Intervista a Gianluca
Renzi
Roma, 25 settembre 2004
di Franco Giustino
Ventinove anni, questa l'età di
Gianluca Renzi. Non bisogna
lasciarsi ingannare dalle sua giovane età, stiamo parlando di uno dei più
apprezzati contrabbassisti italiani. Ha all'attivo due lavori a suo nome che gli
hanno consentito di evidenziare anche l'aspetto compositivo a cui è molto
legato. Vari i progetti che sta portando avanti e che delineano il percorso di
piena maturità a cui è sicuramente destinato.
F.G.: Vogliamo parlare dei tuoi esordi, e perché il contrabbasso.
G.R.: Al contrabbasso ci sono arrivato per vie traverse. E' difficile dire da piccoli: suonerò il contrabbasso! Ho iniziato a suonare piuttosto presto, verso i 4 anni, avendo un Papà fisarmonicista dilettante, mi capitava di suonare qualsiasi strumento trovassi in casa. Intorno ai 13 anni ho iniziato a suonare la chitarra elettrica, oltre che a cantare in un gruppo che faceva musica pop. Il passaggio al basso è stato casuale. Di chitarristi ce ne erano molti, nessuno che volesse suonare il basso.
Mi sono offerto di farlo io. Poi, dietro sollecitazione di cari amici già musicisti, ho iniziato a venire a Roma, sono originario di Frosinone, presso il
Saint Louis a studiare il basso elettrico. Molto ho fatto da solo, suonando sui dischi. La passione, iniziale, per il basso elettrico deriva dal fatto di aver vissuto – sono del
1975 - in pieno gli anni dell' "Electric Band" di
C. Corea, J. Pastorius. Sono stati loro a farmi appassionare al Jazz. Decisi quindi di andare a ritroso, chiedendomi cosa avesse fatto in precedenza C. Corea. Arrivato ad ascoltare "Now He sings now He sobs", ebbi un flash ascoltando
Vitous con quel suo suono pazzesco, il suo fraseggio incredibile. Poi J. Patitucci. Ascoltando loro decisi di dedicarmi al contrabbasso, avevo circa 19 anni. Finita la scuola mi iscrissi all'Università. Mi sono immaginato venti anni dopo dietro una scrivania sommerso di carte, con gli occhiali. Decisi che non era quella la mia vita. Ritenevo di avere delle doti musicali, mi riusciva semplice riconoscere suoni, suonare tutto ciò che ascoltavo, senza aver mai studiato musica, ad orecchio. Volevo fare il musicista. Comprai un contrabbasso. Mi iscrissi al Conservatorio, dopo aver preso lezioni private. Mi sono diplomato a 23 anni. In seguito presi il diploma di arrangiamento per Big Band con
Iacoucci. Poi con lui è nata una sorta di catena. Grazie a lui ho conosciuto
Ascolese, poi Riccardo Fassi, poi Pieranunzi. In seguito i concerti, che sono le audizioni per il Jazz. Qualcuno ti sente, gli piace il tuo modo di suonare, ti chiama. Fino ad arrivare, finalmente, a creare delle formazioni mie. Avendo ora le idee più precise su quello che in realtà voglio fare.
F.G.: Come definiresti il tuo stile, o in quale senti di riconoscerti.
G.R.: Guarda non saprei. Posso dirti che quello che mi è sempre piaciuto fare, sin da piccolo, è giocare con il suono. Ogni cosa che mi stimola la uso. Prescindendo dallo stile, dai percorsi, dal tipo di musica. Ad esempio, mi piace molto la musica pop,
James Taylor su tutti. La musica d'autore fatta bene. Tutto ciò che è bello. Tutto ciò che ha come messaggio qualcosa di autentico funziona. Se hai un qualcosa da trasmettere, non è importante il mezzo, ma ciò che vuoi comunicare. Il problema non è il tipo di musica che suoni ma quello che vuoi esternare. Quando scrivo cerco di non farlo per maniera o per sfoggio di tecnica o capacità. Cerco di scrivere raccontando un momento che avevo voglia di condividere, un pezzetto di me stesso, un periodo. Per questo non scrivo moltissimo, solo quando vivo qualcosa d'intenso, che mi va di documentare. Poi ascolto tutto, molto dei contrabbassisti, pur non soffermandomi molto, preferisco prendere ciò che mi arriva spontaneo. Seguo il mio istinto, come ho sempre fatto. Certo nella preparazione di un musicista si devono seguire anche dei percorsi meno interessanti, più faticosi da assimilare. Ma nel momento in cui decidi di fare la tua musica li lasci stare. Cerco di andare avanti con le cose che sento a me più vicine.
