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Intervista a Livio Minafra
di Vincenzo Fugaldi
aprile 2020
(foto in home page by Francesco De Marinis - Ruvolive

Santino Tedone - Pippo BarzizzaSantino Tedone - Johnny DorelliEnzo LorussoMimì LaganaraEnzo Lorusso - Orchestra Perez PradoDomenico Saulle - Filippo Pellicani
click sulle foto per ingrandire

In occasione del docufilm "IazzBann – Storie dimenticate di jazzisti che girarono il mondo", incontriamo Livio Minafra, pianista, compositore, eclettico e poliedrico musicita.

Livio, tu e tuo padre Pino vi state impegnando da anni per sostenere le bande pugliesi, anche mediante l'adozione di una apposita legge regionale. Ma non possiamo dare per scontato che tutti conoscano il valore e la particolare qualità delle vostre bande. Ti chiedo dunque innanzitutto di iniziare col raccontarci perché le bande in Puglia sono diverse.
Domanda non facile. Le bande in Italia sono nate circa duecento anni fa dal curioso incontro delle bande napOleoniche con le bande turche (queste ultime soprattutto in fatto di percussioni). Si sono radicate in tutta Italia ma soprattutto al Sud. Da Salina a Canicattini a Cocùmola a Guardia Sanframondi c'è sempre una banda e a volte più d'una. Il fenomeno tuttavia dopo gli anni '70 ha cominciato a scemare. Resiste ancora ma non sono più i tempi d'oro. Oggi dopo una trentina d'anni di battaglie di mio padre Pino c'è nuovamente interesse per le bande e si inizia a scrivere musica nuova. In Puglia, naturale ponte e porta tra Occidente e Oriente, il fenomeno è ancora più sentito. Non so dirti perché, però forse è dovuto al fatto che da qui un secolo fa tanti partivano per Napoli per studiare e diplomarsi, tornando poi nei rispettivi paesini, nelle Scuole di Musica, quindi non c'è solo tradizione ma si è creato un repertorio e una schiera di musicisti. Quindi come ci sono il mare, i taralli, il vino, l'olio, Castel del Monte… c'è pure la banda!

Focalizziamo adesso l'attenzione su Ruvo di Puglia, la tua città. La Scuola di Musica Comunale era attiva già a fine Ottocento. Era l'unica nel barese o ce ne erano anche altre? E nel resto della Puglia?
Ogni paese aveva una Scuola di Musica. Era un'iniziativa statale. Non si pagava nulla, per giunta, e il Maestro insegnava tutti gli strumenti, scriveva e arrangiava. Fatto incredibile da concepire oggi, il Maestro era in pianta stabile nell'organico degli impiegati comunali. Ecco perché era gratis, come un qualunque altro servizio pubblico. Va da sé che i poveri andavano in banda poiché alla portata di tutti mentre i ricchi studiavano pianoforte o violino, per distinguersi. La cosa si è persa per volgare cecità politica nel corso degli anni, convertendo tale incarico in altri. Ecco la fortissima valenza sociale che avevano le scuole. La Scuola di Musica a Ruvo fu attiva già da fine Ottocento. Vi insegnò Francesco Porto, che ha scritto tra l'altro delle marce funebri, ed è conosciuto anche in Sicilia. Poi ci sono stati altri maestri fino a che, intorno agli anni Venti, non è iniziata l'era dei fratelli Amenduni, Antonio, pianista e poco dopo Alessandro, clarinettista, entrambi compositori.



Poi, nel dopoguerra, a Ruvo di Puglia arriva il jazz, e si forma una classe di strumentisti di livello che si affermeranno in Italia e all'estero.

