Il quintetto di Paolo Lattanzi, particolarmente attivo fra Boston
e New York, dà in "Night Dancers" convincente
prova di sé, proponendo dieci composizioni originali ottimamente calibrate dall'estro
inventivo del batterista ed eseguite secondo un modus innovativo, intelligentemente
vicino alla tradizione jazzistica post hardbop.
Le capacità interpretative d'ogni membro del Group emergono da
un certo appiattimento che le blue notes stanno subendo di questi tempi: ciò che
colpisce maggiormente è l'originalità, sia in campo compositivo che esecutivo, la
capacità di creare atmosfere ampie e nitide dal lato cromatico, la soggettività
mai debordante con la quale viene rinnovata la lezione di Coltrane o di Holland.
L'album, a parere di chi scrive, è contraddistinto da una timbrica strumentale
davvero originale, espressiva e solida particolarmente quando i singoli hanno modo
di mettere in luce le proprie doti improvvisative secondo un respiro strutturale
di tono internazionale, talora vicino al lirismo più vicino a certe ottime produzioni
ECM, tal altra sottolineato da un pathos sfuggente e poetico, introspettivo
e notturno.
Più delle osservazioni del sottoscritto varranno le parole di Paolo nell'intervista
che segue.
F.C.: Com' è nato il progetto "Night dancers"?
P.L.: I brani sono stati scritti tra il
2002 ed il 2005.
E' un album fortemente voluto, avevo composto una buona quantità di pezzi che per
me avevano un vero significato ed ho sentito che era giunto il momento di costruire
qualcosa che li unisse in un unico corpo. In Night Dancers c'è davvero molto di
quello che è stata la mia vita negli ultimi quattro anni.
F.C.: Forse una biografia musicale?
P.L.: Qualcosa del genere. Alle volte capita di
scrivere musica per il semplice gusto di giocare un po', di sperimentare, o persino
di competere con i propri limiti... nell'album questi aspetti, a vari livelli, sono
presenti. Quella che però sento come la caratteristica primaria è il mio legame
con i momenti in cui ho scritto o ideato questi brani. Forse, quindi, più che di
una biografia si tratta di una raccolta di pensieri e sensazioni che ho vissuto.
F.C.: L'album si presenta come opera composita,
ispirata secondo diversi moti interiori, in effetti.
P.L.: Quello che ho cercato di mantenere come filo
conduttore da un brano all'altro è l'intenzione di "trasmettere". Che fosse un'emozione,
un umore o un'idea comunque quello era il mio scopo finale. A variare da pezzo a
pezzo sono invece l'approccio e le tecniche utilizzate.
F.C.: Effettivamente si sente, e questo, a mio
parere, è un pregio dell'album, "sofferto", meditato.
P.L.: Ti ringrazio. Un merito della musica strumentale
è l'assenza di parole che dettino quale interpretazione bisogna darle o in che modo
porsi rispetto ad essa; è una cosa che ognuno si vive da solo elaborandola secondo
la propria personalità. Di conseguenza sono convinto che ascoltando questo cd persone
diverse ne percepiranno il sound in modo anche molto dissimile a seconda di quale
aspetto in particolare toccherà la loro sensibilità...
F.C.: Credo anch'io. E tecnicamente?
P.L.: Credo che il mio modo di scrivere musica
(per lo meno fino a "Night Dancers") sia stato caratterizzato principalmente dall'approccio
ritmico rapportato alla struttura melodica ed armonica del brano. Ci sono elementi
particolari nella musica di
Dave Holland,
per esempio, o di Steve Coleman, Avishai Cohen ma anche in alcuni
casi di Wynton Marsalis (ed altri) che mi hanno influenzato molto.
F.C.: Ottimi esempi senz'altro! Una piccola perplessità:
quando parli di Marsalis, alludi al suo cromatismo o al fluire pensoso di
certi suoi tempi misti? Cosa ne pensi di
Jarrett
e di certe produzioni ECM?
