Anche in questo caso la serata mette insieme due situazioni musicali "antipodiche",
una prima leggera ed alla portata di tutte le orecchie, la seconda, invece, più
inoltrata fra le pieghe delle enciclopedie storiche del jazz.
Apertura
percussiva, con sciame iniziale che sbocca in una frase del contrabbasso, e via
alla fisarmonica, portavoce di un tango ritmico e mulinante che rivela lo spirito
de I Tangheri: il batterista Antonio Di Lorenzo presenta simpaticamente
il gruppo dichiarando che nasce dall'aver riciclato il "repertorio da matrimonio"
dandogli un taglio più spettacolare. Ed in effetti trattasi più d'uno spettacolo
che di un concerto, in cui si distinguono certamente i musicisti per il loro brio
e la preparazione tecnica, dal contrabbassista
Davide Penta,
al vorticoso fisarmonicista Vince Abbracciante,
fino
alla presenza ospite della voce di Rocco Capri Chiumarullo e della special
guest star, il chitarrista Marc Ribot. Così il loro scanzonato
pot-pourri di musica e recitazione, commentata dalle figurazioni tanguere
dei ballerini Gaetano Donatone e Angela Volgarino, fanno da prolusione
al set successivo.
Ed in questo contesto, anche l'eclettico Marc Ribot sembra sentirsi
piuttosto estraneo e la sua versatilità chitarristica viene costretta all'interno
di qualche assolo: spicca comunque la sua intesa con il contrabbassista Penta, sulle
note melodiche del brano Che Guevara
o non c'è. Particolare è pure la voce di Rocco Capri, nella successiva
milonga veloce, con apporto coreografico dei ballerini. Lunga introduzione
con distorsioni ed effetti vari sulla chitarra di Ribot, quindi Capri intona l'intramontabile
ed internazionalmente nota Caminito,
composizione di Carlos Gardel alla cui ottima riuscita prendono parte tutti i protagonisti:
i ballerini con striscianti figurazioni tanghere, un appassionante recitato di Capri,
e pure Ribot, supportato da un altro sciame free. Altri brani sono stati
Frichicchio, partorito
dalla penna di
Davide Penta, Qui
sas? Qui sas? Qui sas?, in cui Ribot, se mai ve ne fosse bisogno,
ha dato un saggio di grande musicalità, e, per concludere, un finale a mo' di passerella
con tanto di megafono, in stile capossel-arboriano.
Dopo
la simpatia e la musica d'intrattenimento dei baresi Tangheri, tutt'altro tipo di
genere sale sul palco: affiancati dal roboante Pheeroan akLaff alla batteria,
tre nomi che sono vere leggende del jazz, i sassofonisti Sam Rivers
e Roscoe Mitchell, ed il contrabbassista Reggie Workman, con l'acronimo
WARM. Un concerto all'insegna del free-jazz con denominazione d'origine
controllata, considerato che i tre senatori del jazz internazionale – insieme superano
i 200 anni – il free lo hanno praticamente vissuto sulla propria pelle: fra
i gruppi che più di tutti ne sono stati esponenti emblematici troviamo infatti proprio
l'Art Ensemble of Chicago di Roscoe Mitchell, così come Sam Rivers
è annoverato negli annali quale jazzista che ha giocato un importante ruolo nella
«sintesi fra la libertà e la spontaneità tipiche del free jazz e la preoccupazione
di forme sapientemente elaborate». Quanto a Workman, nel
'60 si ritrovava a fianco di John Coltrane,
lo stesso "Trane" che trascinava la maggior parte dei musicisti free di là
dalla divisione tematica tradizionale, concentrandosi verso un esasperato trattamento
della materia sonora. Chiude il quartetto akLaff, il più giovane del gruppo, la
cui esperienza come percussionista "post-moderno" – come ama definirsi – gli permette
di affiancare con rispetto e merito questi mostri sacri del jazz di tutti i tempi.
Nell'unica
tappa europea del loro tour, questi cavalieri del free pongono in essere
un set in cui le abilità di ciascuno si fondono insieme nell'assoluta liberà
e spontaneità delle forme tipiche di questo genere. Il primo assolo è per Mitchell,
che "spara" una valanga di note ripidissime e scoscese in respirazione circolare.
Più riflessivo il tenore di Rivers, meno contiguo il suo suono, mentre sotto
impazzano piatti e tamburi di akLaff, su cui infine trova il proprio spazio
lirico anche il raffinato contrabbasso di Workman. Il brano successivo vede
Rivers protagonista di improbabili vocalizzi sciamanici, a dialogare con batteria
e contrabbasso "strofinato" dall'archetto. Mitchell, adesso al soprano, sfodera
iperacuti sibilanti, quasi flautistici, ed è un'assenza di regole sfrenata solo
in apparenza, perché il vibrante contrabbasso, i gong di akLaff, il pindarico
contralto di Mitchell – dalle cui spirali sembra non si possa venir fuori
– ed i costrutti più rigidi ma non per questo meno cerebrali di Rivers sono
in grado di arrestarsi di colpo, inaspettatamente, tutti insieme, e rivelare così
l'esistenza di una traccia o comunque di un costruire collettivo che lascia allibiti
per forza e fantasia. Momento particolarmente coinvolgente è quello in cui Rivers
siede al piano con approccio fisico e stile percussivo: la loro musica, con disegni
ciclici, le ripetizioni, i suoni avvolgenti, i ritmi sostenuti e cadenzati, a seguirla
si rischia la trans.
Cantabile adesso il solo di Workman, fascinoso e fasciante, cui
segue ancora un break-in di akLaff che fila spedito sui vibrati dei
piatti. Incantevole l'ultima nota in duo fra un argentino campanellino ed il severo
archetto al contrabbasso. Sulla batteria dal passo funky, Mitchell
fissa in intensità un'unica nota lineare – sempre in respirazione circolare – sulla
quale Rivers svolge la propria improvvisazione, che successivamente diviene "cicaleggiante"
dialogo fra il suo tenore e l'alto del compagno fiatista. E nonostante la veneranda
età dei suoi componenti senior, alla fine il quartetto concede pure il tanto
richiesto bis: ed è un'ultima folata di energia esplosiva che pervade di incredibili
suoni e ritmi l'Anfiteatro Fausto del
Terniinjazz.