Una volta liberati dal fascismo, molti musicisti si decisero ad andar via e tentar fortuna altrove, perché il jazz, che un po' avevano ascoltato durante il fascismo ad esempio dalle orchestre di Angelini, Petralia e Barzizza, che suonavano il ritmo sincopato, li aveva già incuriositi. Ovviamente, con l'entusiasmo della Liberazione e l'arrivo degli americani, ancora di più si sdogana questa voglia di jazz. Come dimostra il bel libro di Vincenzo Anselmi, La tradizione bandistica a Ruvo di Puglia (Papageno Edizioni), i sassofoni in banda a Ruvo c'erano già dagli inizi del ‘900. Il maestro Alessandro Amenduni (il clarinettista), più piccolo del fratello Antonio, prima del suo formale incarico presso la Scuola nel 1948, di fatto lo avvicendò sempre più sin dal 1933. Così si spiega la presenza di tanti splendidi fiati. Iniziamo da Santino Di Rella, antifascista come il maestro Alessandro Amenduni, che nel 1943 si sposta da Ruvo a Bari; quando gli americani seppero che c'era lui come clarinettista, lo portavano con la camionetta nei campi base a suonare. Diceva di saper suonare il clarinetto, ma di non saper suonare jazz: tuttavia lì ha imparato, si è innamorato del jazz e ha fatto carriera suonando in seguito con Arigliano, Mina, Milva, Rabagliati e la Vanoni. Doveva essere lui il primo sax alto dell'Orchestra della Rai di Roma quando l'hanno costituita a metà degli anni Cinquanta, ma non voleva legarsi, non voleva fare l'impiegato. Poi accettò Santino Tedone, di cui parla anche Peppe Vessicchio nel suo libro La musica fa crescere i pomodori (Rizzoli). Tedone, sempre di Ruvo, sassofonista, da metà anni Cinquanta (Musichiere, Mario Riva), fino agli anni Ottanta, passando per Canzonissima e Studio Uno, suonava dunque l'alto nell'Orchestra della Rai di Roma, e spessissimo veniva ripreso in tv. Nel libro di Diego Librando, Il jazz a Napoli (Ed. Guida), si scopre inoltre quanto abbia contribuito a dare impulso al jazz partenopeo negli anni '50, ben prima dei nomi oggi noti. Di Rella e Tedone improvvisavano anche, e Santino Tedone vinse persino il Premio Benny Goodman italiano. A Ruvo i fiati e soprattutto i sassofoni erano molto di moda oltreché, come già detto, reperibili in banda: praticamente, quando volevi metter su un gruppo musicale, dato che all'epoca non c'erano chitarre elettriche e c'erano pochi cantanti, ci si basava sui fiati, che prelevavi da dove potevi, in particolare dal territorio di Ruvo, dove ce n'erano parecchi (così raccontano molti intervistati ormai ottuagenari se non novantenni, nel montando docufilm Iazz Bann). Questa cosa ha fatto sì che si sviluppasse un certo linguaggio, una certa pratica. Anche alla Rai succedeva questo, si sceglievano i fiati a Ruvo. È il caso di Filippo Pellicani, che tuttavia pure rinunciò a una carriera fuori dal paese. Il Teatro Smeraldo di Milano per un anno è stato casa discografica, e Pellicani vi registrò un disco con Gianni "Quin" Giolli, disco che ho recuperato con grande fatica, insieme a video rarissimi, registrazioni audio e molte foto. E poi Gorni Kramer, che quando finì la guerra, nel 1945, chiamò Bruno Giannini – noi avevamo avuto già due anni di jazz a Radio Bari – per imparare qualcosa di più sul jazz. Poi Giannini scelse anche lui la famiglia, tornò giù e aprì un negozio di musica. Pensare che il sassofonista del gruppo di Giannini era proprio Pellicani. Poi Enzo Lorusso, clarinettista e sassofonista (alto e baritono) che se ne è andato fuori a far fortuna. Rudy Migliardi, che ha suonato con lui, l'ha paragonato a Phil Woods perché Lorusso, nato nel 1931, morto purtroppo per un incidente nel 1966, era una via di mezzo tra Charlie Parker, Lee Konitz e lo stesso Woods. Di lui ho delle registrazioni, delle cose pazzesche che inserirò nel docufilm, ma soprattutto che comporranno una linea discografica per l'Angapp Music - di nome Lost Tapes - in cui documenterò degli audio magnifici di molti di loro. Ma magari questa sarà occasione per una tua recensione quando uscirà il primo volume! Lorusso ha suonato tra gli altri con Perez Prado, che lo voleva stabilmente nella sua band in America, anche se poi lui scelse la famiglia. Era il ‘57-58, ho reperito delle fotografie, ma purtroppo non ho trovato registrazioni. Ha suonato anche con Fred Bongusto e Peppino Principe, tant'è che quando lasciò la musica per la famiglia, si racconta che Fred Bongusto lo incontrò, e non lo salutò. Allora Lorusso gli chiese: "Maestro, perché non mi saluta?". E Bongusto: "Non ne sei degno, hai fatto un crimine verso la musica." Perché era veramente un talento, Lorusso era il più forte. Poi vi furono altri musicisti come Nunzio Jurilli, che ha girato l'Asia: Giappone, Hong Kong, Singapore, Medio Oriente: Libano, Siria, a fine anni Cinquanta e inizi anni Sessanta. Iurilli era pazzo per Stan Getz, e anche di lui ho delle registrazioni. E poi il grande fisarmonicista Pino Di Modugno, ruvese, che iniziò lo studio della fisarmonica nella bottega di un barbiere negli anni '40. Di Modugno è tra l'altro il papà dei musicisti Nando e Vito Di Modugno. Infine tanti altri: Franco Sette, che Papetti definiva più bravo di lui, Menghino Saulle (tromba), Rocco Marinelli (sax), Franco Chiarulli (tromba e vibrafono), Mike Pellegrini, batterista e forse il primo vibrafonista pugliese. In tutto questo mio padre Pino appartiene alla seconda generazione, quella successiva. Infatti, se i nomi che ho fatto andavano verso lo swing o il bebop, lui si approcciava al free.

Oggi lanci dunque un'iniziativa importante: la realizzazione di un docu-film che racconterà questa storia dimenticata.
Stiamo andando male - coronavirus compreso - perché non facciamo i conti con la memoria e la storia. Questo è per me un dovere poiché non si tratta unicamente di una bella storia da raccontare ma di un'occasione per comprendere da dove veniamo, cosa è accaduto e che forza di volontà avevano costoro, dal nulla, diversamente da noi, popolo dei frigoriferi pieni. Non nascondo nemmeno lo stupore sul fatto che sia io a recuperare la memoria di questi splendidi musicisti e non i diretti familiari, ma questo fa parte dei misteri della vita. compresa la circostanza che a me sia saltato in mente di fare questo lavoro, a mie spese. Ma mi dà gioia incontenibile dare voce ai morti, che lo meritino. Gli ebrei dicono che si muore due volte, la morte definitiva avviene quando ci si dimentica dei morti. Mi emoziona pensare di riportarli in vita, col docufilm, con i brani recuperati su cassette improbabili a casa di anziani di Ruvo. È per questo che non chiedo aiuto ma partecipazione con un contributo libero: https://www.produzionidalbasso.com/project/iazz-bann-storie-dimenticate-di-jazzisti-che-girarono-il-mondo/. Il documentario è diretto da Lorenzo Zitoli e Salvatore Magrone.

Posso dirti che, a parte qualcuno, la maggior parte dei nomi che ti ho fatto esisteranno per la prima volta sul web grazie all'intervista che hai voluto farmi. Grazie.







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Data pubblicazione: 10/05/2020

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