P.L.: Sì, parlando di Marsalis pensavo proprio
a certi usi di tempi misti o di poliritmie. Il mio avvicinamento al jazz è avvenuto
gradualmente ma identifico nel primo album del
Pat Metheny
Group (per l'appunto si parla di ECM!) il vero ponte che mi ha portato ad
indagare questa musica ulteriormente e scoprirne le tante sfumature ed evoluzioni.
F.C.: Prima hai citato
Dave Holland:
secondo me meriterebbe un posto a parte nella storia del jazz… pochi come lui hanno
saputo usare una sintassi tanto moderna e innovativa.
P.L.: Mi colpisce soprattutto il modo in cui utilizza
le forme più varie di disparità (sia ritmicamente che nella struttura del pezzo)
riuscendo comunque a mettere l'ascoltatore a proprio agio per mezzo della melodia
e della sottigliezza delle strutture armoniche, che bilanciano l'effetto globale
e rendono la musica fluida smussando gli angoli.
F.C.: Hai ragione, vorrei ancora ricordare, in
tal senso, l'eleganza di
Jarrett
con Peacock e
De Johnette.
P.L.: Ho visto quel trio due volte dal vivo. In
alcuni momenti mi è sembrato che la musica fosse fisicamente tangibile!
F.C.: E tornando ad un discorso più tecnico?
P.L.: Per quello che riguarda l'aspetto più specificamente armonico ho usato
tre approcci diversi: armonia funzionale (come in 14/2
o Cicerchì's Wanderlust), armonia modale orizzontale
(es. Other Lands) e verticale (Fairy
Tales to a Child) e quelli che inglobano le precedenti ed in parte anche
armonia non funzionale (Four Years Gone o
May). Ognuno di questi favorisce un diverso tipo
di sonorità e di possibilità, alle volte anche molto specifiche. Strutturalmente,
fatta eccezione per "Four Years Gone", tutti i pezzi rispecchiano il modello dello
standard jazz, dove c'è una "form" specifica sulla quale poi verrà sovrapposta l'improvvisazione
(anche se in alcuni casi questa, come per esempio in "May", detta delle variazioni
nella struttura anche significative).
F.C.: Quanto possiamo essere tutti debitori alla
straordinaria inventiva e capacità d'arrangiamento di Mingus? Le vostre improvvisazioni
risultano estrose e suggestive ma che fine fa la melodia? Non vorrei essere banale,
ma c'è qualcosa di nuovo.
P.L.: Credo che tutto dipenda dalla sonorità iniziale del brano e dalla melodia
scritta. Alcuni di questi pezzi prevedono un approccio tradizionale mentre altri
danno adito a variazioni più personali. Il mio intento era quello di lasciare all'improvvisazione
il maggior numero possibile di vie aperte. L'unica cosa che ho chiesto ai miei compagni
di gruppo è stata di suonare quello che sentivano e lasciarsi coinvolgere dal "mood":
sono degli ottimi musicisti e sapevo che ognuno a modo suo avrebbe proseguito il
discorso da me cominciato. Da quel momento in poi ho cercato di adempiere al mio
ruolo di batterista supportando le loro idee e costruendone altre insieme. Secondo
me una delle cose più importanti da ricordare quando si scrive un pezzo è che deve
venire un momento in cui la composizione prende vita propria; per far si che questo
accada bisogna che la musica diventi di tutti. Altrimenti è come intavolare una
discussione con degli amici e dare loro il copione! La ricerca dei musicisti adatti
a questa musica è un altro punto a cui ho prestato molta attenzione. Volevo che,
come nella miglior tradizione jazz, i pezzi fossero influenzati fortemente dalle
diverse caratteristiche individuali. In particolar modo mi interessava che le varie
personalità nel gruppo avessero approcci e sensibilità anche distanti tra loro,
in modo da ottenere atmosfere e direzioni da percorrere ancora più varie. Credo
di esserci riuscito: Aurelien, Pau e Nikolay sono molto diversi tra loro e quando
uno assume il ruolo di guida dona all'album una sfaccettatura diversa, anche se
sempre funzionale al resto dell'organico. Marco svolge il suo lavoro al basso con
una perizia e sensibilità davvero notevoli.
