Silta Records
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Questo disco, per il proprio contenuto, tocca una diatriba molte e molte
volte aperta, in diversi ambiti. Quali rapporti possono esistere fra repertorio
Classico e Jazz? La relazione fra i due patrimoni si incrocia senza dubbio in più
punti, non solamente teorici, fin dai primi decenni di sviluppo del Jazz – basta
ripensare a Bix Beiderbecke
ed alla sua passione per Ravel, Debussy.
Jarrett
e Corea
dal canto loro hanno insegnato molto riguardo alle possibili tangenze fra i due
elementi; si potrebbe poi indagare lungamente i contatti del Free Jazz con il repertorio
contemporaneo. Certo non è questa la sede per sviluppare un discorso esaustivo,
ma la scelta di questo quartetto richiama l'esigenza di raffrontare due veri e propri
continenti artistici.
Attraverso arditi arrangiamenti,
Enzo Orefice
rielabora alcuni dei più famosi brani classici e li lavora proprio come si farebbe
con uno standard jazzistico, proponendo prima il tema e poi costruendoci sopra i
vari assoli. Intervallati fra questi compaiono brevi "interludi", affidati prima
al basso, poi al sax e alla batteria. A chiudere il disco, invece, un "postludio"
di Orefice.
Il quartetto in sé è straordinariamente prolifico: le personalità creative
impongono la loro mano nell'approccio ai brani, cosicché in ogni voce si avverte
una decisa impronta che rende inconfondibile il suono non solo personale, ma quello
generale del disco. Il grande pregio del sodalizio fra questi musicisti si rispecchia
prima di tutto nell'ottima coppia Pepe – Parlati, che costituisce
una sezione ritmica degna di lode e che più volte sorprende durante l'ascolto. Assieme,
basso e batteria creano patterns molto belli, dinamici e variati, sia in stile d'accompagnamento
propriamente jazz, sia in momenti più riservati dove danno il meglio di sé – e dove
in particolare Pepe sfodera un gusto per il groove assolutamente poderoso.
Nonostante le buone premesse però, il disco non è tuttavia esente da "difetti".
Se considerato in senso lato, il lavoro di questo quartetto appare "non esauriente". Principale motivo di questa sensazione è
forse proprio il tentativo evidentemente troppo diretto di convertire il brano classico
in uno jazz; anche se per fare questo esso viene notevolmente riarrangiato. Anzi,
proprio in tale eclettica operazione di ricomposizione, a voler essere onesti, va cercata
la defiance di cui questo disco soffre: in vari momenti si avvertono soluzioni
che non si lasciano apprezzare. Sarà forse dovuto ad una selezione comprensiva di brani
ormai (purtroppo) scontati, primo fra tutti "Per Elisa",
in cui compaiono anche la Sarabanda della "Suite Inglese
in La m" di Bach, o anche la "Danza Ungherese"
di Brahms. E' un peccato dover constatare questa pecca, soprattutto se si
considera ancora una volta la bontà delle voci presenti. Proprio la
"Danza Ungherese", ad esempio, raccoglie idee estremamente interessanti e
curiose, che la rendono una delle più piacevoli tracce del disco; prepotente protagonista
qui è proprio Pepe, che dà il meglio della propria tecnica, ma purtroppo
il senso generale che traspare è ancora di mancanza di qualcosa, di vuoto.
Molto più riuscite invece sono "Andante in Sol
m" e lo "Studio Op. 10 n. 3"; qui
l'arrangiamento è molto fine e riesce a risultare non stucchevole, piacevole all'ascolto
e adatto a sostenere le voci soliste. Davvero belli i soli di Ciaramella
e Orefice
proprio nello "Studio". Ancora una volta, il nostro pianista dimostra grande
capacità di fraseggio sui tempi lenti, dove può appoggiare con calma e fluidità
le note, creando frasi distese ed emotivamente coinvolgenti.
A conti fatti quindi "The Old Standards" non entusiasma in modo
particolare, nonostante non sia affatto carente di momenti ben riusciti.
Achille Zoni per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 26/02/2008
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