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Don Byron Trio
1 Marzo 2006: Panic Jazzclub - Marostica (vi)
di Giovanni Greto
foto di Marco Bizzotto


Don Byron
- sax tenore, clarinetto
Jason Moran -
piano
Billy Hart - batteria

Abituati da lungo tempo a frequentare le sale da concerto, più o meno confortevoli e con acustiche più o meno accettabili e fuggendo dall'invivibilità dei palasport, siamo tornati per una sera a respirare l'atmosfera di un piccolo locale, che riesce ad ospitare spesso nomi di qualità, situato proprio a fianco della piazza centrale della cittadina veneta - conosciuta per la partita a scacchi viventi che si tiene ogni anno in estate - per assistere al concerto di Don Byron, impegnato in un tour europeo per promuovere il suo ultimo lavoro Ivey Divey, che prende ispirazione dal trio bassless di Lester Young con Nat King Cole al piano e Buddy Rich alla batteria, formatosi nell'immediato dopoguerra.

Byron, che si era liberato da poco dai suoi deadlocks, si è presentato con una capigliatura molto corta, sorprendendo, riteniamo, più di qualche ammiratore. Assieme ai suoi partners - Jason Moran, al piano, come nel disco e Billy Hart alla batteria, anziché Jack De Johnette - il musicista americano è sembrato poco concentrato e quasi infastidito di dover suonare in un club. Non ha presentato nemmeno uno dei brani eseguiti, limitandosi a citare il disco, a recitare la formazione alla fine di ognuno dei due lunghi set e senza concedere bis. Certo non è bello né per l'ascoltatore - nel caso di chi scrive - e probabilmente neanche per l'artista assistere ad un concerto disturbato dal continuo via vai dei camerieri tra i tavoli, dal rumore delle posate sui piatti di ceramica, dal tintinnio dei bicchieri, ma soprattutto non riusciamo a capire come, eccettuato per un manipolo di ascoltatori in prima fila, si possa mangiare con avidità e chiacchierare senza tregua, quasi che l'artista non fosse lì in sala ma avesse la funzione di un banale sottofondo registrato.



Passando al concerto, Byron ha suonato ancora una volta, secondo un'usanza degli ultimi 'live', per troppo tempo il sax tenore, non conseguendo risultati soddisfacenti, rispetto a quando soffia nel clarinetto. Il suo improvvisare lungo e senza pause, un suono sempre uguale e che manca di limpidezza, la non perfetta intonazione, danno l'impressione di un'esercitazione, togliendo l'emozione, il calore, l'energia che trapela, quando le note escono dal clarinetto.

Parecchi gli standard affrontati, da 'Body And Soul' a 'Love for sale', fino ad una interminabile versione di 'Giant Steps' di John Coltrane, che non ha per niente emozionato, a differenza che nell'interpretazione dell'autore. Molto bravo Jason Moran, sia nell'accompagnamento senza sbavature, che nelle lunghe, sognanti e avvincenti improvvisazioni. Ineccepibile, grintoso, delicato e calorosissimo Billy Hart, sempre poco contento di suonare uno strumento che non è in grado di accordare alla perfezione, come quelli di sua proprietà, per il poco tempo a disposizione, lui che è un musicista estremamente esigente e meticoloso. Entusiasmanti i suoi assolo, durante i quali ha spesso citato una frase famosa di Max Roach, l'ultimo decano dei batteristi ancora in vita, ma purtroppo non più in attività. Hart ha scelto ancora una volta un suono secco e tagliente per i toms, con poca cordiera per il rullante. Ha utilizzato piatti chiodati e non, spazzole, bacchette e mallets, ha ovviamente sopperito all'assenza di basso, scandendo di più i quarti con la cassa. Ma è sempre un maestro nelle frequenti frasi esplosive, a sottolineare la fine di un'impro, nei vigorosi breaks, nell'estrema fantasia frasistica nella composizione di un assolo, con un'indipendenza impeccabile e un vigore fisico che neanche per un secondo ci farebbe pensare che chi sta suonando è un signore di 65 anni.

Il concerto si è svolto in due set: 4 brani nel primo, 4 nel secondo per un totale di circa due ore. Il pezzo più lungo è stato il citato 'Giant Steps' nel quale Byron ha iniziato a suonare il clarinetto per poi imbracciare il sax tenore. Interessante uno swing latino ideato da Hart con il timpano usato come un surdo brasiliano.

RIFLESSIONI COL SENNO DI POI. Il concerto è sembrato una jam session più che la presentazione di un nuovo progetto. E questo è avvalorato anche dal brano conclusivo, una specie di blues che non decolla e non tiene inchiodato alla sedia, nonostante la bravura dei musicisti. E spesso, nell'ostinazione del fraseggio col tenore, Byron ha dato proprio l'impressione di voler cercare qualcosa, magari un'ispirazione che non veniva, oltre a cercar di capire come fare ad ottenere un suono gradevole ed interessante da uno strumento che per il momento non è in grado di padroneggiare allo stesso livello del clarinetto. Applausi tiepidi e timida richiesta di bis rimasta inevasa.







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Data pubblicazione: 01/05/2006

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