F.C.: E questo è un discorso che varrebbe la
pena approfondire, almeno per i lettori e per chi ascolta le angolature poliformi
soprattutto di Moiseenko (possente!). Parliamone…
P.L.: Molto volentieri, una buona parte l'ho anticipata rispondendo
alla tua domanda precedente ma posso aggiungere altro. Mettere insieme persone/musicisti
con caratteristiche diverse non è difficile, quello che invece richiede una certa
attenzione è far si che possano funzionare insieme. Le personalità in questo gruppo
si sono incontrate bene, forse anche perchè ho reso chiaro fin da subito che la
cosa che stavo cercando era per appunto la varietà. Di certo poi è stata cruciale
la loro natura disponibile e positiva... ed i biscotti che ho portato ogni volta
alle prove! Quando ci sono i requisiti primari di cui ti ho appena parlato il resto
viene da se. Il jazz è stato il nostro punto d'incontro e l'interplay dopotutto
è la sua caratteristica fondamentale. Sapevo che arrangiare un brano assegnando
un solo ad uno di loro piuttosto che ad un altro ne avrebbe cambiato il sound notevolmente.
La traccia che li vede tutti all'opera è Fairy Tales to
a Child. L'idea per quel pezzo era proprio quella di legare un solo all'altro
seguendo una parabola ideale a cui ognuno doveva contribuire passandosi il testimone.
Nell'album ho cercato di aumentare la varietà sonora anche tramite l'utilizzo di
combinazioni di strumenti diversi come per esempio la chitarra acustica ed il solo
del basso con l'archetto in 14/2 contrapposti
alla chitarra fretless in Other Lands o al basso
elettrico di In A Dark Room; anche in questo
devo dire che i miei compagni si gruppo sono stati davvero brillanti.
F.C.: Budynek
talora sembra poco in sintonia con la ritmica, forse dipende dal suo modus, dalla
sua sensibilità, altrove attinge alla lezione dei guitarists più controversi (per
gli "accademici"). Non so, mi viene in mente Frisell…c'entra qualcosa secondo te
col suo modo di essere "acido"?
P.L.: Per quel che riguarda le influenze e dove
Aurelien affondi le radici del suo suono mi cogli impreparato. Capisco cosa intendi
quando usi l'aggettivo "acido". Da quel punto di vista la contrapposizione tra lui
e Nikolay è evidente. Il suono del sassofonista è diretto, proiettato in avanti,
ben scandito, "estroverso". La chitarra spesso gioca con il tempo in un altro modo,
tirando volutamente un po' indietro, alle volte utilizzando di più il suono e l'effetto
piuttosto che la frase. Due modi diversi di esprimersi con lo strumento, due tipi
di sensibilità musicale.
F.C.: Oltre a suonare, di questo cd sei anche
produttore…
P.L.: Come ti dicevo prima, la volontà di incidere quest'album è stata forte
ed ho percorso gran parte del processo creativo e produttivo da solo. Avevo valutato
l'idea di proporre la mia musica a delle etichette prima ancora di entrare in studio
ma ho optato per un conseguimento personale di ciò che volevo costruire. Quando
è giunto il momento di presentare il mio prodotto finito (per lo meno dal punto
di vista dell'audio) ho bussato alla porta di una certa quantità di etichette discografiche
e quando mi sono imbattuto in
Giorgio Dini
di Silta Records
ho trovato una persona disponibile e concreta a cui sta davvero a cuore il lato
artistico di una produzione musicale. Ci siamo capiti subito, lavorare insieme a
lui è stato ed è molto costruttivo.
F.C.: Giorgio è una grande risorsa per la musica
contemporanea, fra l'altro bisognerebbe anche ricordare la sua abilità come strumentista
e come creatore di "brain storming". Poche etichette come la Silta hanno il coraggio
di presentare prodotti non preconfezionati ed emotivamente intensi.
