerazioni finali della tua storia del jazz, il discorso
sull'invenzione delle etichette per vendere la musica operata dall'industria discografica.
Significativo l'esempio di Hendrix etichettato come musicista rock dalla sua casa
discografica. Scrivi: se fosse stato etichettato come "jazz" sarebbe stato ugualmente
un musicista rivoluzionario, ma di un tipo completamente differente: un jazzista
"hard-rocking" al posto di un rocker "improvvisatore". Proseguendo il ragionamento
noti che: in un certo senso non è il musicista che ha creato una simbiosi con
l'audience, bensì le etichette discografiche. L'etichettatura ha creato la simbiosi
con un segmento dell'audience fornendogli artisti abbastanza simili da essere abbracciati
sotto lo stesso termine. Tutto questo muoversi per generi e sotto generi: new cool, neo-hardbop, contemporary,
neocon jazz, post bop, porta a un nominalismo spesso fumoso, un linguaggio per adepti
da scolastica tardo medioevale, con un procedimento che sembra nascondere la musica
piuttosto che spiegarla…
Non ho molto da aggiungere.
La tua attività di critico rock ha riscosso, anche in Italia, opinioni divergenti
e fomentato reazioni violente. Specialmente per le tue stroncature di gruppi o singoli
artisti considerati "sacri". Per il jazz non è fiorito nel nostro Paese un tale
interessamento, mentre mi hai detto di aver ricevuto critiche negative in
America, su quel versante…
Prima di tutto anche in USA e Gran Bretagna sono state pubblicate stroncature ai
miei giudizi di rock (se fai una ricerca con Google ne trovi a iosa). La differenza
è nel tono: gli Italiani sono spesso più esuberanti e talvolta "violenti" degli
Anglosassoni. In Italia ci fu anche un problema molto banale: a risentirsi dei miei
giudizi furono quelli a cui involontariamente rovinai il business plan, ovvero riviste
e negozianti, che, ahimè, controllano l'opinione pubblica avendo diretto
contatto con lettori/clienti. Vivendo in USA, io non avevo idea che certi miei giudizi
avrebbero creato lo scompiglio. Sapevo che i fans di Beatles e Presley se la sarebbero
presa, ma non che le riviste
si sarebbero offese perché, per esempio, ridicolizzavo le "next big things" britanniche
su cui le riviste italiane avevano puntato molto. Ergo molte riviste si scagliarono
contro i miei libri per difendere la propria credibilità e, in ultimo, il proprio
business. Questo effetto i miei libri non l'ebbero e non l'hanno sulle riviste USA,
e quindi le critiche nei miei confronti qui sono più civili (ma ahimè non meno numerose).
Ovviamente a 20/30 anni di distanza secondo me sono gli altri ad aver cambiato opinione
(e quindi aver ammesso indirettamente che avevo ragione io) mentre io ho cambiato
poco di quello avevo scritto allora. La fama di rompipalle però mi è rimasta e rimarrà
a vita. Nel jazz questo fenomeno non si è verificato perché evidentemente non ho
dato fastidio a nessuno. Una ragione banale è che la critica jazz è molto più matura
di quella rock e quindi condivido quasi tutti i giudizi più comuni. La critica rock
era ed è ancora fatta da tanti ragazzi che sanno poco di tutto e sono piu` che
altro dei fans. I loro giudizi sono inevitabilmente molto diversi dai miei. Per
la musica rock troverai sempre decine di riviste/websites che trattano un qualsiasi
disco come un capolavoro, e tipicamente due anni avranno già cambiato giudizio abbassando
il voto da 8 a 2. Nel jazz questo non succede. Nel cinema ancora meno. Nella classica
ancora meno. E così via.
La critica rock, ahimè, é ancora al fondo della classifica. La critica jazz è molto
più in alto. Dissento poco dal resto della critica jazz. Dissento moltissimo dalla
gran parte dei giudizi che leggo su riviste e website di musica rock.