F.G.: Delle tante ed importanti collaborazioni, quale ritieni sia stata la più stimolante.
G.R.: E' difficile risponderti. Sicuramente quelle avute con grandi musicisti, ad esempio quella con
S. Lacy, tramite Riccardo Fassi, o quella con E. Pieranunzi, avevo 22 anni. Spesso mi capita di suonare con musicisti della mia età, ed in quel particolare momento, in uno stato di grazia assoluto, diventano più stimolanti di qualsiasi altra collaborazione con un grande musicista. Spesso viene fuori il meglio proprio perché c'è una sinergia di forze intorno. Certo le collaborazioni di prestigio sono gratificanti, ma soprattutto si impara molto, da gente del calibro di:
S. Grossman,
Antonio Faraò,
B. Watson. Devo confessarti, mi piace molto suonare con i giovani musicisti americani. Comprendere la realtà in cui vivono, così diversa dalla nostra, respirare l'atmosfera che c'è intorno a questi artisti. Anche in Italia ci sono molti giovani, anche più giovani di me, che suonano veramente molto bene, soprattutto batteristi, ce ne era bisogno.
F.G.: Con " Don't stop your mind" sei al tuo secondo album come leader. Una grande responsabilità. Quali sono le tue aspettative.
G.R.: Divertirmi! Cosa posso volere di più. Mi reputo un fortunato. Faccio un lavoro che mi piace, mi diverte, dove esprimi te stesso, in più qualcuno ti ascolta, ti intervista. Fondamentalmente non mi aspetto nulla di particolare. I dischi sono una esigenza personale, poi se vengono apprezzati, come nel primo disco, non può che farmi immensamente piacere.
L'importante, ritengo, sia essere convinti di quello che si sta facendo, è quello che porta i risultati. Essere poi il leader di una formazione non significa dover dire ai musicisti che lavorano con te: "dovete fare questo", sarebbe il modo più sbagliato, la musica non uscirebbe. La difficoltà sta nel cercare di tirare fuori tutto il meglio di loro. Per questo spesso, suonando con il mio gruppo, mi capita di esprimermi solisticamente molto poco. Questo si nota anche nel primo disco. Devo riconoscere che in "Don't stop your mind", sono riuscito a prendermi più spazi, c'è un lavoro di gruppo assai naturale. Ognuno dei componenti ha una individualità molto forte, molto legata alle persone che stanno suonando insieme, questo è fondamentale. Si crea una sinergia che entra immediatamente in contatto con l'energia dell'altro, creando la moltiplicazione dell'impatto sonoro.
F.G.: La scelta di lavorare ancora in sestetto deriva dal fatto che la ritieni più idonea al tuo modo di suonare?
G.R.: La scelta del sestetto è stato uno stimolo. Mi spiego: facendo quel corso di cui ti accennavo in precedenza, di arrangiamento per orchestra, mi sono accorto – fondamentalmente lo immaginavo già – che la scrittura è un giocattolo divertentissimo. Poi suonando il contrabbasso, tante cose che potresti fare con uno strumento come il piano, il sassofono, cioè uno strumento "front", con il mio strumento è impossibile. Mi sono detto mettiamo su una situazione dove posso riuscire ad esprimere, mediante gli altri musicisti, quello che vorrei tirare fuori dal contrabbasso, ma che "fisicamente" non posso. Il sestetto poi è una via di mezzo tra il piccolo gruppo e la Big Band. Ti consente una possibilità di suono impressionante. Puoi passare dal quartetto, al trio, al quintetto, all'impatto orchestrale, oppure usare una scrittura contrappuntistica. Insomma un mondo di possibilità. Questa cosa mi diverte molto. In " Don't stop your Mind" l'aggiunta di suoni elettronici, con l'utilizzo ad esempio del Fender Rhodes, il Wurlitzer, o l'Hammond, hanno aiutato a dare colore ad una formazione, come il sestetto, che tanto colore ha già di suo. Molto stimolante!
