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Lee Konitz - A Solo
Auditorium Parco della Musica – Roma 19 febbraio 2006
di Daniele Mastrangelo
foto di Daniele Molajoli

Fra gli uomini e certamente anche fra artisti grandi e ricompensati dalla fama è cosa difficile trovarne qualcuno che sappia evitare l'errore di quell'imperatore, reso immortale dalla fiaba di Andersen, che, temendo di scoprirsi stupido e incapace, sorte che toccava a chi non sapeva riconoscere la bellezza degli abiti di presunti magistrali tessitori, finì con lo sfilare in corteo, tra il popolo, nudo. Ma ad un tratto un bambino, innocente come dev'esserlo un bambino in una fiaba, esclamò – il re è nudo! – e al re come a tutti gli altri adulatori toccò ammettere la propria miseria.

In questi giorni è stato ospitato a Roma, all'interno di un festival dedicato all'esibizione in solo, uno degli ultimi grandi maestri del jazz moderno, Lee Konitz, che ha oggi 79 anni e almeno 60 di questi dedicati al jazz. Differentemente dal re della fiaba, il nostro sassofonista non era nudo illudendosi di indossare l'abito più bello che avesse ma, consapevole di essere spoglio, di dover affrontare la congiura degli anni, ha fatto di questa condizione invece un vestito. Questo vestito che non c'è è quella forza che fa nascere i suoni e con i suoni delle melodie, che si chiama respiro o fiato e che per un sassofonista è la prima quasi primordiale organizzazione del tempo. Meno fiato, meno tempo entro cui disporre i suoni, questo il processo banale che si deve all'età ma, nient'affatto banale, anzi causa di stupore e bellezza è fare di questa progressiva deficienza qualcosa che ne ricavi la forma dell'arte, un vestito appunto sfiorito dal tempo e per questo più elegante. L'aver scelto di esibirsi in solitudine poi ha dato in più al concerto come un carattere di sfida fra l'arte e la natura. Mancando un supporto ritmico ed uno armonico, queste dimensioni della musica sono rimaste implicite nella linearità sobria della melodia facendo emergere in maniera ancora più netta quell'impressione di 'oggettività' che da sempre ha caratterizzato lo stile di Konitz.

Dalla scuola di Lennie Tristano e dai suoi metodi si può dire che, più di qualsiasi tecnica, il sassofonista ne abbia ricavato per tutto l'arco della sua carriera una disposizione profondissima al canto. La sua improvvisazione non è mai una punteggiatura della progressione armonica di una composizione, mai un riflesso dei colori degli accordi ma procede con una coerenza tale che ciascuna melodia potrebbe esser presa come un tema di una nuova composizione, ha la qualità di essere come un discorso calibrato sulla lunghezza di un tempo prosaico, un tempo di racconto più che la coincisione estemporanea di un verso. Si capirà allora che se per il musicista la capacità compositiva deve intonarsi alle possibilità concesse dalla lunghezza del proprio respiro, per l'ascoltatore si tratta invece di prestare un'attenzione, una concentrazione mnemonica richiesta piuttosto da una musica completamente scritta. L'impressione di 'oggettività' che se ne ricava, come in Bach, ci ricorda un'epoca pre-romantica quando la notazione musicale era quasi del tutto chiusa nelle figure del punto e della linea e mancava il proliferare dei segni d'espressione. Questa 'oggettività' nasce non solo da quella qualità tematica che abbiamo cercato ora di descrivere ma anche dal privilegio accordato alla tecnica della variazione in virtù della quale, posta una melodia di partenza (non necessariamente il tema di uno standard come pure è accaduto), lo sviluppo della musica ne offre una continua trasformazione da pochi abbellimenti fino ad arrivare ad una frase che ha l'incisività di un tema tutto nuovo.

Al di là della tecnica vi è alla base di questo processo, nel modo in cui Konitz lo applica, una capacità di immedesimazione nella tonalità emotiva di un composizione, di scioglierne l'implicito, così che la musica non è più un libero o presunto sfogo della soggettività ma una parte, un ruolo in cui si entra e che soltanto grazie a quel sacrificio acquista vita nuova e così si rinnova.

Quando pronunciamo nel linguaggio di tutti i giorni la parola 'oggettività', facciamo riferimento ad una realtà che esiste indipendentemente da noi, che riceviamo così com'è, dura quasi come la pietra e muta. Di chi parlerà e a chi si rivolgerà allora una musica che pure con questa parola abbiamo finora cercato di definire?

Spesso siamo abituati a chiedere alla musica di farsi specchio alle nostre emozioni ed è un vizio che nel mondo dei consumi, della cosiddetta fruizione, è diventato quasi una seconda natura. Esercitiamo in questo modo su di essa la presunzione di farne un possesso. Della musica che abbiamo ascoltato durante il concerto, della sua 'oggettività' idealmente sospesa e impalpabile nel buio della sala, possiamo invece dire che stava ad esprimere una realtà rispetto alla quale il pubblico e l'esecutore erano momenti, presi separatamente, soltanto dei fantasmi.

Forse ci chiedeva di spogliarci dei nostri abiti, di esser nudi come il re che conobbe la propria verità da un bambino. Così dall'arte, anche solo per brevi momenti, noi abbiamo la rivelazione di esistere.







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Data pubblicazione: 06/04/2006

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