P.L.: Ti dò ragione, il suo lavoro al basso è notevole! Ho due suoi dischi:
"Out!" e l'ultimo "Ergskkem". Penso
che siano da ascoltare con attenzione, musica con spessore. La
Silta ha mostrato
subito un grande interesse per il mio album e così questo cd ideato e concepito
negli USA ma suonato da musicisti europei esce con un'etichetta italiana... non
male come miscuglio èh?
F.C.: Non c'è male…ma la musica, come arte, non
conosce confini. Nel jazz, poi, per fortuna, assurde limitazioni geoculturali le
incontriamo poco. Io non penso che il cd sia di facile ascolto e proponibilità,
anzi. C'è un'intenzione provocatoria nella vostra musica?
P.L.: Non so se Night Dancers involontariamente
rappresenti una provocazione, non è ciò che avevo in mente. Contraddirei quello
che ho detto a proposito di come ho scritto questa musica se ti dicessi che avevo
quest'intenzione! Di certo però non ho tenuto in grande considerazione quello che
"ci si aspetta" da un album Jazz (per lo meno secondo i più ostinati canoni tradizionalisti!).
Ho optato per quello che sentivo coerente alla mia natura e confido più negli amanti
della musica che in quelli delle etichette! In effetti non penso che sia un album
di difficile ascolto...
F.C.: Devo dire che raramente si ricevono indicazioni
estetiche chiare e pacate come le tue. E ne sono felice anche per me, perché vuol
dire che il coinvolgimento che ho provato ascoltando il cd non era frutto di ubriacatura
di modernismo…
P.L.: Accetto questo bel complimento sorridendo. Grazie.
F.C.: Hai parlato di tutto e di tutti, non vogliamo
soffermarci almeno un attimo sul tuo bel drumming?
P.L.: Bèh, grazie davvero! Di tutte le domande che
mi hai posto questa è quella a cui rispondo con più difficoltà. La differenza forse
è che prima si discuteva di come "penso" mentre adesso di come "parlo"! C'è ancora
tanto da imparare e da studiare, è il bello della musica. A proposito del mio stile
quello che posso dire è che cerco di connettermi al meglio con i musicisti con cui
sto suonando, pensando il più possibile come musicista piuttosto che come batterista
per se... Cerco di sentire quello che sta succedendo intorno a me e contribuisco
sottolineando quello che mi colpisce, suggerendo altre possibilità. Ascolto
i grandi maestri storici del jazz ed ho una preferenza per Roy Haynes,
Jack Dejohnette, Tony Williams, Bill Stewart, Billy Kilson,
Brian Blade, Elvin Jones,
Peter Erskine, Jeff "Tain"
Watts. Mi piace ogni altro genere musicale purchè mi trasmetta qualcosa e sono
cresciuto ascoltando i Led Zeppelin e svariate bands degli anni ‘60 e ‘70. Credo
che tutto sia importante e possa contribuire ad una visione d'insieme!
F.C.: Un'ultima curiosità, perché "Night Dancers"?
P.L.: Rispondo alla tua domanda: te lo confido personalmente…
se hai sospettato che il titolo si riferisse a me o ai miei compagni di gruppo sei
stato tratto in inganno! In realtà il nome del brano (che dà il titolo all'album)
deriva da quello che pensavo mentre lo scrivevo. L'inverno a Boston alle volte si
fa davvero sentire e certe notti il più della gente preferisce rimanersene a casa...
a me capita volentieri di gustarmi una bella passeggiata silenziosa e pensosa. Una
di queste notti, non ricordo se era nebbiosa o nevosa, ho cominciato a fantasticare...
passeggiavo ai bordi dei giardini (il "Boston Common") ed ho immaginato due sagome
semicelate in distanza, vagamente illuminate dalla luce bianca ed arancione, appena
visibili attraverso la foschia e le piante spoglie. Due figure sfocate appartenenti
solo a quella dimensione, che danzavano un ballo irregolare, silenziose, bizzarre,
grottesche, aggraziate, soavi e solitarie... Night Dancers.
F.C.: Allora, buona musica e grazie per la tua
cortesia.
P.L.: Grazie a te per l' interesse che hai mostrato
nel mio lavoro!
Fabrizio Ciccarelli per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 10/03/2007
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