F.G.:
Rispetto al precedente disco, " Looking for the right line", hai modificato la formazione sia nei componenti, ad esclusione di
Lussu al piano e Carotenuto al trombone, sia nella scelta degli strumenti, due sax ed un trombone. Perché questa decisione.
G.R.: E' stato un caso. Dopo che Amato non ha più suonato in questa formazione, per un certo periodo è venuto
Fabrizio Bosso. Poi per un altro periodo è arrivato, quello che ora è il tenorista
Jerry Popolo, a suonare il sax alto. Quei concerti, devo riconoscere, sono stati molto divertenti. Tra l'altro
J. Popolo
è un musicista straordinario. L'idea di mettere insieme il colore del sax alto, quindi due sassofoni, ed il trombone mi ha intrigato. Decisi pertanto di cambiare la vecchia formazione, che stava attraversando un periodo di stallo, cosa per altro che accade nelle "migliori famiglie"; ci tengo a precisare non per problemi di qualità, sono tutti musicisti straordinari, con esperienza maggiore della mia,
Pietro Iodice
su tutti. Esclusivamente perché il vecchio gruppo stava soffrendo di una crisi creativa, tutto stava diventando routine. Essendo io un iperattivo, non riesco a sopportare di sentirmi legato. Per cui decisi di cambiare tutto, ad esclusione di
Lussu al piano e Carotenuto al trombone, quelli che sentivo più vicini al progetto. Quindi ho chiamato
Jerry Popolo, che conoscevo da tempo. Poi questo giovane sassofonista, che sta collaborando con grandi musicisti come
R. Gatto, che è
Daniele Tittarelli, mio coetaneo, molto creativo. Il batterista è un ragazzo di Pescara che si chiama
Roberto Desiderio, ritengo sia uno dei giovani batteristi italiani da considerare. E' bastata una sola prova perché il gruppo acquistasse immediatamente il colore che volevo, spontaneamente, senza nessuna fatica.
F.G.: Sei particolarmente legato alla tradizione del Jazz classico. In "Don't stop your mind", hai voluto "provare" anche altre strade, è così?
G.R.: Sono legato al Jazz classico sicuramente, anche se non in maniera morbosa: so di avere ancora molto da imparare. In questi anni ho fatto tutto un altro percorso, legato ad uno studio intenso dello strumento, allo studio dell'armonia, alla scrittura, all'arrangiamento. Tutte cose che più mi interessavano. Ora sto cercando di approfondire il periodo classico, che conosco ma non così a fondo. Riguardo al cercare altre strade, è un lavoro che avevo già iniziato con il primo disco "Looking for the right line".
Anche il titolo del resto è emblematico, la ricerca della direzione giusta. In quel disco ci sono brani di tutti i tipi. Il primo pezzo di Jazz Latino, il secondo moderno, il terzo riprende il modale di
Tyner, " Anna and sevy" che non centra assolutamente nulla e non somiglia a nulla, l'omaggio a
Shorter – che io adoro – tentando di scrivere qualcosa che fosse vicino al suo modo di interpretare, il sesto pezzo orientaleggiante, la ballad, l'omaggio a
Mingus, riprendendo gli stilemi mingusiani basati sul Blues. Infine Jaco con il brano che io ritengo il più bello che abbia mai scritto "Three views of a secret".
Pastorius mi ha sicuramente influenzato, dal punto di vista compositivo. Ho voluto pertanto rendergli questo omaggio usando il contrabbasso. E' stata una cosa che sentivo di dover fare. L'ho registrato – insieme all'introduzione di "Anna and sevy" - alla fine del turno di registrazione, quando tutti erano andati via, a luci spente. E' stato un momento molto intimo. In conclusione il primo disco è stato il documento di un periodo in cui ho assaggiato una serie di cose, appunto Mingus, Shorter, il tradizionale, il moderno. Alcune reminiscenze dell'adolescenza, come il Jazz elettrico. Mentre nel secondo disco, "Don't stop your mind", ho inglobato le esperienze del primo disco, rendendolo più omogeneo. Ho preso la "right line", sono partito da una idea e l'ho sviluppata. I brani Jazz sono assolutamente non tradizionali e suonati con strumenti elettrici. I pezzi moderni sono spesso di metro dispari, 11/4 - 7/4, e suonati con strumenti acustici. Ho volutamente fatto questa "differenziazione", proprio perché ho ritenuto desse un colore più interessante ai brani. Poi è un disco che lascia molto spazio ai solisti. Questo grazie al feeling giusto che si è creato tra noi.
