Molto atteso il ritorno all'Auditorium di Joshua Redman
a circa un anno e mezzo dalla sua ultima esibizione nel contesto del Roma Jazz Festival
2013. Questa volta manca all'appello il pianista
Aaron Goldberg, essendo prevista una esibizione in trio, assieme a Reuben Rogers
al contrabbasso e Gregory Hutchinson alla batteria. Una formula ben collaudata,
che il sassofonista ha avuto modo di esplorare a fondo in alcuni dei suoi album
più recenti, in particolare in "Back East" e poi in "Compass" del
2009, forse il suo lavoro più ambizioso e sperimentale, nel quale comparivano tra
l'altro i medesimi accompagnatori (con l'aggiunta di Larry Grenadier e
Brian
Blade), e nel recentissimo "Trios Live" inciso dal vivo con la stessa
formazione (più Matt Penman in alternativa a Rogers al basso).
Redman fa parte di un nutrito gruppo
di "ex giovani" assai talentuosi e promettenti, che a metà degli anni Novanta ha
fatto irruzione sulla scena jazzistica internazionale dando nuovo lustro e vigore
all'estetica post-bop e hard bop, che, senza rinnegare la tradizione, ha continuato
a guardare avanti cercando nuove vie all'interno di un linguaggio che giocoforza
continua a nutrirsi dell'enorme eredità lasciata dai giganti del passato. In questo
caso, per ammissione stessa del protagonista, dobbiamo far riferimento ai nomi dei
"padri" John Coltrane
e Sonny Rollins,
e perché no, di Dewey Redman, il padre naturale oltre che artistico del Nostro.
Il "pianoless trio" rimanda immediatamente all'esperienza del
Saxophone Colossus, e non a caso il concerto, introdotto da una lunga cadenza
per solo sax tenore, si apre con il famoso di "Moritat – Mack The Knife",
in una versione assai particolare, nella quale il tema è appena accennato nel corso
dell'esecuzione, quasi un pretesto per una improvvisazione assai originale ed asimmetrica,
in cui il riferimento a Rollins, più che nella sonorità, qui dai toni meno possenti,
la ritroviamo nella singolare capacità di spiazzare e stupire l'ascoltatore, giocando
con le note sul filo dell'ironia.
Il concerto si dipana alternando standard e temi originali, privilegiando
il sax tenore nei primi ed il soprano in questi ultimi. Carisma, perizia tecnica,
brillantezza nelle improvvisazioni erano già ben note agli spettatori. La formula
ristretta del trio sembra aver imposto maggior consapevolezza e senso di responsabilità
al leader, in un contesto più meditato e complesso rispetto alle recenti esibizioni
in quartetto. La sezione ritmica, collaudatissima ed affiatata nel corso degli anni,
si dimostra ancora una volta ben al disopra del livello di eccellenza.
"Ghost", un originale tratto da "Compass", si apre
con una sognante introduzione del contrabbasso suonato con l'archetto, e si dipana
in una sorta di "minor blues" dal sapore orientaleggiante condotto dal sax soprano,
con un finale in cui torna protagonista il basso di Reuben Rogers. "Pent Up House"
dal piglio dichiaratamente boppistico dopo gli assoli di sax e contrabbasso, si
risolve in un fittissimo scambio tra tenore e batteria, con Greg Hutchinson che
conduce le danze lanciando i solisti. Si riprende fiato con una toccante versione
di "Someone Watch Over Me", con una magistrale interpretazione della ballad
lontana da qualsiasi inutile sentimentalismo. "For Us", è un altro originale
giocato su un mid-tempo rallentato, in cui il sax tenore conduce la melodia con
un suono quasi flautato, che si risolve poi in un crescendo ritmico fino ad un trascinante
finale in chiave funky. Immancabile un doppio bis, la singolare cover di "The
Ocean" dei Led Zeppelin, trasformata in un tellurico funky-blues, e "Second
Date", un altro originale giocato su tempo dispari.
Magnifico concerto dunque, con l'impressione che il "giovane
di talento" sia definitivamente trasformato in un artista maturo ed in costante
evoluzione, la cui voglia di ricerca potrà riservarci nel tempo nuove e gradite
sorprese.