letture di Paolo Rossi dal libro "Dieci dicembre" di George Saunders
Ottobre è tempo di jazz nella Capitale. Puntuale come ogni anno
nella sua location ormai abituale, l'Auditorium Parco della Musica di Roma, si è
aperta lo scorso 20 Ottobre la 37ma edizione del Roma Jazz Festival. Quest'anno
il tema è quanto mai interessante. Il festival dal titolo "Speech" mette in relazione
il Jazz e la letteratura, argomento tra i più studiati e dibattuti tra quelli che
vogliono accostare questo genere di musica ad un'altra delle manifestazioni artistiche
umane. Un connubio esplicitato in maniera netta dagli scrittori e poeti della beat
generation, ma che ha continuato ed è visibile in tantissimi scrittori influenzati,
non solo a livello di contenuti, ma anche nella cifra stilistica, dagli stilemi
del Jazz. Un linguaggio letterario spontaneo, creativo e aperto all'improvvisazione
così come propone questa musica. E così ogni concerto in programma nelle tante serate
del Festival viene aperto da delle letture declamate da artisti, scrittori, attori
più o meno noti.
Per la serata inaugurale di questo
grande evento romano è salito sul palco il comico Paolo Rossi che ha letto
alcuni estratti di " Dieci Dicembre" e "Pastoralia" dello scrittore americano
George Saunders. Due brani originali, fantasiosi e ritmici, che hanno presentato
nel miglior modo il tema del Festival.
A seguire, dunque, un quartetto che personifica magicamente tutte
le caratteristiche del jazz. Quattro americani che incarnano egregiamente la musica
che il loro paese ha esportato in tutto il mondo. Il sassofonista Joshua Redman,
figlio del celeberrimo Deway Redman, ritorna a Roma con il suo storico quartetto
che annovera tra le sue fila Aaron Goldberg al piano, Reuben Rogers
al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria. Quattro fuoriclasse tra
i più richiesti del panorama jazz mondiale, che rappresentano a pieno la tradizione
più squisitamente bebop e hard bop, arricchita dalle sonorità più contemporanee
e da certa musica per definizione "non colta", quale il rock e il pop.
La loro apertura marchia a fuoco, nel codice artistico della
serata, un'importante legge: la legge dello swing. Il brano scritto da Joshua circa
tredici anni fa proprio per lo stesso quartetto è tratto dal suo album "Beyond"
del 2000 e si intitola "Leap of Faith", un titolo che guiderà tutto il concerto.
E' infatti un atto di fede vero e proprio il loro, la fede nel ritmo, nell'improvvisazione,
nella poliritmia, nella creatività e nell'intensità, in due parole la fede nel jazz.
L'introduzione è affidata al leader, che si presenta con il sound fatto di vibrati,
di pieni e vuoti, con le sue frasi difficili e intense, con la sua voce così piena
del passato, ma personale e arricchita da una energia nuova. Il suo sassofono è
come una protesi del suo corpo, si muove insieme a lui e swinga con lui in una danza
coinvolgente e scatenata. Il pubblico romano è talmente coinvolto che già al primo
applauso fa salire l'energia della sala Sinopoli ai massimi livelli. I suoi compagni
artistici non possono che seguirlo, forti delle loro capacità tecniche fuori dal
comune. Aaron Goldberg è in un ottimo stato di forma e dal primo brano in
poi incomincia un'escalation verso un pianismo estremo che ben si pone rispetto
ai grandi del passato sia per capacità di swing che per intensità. La ritmica è
come sempre perfetta e precisa ma con inventiva e sensibilità.
La seconda prova dei quattro è una ballata che proviene direttamente
dall'ultimo album del sassofonista americano. Un album particolare "Walking Shadows"
perché è un album di ballad che vede anche la presenza di un'orchestra di archi
e fiati. "Doll is Mine" viene eseguita splendidamente con eleganza e sensualità.
Successivamente è la volta di un pezzo di Goldberg, che apre le danze componendo
il tema cantabile e ostinato del brano per aggiunta di note. I quattro sono divertiti,
si cercano, si scelgono, si studiano in continuazione, non si adagiano in nessuna
dinamica e sono sempre pronti a stupirsi e a stupirci. Tra nuove composizioni e
standard c'è il tempo anche per una notevole versione dell' "Adagio" di Bach, anch'essa
inserita nell'ultimo album di Redman, che spicca per lirismo e delicatezza.
La chiusura del concerto è affidata invece ad un altro vecchio
brano del leader, "Echoes", che ha messo in evidenza ancora di più le straordinarie
capacità tecniche dei musicisti. Lo swing raggiunge qui il suo punto più alto, tanto
che non si possono trattenere le teste, gli applausi e l'approvazione vocale. Un
solo bis, "Stardust", non basta, alla fine del concerto non si è paghi, non
si ha voglia di allontanarsi da questo spaccato di bellezza.