F.G.: Anche in questo secondo album i brani sono di tua composizione, ad esclusione del tuo omaggio ad
H. Hancock. Ti senti più compositore o musicista. Quali sono le differenze tra i due modi di interpretare la musica.
G.R.: Secondo me non c'è molta differenza, chi improvvisa in fondo è un compositore estemporaneo, composizione che volendo puoi mettere su carta. Nel mio caso quando scrivo non è che mi sieda e decida di scrivere. Sono cose che avevo in mente, devo solo prendere la carta e tirarle giù.
Ad esempio il brano che da il titolo al secondo album, è nato così, da una idea, l'ho buttata giù. Lasciandola lì per circa un mese, non avevo più idee. Un bel giorno ho ripreso a pensarci ed in tre ore è nato il pezzo. Mi piace così, è bello perché in fondo spontaneo.
F.G.: Cosa pensi, o speri, di trasmettere a chi ascolta la tua musica.
G.R.: Come ti dicevo in precedenza, mi piace raccontare quello che di intenso mi accade, sperando che il messaggio arrivi a chi ascolta. Ad esempio "Anna and sevy", è un pezzo che ho dedicato ai miei genitori. Avevo voglia di ringraziarli, ed è nato in cinque minuti.
F.G.: Nelle tue sonorità traspare la tua passione per il Bop. Mi indicheresti la formazione dei grandi musicisti del passato con la quale avresti voluto suonare.
G.R.: Guarda senza esitazione, il quintetto di M. Davis, quello con
H. Hancock,
W. Shorter, T. Williams. E' una musica che adoro, è bellissima. C'è dentro tutto il Jazz, dal free, al moderno, ci sono i colori, il groove, insomma tutto. Un periodo intensissimo per questo quintetto, al quale per altro mi sento molto vicino.
F.G.: Qual è l'artista che più stimi, quello che ascoltandolo, ti fa venire la "pelle d'oca". Consigliami un disco, uno di quelli al quale sei particolarmente affezionato.
G.R.: Devo dire che l'ultima volta che mi sono emozionato e commosso è stato al concerto di
Toots Thielemans, l'anno scorso. Mi ha molto toccato anche il suo ricordo di
Pastorius, quando durante il brano " Three views of a secret", si è fermato ed ha detto: "molti considerano Jaco un pazzo visionario, ricordate che per scrivere un pezzo così non si può essere pazzi!". Tra l'altro ho avuto modo di conoscerlo e di scambiarci un'ora di chiacchierata - che custodisco gelosamente su mini disc - a proposito di B. Evans, di Jaco, B. Holiday,
O. Peterson. L'avevo incontrato a Terni, dove entrambi suonavamo, gli chiesi se potevo rivolgergli alcune domande, che mi sarebbero poi servite per la tesi in
Conservatorio che verteva sul parallelismo tra
Mingus e Pastorius. Lui molto gentilmente mi diede appuntamento a Roma presso l'Hotel dove alloggiava. E' stata una emozione grandissima, parlare con lui, facendomi rivivere le atmosfere di un tempo, le sue esperienze. Poi è un musicista che ti cattura, con quel suo modo particolare di entrare nei suoni.
Per quanto riguarda il disco, il mio preferito... non saprei, sono affezionato a molti e dovrei ascoltarne molti altri. Passo a volte più tempo a scavare dentro di me che a cercare fuori. Molte delle mie ore le trascorro nello studio a suonare, a scrivere, a pensare, la giornata mi corre via rapidamente. Vorrei fare tante cose, ma il tempo manca. Spero di riuscire a trovarne per ascoltare la musica, come facevo prima di fare il musicista a tempo pieno...
F.G.: Un tuo pensiero riguardo l'attuale scena Jazz in Italia. Ritieni ci sia la giusta attenzione verso i giovani musicisti.
