Metaforico? Mica tanto.
Marco Di Battista
e Carmine Ianieri sono piuttosto espliciti e non da leggere tra le righe.
Sia per quanto expressis verbis marchiato in copertina (McCarthyism era),
sia per il "Grande" oggetto delle musiche (Wayne
Shorter) e sia per il contesto storico delle stesse composizioni, tutte
riconducibili agli anni Sessanta. Alcuni piccoli sillogismi ci fanno muovere verso
il messaggio – non troppo subliminale – che i due musicisti hanno inteso inviare.
Intellegenti pauca.
Al di là del verificare se le "streghe" del senatore McCarthy siano tornate,
Di Battista
e Ianieri hanno fatto un ottimo lavoro, sia per l'anamnesi del patrimonio
musicale shorteriano che per gli arrangiamenti mai ridondanti, eleganti ed opportunamente
torniti.
L'affiatamento tra i due è palpabile. E non potrebbe essere altrimenti, visto
l'assidua frequentazione musicale già in vita. I due suonano per quattro:
Di Battista
alterna pianoforte e Fender, Ianieri utilizza tenore e soprano. A discapito
dell'apparenza, non è un lavoro prettamente lirico. Armonie complesse si alternano
a quelle tonali calate in contesti modali, con false cadenze, successioni di inganni,
brand dello Shorter da "Blue Note Records": Adam's Apple, ad esempio,
qui rappresentato da 502 Blues ed
El Gaucho o Speak No Evil, dove
Fee Fi Fo Fum e Infant
Eyes sono rilette con felpato lirismo.
Ianieri presta molta attenzione alle note tronche, alla punteggiatura,
ad una sonorità roca accennata, sempre con una pronuncia personale ed un fraseggio
ricco e vario.
Marco Di Battista
mostra padronanza delle tastiere ed un grande senso ritmico, dosato nei medi e negli
slow. Una tecnica espressiva del tutto personale ed un eloquio pieno di sottintesi
e sfumature.
Un album che ha carattere, impasto timbrico e si discosta da qualsiasi
scialbo tributo, dimostrando una profonda conoscenza del linguaggio di Shorter,
pur non emulandone – sic et simpliciter - contenuti e suoni.
Alceste Ayroldi per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 05/10/2009
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