Per ultimo, l'influenza dell'industria discografica èdiversa: investe molto di
più nella musica rock, e quindi causa molte più distorsioni. Per emergere, un artista
jazz deve essere veramente bravo (poi si può discutere sull'originalità) mentre
molti artisti rock/pop/hiphop emergono semplicemente perché una casa discografica
ha deciso
di investire molti soldi. A volte sono semplicemente telegenici o amici del collega
della sorella del manager della casa discografica. Se non ti fai influenzare dai
soldi investiti in marketing (la grande iettatura della società e politica moderna),
è probabile che ti scontrerai molto più spesso con le case discografiche rock che
con quelle jazz. E mai con quelle di musica classica. Una critica che mi è stata
rivolta qui per il mio libro sul jazz è di non essere un vero critico jazz. Vero.
Azzardo una ipotesi: forse la levata di scudi è una diretta conseguenza del tuo
essere uno dei pochi critici odierni che si permette di "sbilanciarsi" a favore
della vecchia avantgarde, quella che oggi viene definita variamente musica contemporanea
improvvisata o improvvisazione radicale e che non riscuote né un significativo successo
di pubblico né di critica.
Sopravvaluti (come molti lettori) quanto spesso parlo bene di un musicista d'avanguardia
e sottovaluti quanto spesso ne parlo male. Se critico il disco di una star, se ne
accorgono tutti. Se critico un disco d'avanguardia, se ne accorge solo il musicista.
Ma statisticamente non sono convinto che io abbia favorito i musicisti d'avanguardia
(improvvisata o meno) sugli altri. Semplicemente si nota molto facilmente se io
preferisco un disco d'avanguardia al disco più chiacchierato del momento (che so,
un oscuro Li Jianhong invece che l'ultimo dei Radiohead) e meno facilmente se faccio
il contrario (se
metto i Radiohead davanti a Li Jianhong).
Leggo da precedenti interviste che non ti piace l'idea di azzardare previsioni
sul futuro, ma essendoti occupato intensamente del jazz degli ultimi decenni ti
chiedo qualche considerazione complessiva sulla musica che ci ostiniamo ancora
a incasellare sotto tale nome.
Il problema è che prima di tutto bisognerebbe trovare nuovi nomi per questi generi
che sono cambiati così tanto. Visto che ormai l'improvvisazione non è più una prerogativa
del jazz (e comunque la maggioranza del jazz non è poi cosi improvvisato come si
pensa),
il termine significa veramente solo "i musicisti che firmano un contratto con una
casa discografica che era specializzata in jazz". Secondo me molti dei cambiamenti
nella storia della musica popolare sono stati banalmente causati dall'emergere di
un nuovo strumento. Negli ultimi anni era stato il laptop.
Prima mi devi dire quale sarà il prossimo strumento ad emergere, e poi ti dico cosa
succederà alla musica popolare.
L'altro problema è che il veicolo sta cambiando rapidamente. Non è vero che la
qualità dei musicisti sia diminuita (come dicono molti della mia generazione). E'
vero che la qualità
dell'album medio è diminuita, ma questo perché i musicisti pubblicano molti più
album e pubblicano anche il materiale inferiore che in passato veniva cestinato.
E presto non avrà neppure più senso di parlare di album. Sicuramente ha sempre meno
senso parlare di generi musicali, visto la infinita promiscuità della generazione
digitale. Il concetto di "autore" era già stato minato alle basi
dall'improvvisazione collettiva. Quindi nel giro di un secolo abbiamo abbattuto
i concetti di autore, strumento, genere e prodotto. è sempre più difficile associare
parole al sound del futuro.
Una domanda leggera per chiudere e magari accendere qualche polemica: nella tua
lista di dischi preferiti, parlando di jazz tu spieghi la tua avversione per le
cover dei brani celebri. La maggior parte degli standard di jazz non sono molto
più di canzoni pop e anche oggi rimangono tali; si tratta di un qualcosa che personalmente
non trovo molto interessante.
Concordo sul fatto che l'ennesima versione di
My Funny Valentine probabilmente non provoca più brividi,
ma il Kronos Quartet che interpreta Jimi Hendrix, invece sì. Tecnicamente
si tratta sempre di cover, come lo è stata anche My Favorite things, più
che trasformata direi trasfigurata da Coltrane nel corso della sua carriera…
Ognuno ha le sue fisime. Poi, come dici tu, dipende se la cover è semplicemente
copiata o trasfigurata. Fare una cover può essere un segno di mancanza di immaginazione
o di grande immaginazione. Dipende da cosa ne fai. Tutta la musica è in fondo una
cover di musica preesistente.
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Data pubblicazione: 06/02/2011
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