G.R.: Alla prima parte della domanda ti ho già in parte risposto. Ci sono molti giovani e tutti preparati. Per il resto, non vorrei essere di parte. La difficoltà spesso risiede nella superficialità degli operatori, che piuttosto che creare movimento di cultura, quindi dare spazio ai giovani, pensano a riempire le piazze. Del resto in parte è anche giusto, chi ha la responsabilità di organizzare eventi, sa bene che chiamando i grandi nomi del Jazz riempie la sala. E' possibile che anche io nelle stesse condizioni farei altrettanto. Probabilmente è un problema istituzionale. Bisogna riconoscere che vi sono molte opportunità per suonare: nei Clubs, nei molti Festival, le occasioni esistono. Direi comunque che tutto sommato è una situazione accettabile.
F.G.: Cosa ti sentiresti di consigliare a chi inizia, o vuole iniziare, la carriera di musicista Jazz.
G.R.: Quando inizi devi fare a meno di tante cose. Non fai una vita normale, i rapporti con la gente sono sballati, i rapporti affettivi anche, devi rinunciare a molto. Non è un lavoro che ti porti poi chissà quante soddisfazioni economiche. Per quanto mi riguarda non posso assolutamente lamentarmi, insegno al
S. Louis, suono parecchio, riesco quindi a fare questo lavoro con tranquillità, pur dovendo rinunciare a parecchie cose. Probabilmente anche perché non mi interessano, sono talmente appagato da quello che faccio. Chi inizia deve essere spinto da una grande passione, veramente molto forte, altrimenti rischia di cedere. Come in tutti i lavori artistici, prima di vedere i risultati devi fare una grande fatica. Bisogna vedere poi quanto durano questi risultati, non puoi permetterti di mollare, neppure per un attimo, verresti cancellato. Del resto siamo imprenditori di noi stessi. Il prodotto che vendiamo siamo noi. E questo prodotto deve essere aggiornato, se vuoi riuscire a venderlo. Devi fare in modo di essere competitivo, altrimenti vai a casa. Inoltre la grande fatica sta anche nel dover fare tutte quelle attività di supporto come pubbliche relazioni, curarti il contorno, ecc. Alla fine non fai un solo lavoro, ne fai dieci. Sei tutto tu, l'azienda, il prodotto, il gestore e l'operaio. Alla fine mentalmente diventa faticoso, non riesci a fare solo il musicista. Quando mi viene voglia di scrivere, perdo il contatto con la gente, mi chiudo in casa rischiando così di perdere dei rapporti che potrebbero risultare importanti.
Le cose avvengono se sei in giro, non certo se resti chiuso in casa a scrivere. Bisogna essere molto motivati, ed avere una grande passione.
F.G.: Ed ora dopo "Don't stop your mind", cosa "frulla" nella mente di Gianluca Renzi.
G.R.: Ho già pronto il disco in trio. Questa estate abbiamo suonato in Croazia, sia in sestetto che in trio. Con il trio ci hanno messo a disposizione uno studio di registrazione. E così come piace a me, siamo entrati in sala di incisione, ed abbiamo suonato. Sono venute fuori sette tracce, che devo dire mi sono piaciute molto. Ci sono diversi brani, tra cui uno di P. Metheny, " Donna Lee" di C. Parker, suonata con l'archetto, una cosa un po folle!, un pezzo di D. Ellington, oltre ad alcuni pezzi miei. Spero di riuscire a farlo uscire entro i primi mesi del 2005, visto che con il trio stiamo già girando.
F.G.: Vuoi ringraziare qualcuno in particolare.
G.R.: Le persone da ringraziare sarebbero tante. Da chi ha creduto in me, a chi suona con me. Tutti quelli che assecondano il mio lavoro. Certo prima di tutto i musicisti del sestetto, assai pazienti anche quando cerco di ottenere da loro il massimo possibile. Devo ammettere che, nonostante riconoscano in me un "gran rompiscatole", mi assecondano sempre carinamente. Un ringraziamento doveroso va a loro. Poi
Laura Weber, che oltre ad essere un'amica, si occupa della promozione e produzione del progetto. I miei genitori, grazie per non avermi mai ostacolato. Tante sarebbero le persone. In generale, tutte coloro che mi hanno aiutato in quello che faccio, che mi seguono, che mi danno la possibilità di esprimermi. Ne approfitto per ringraziarli tutti.
F.G.: Grazie Gianluca.
G.R.: Grazie a te Franco.
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Data pubblicazione: 07/11/2004
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