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Helga Plankensteiner
Plankton
Jazzwerkstatt (2014)
1. Loo (Plankensteiner)
2. The never ending blues (Plankensteiner)
3. Comes love (Brown, Tobias, Stept)
4. Quentin (Plankensteiner)
5. Meister Schriefl (Plankensteiner)
6. They Can't Take That Away From Me (Gershwin)
7. No ballad no crime (Plankensteiner)
8. Tangomatango (Plankensteiner)
9. Tears (Löss)
Helga Plankensteiner - voce, sax baritono Mattias Schreifl - tromba Gerhard Gschlössl - trombone Enrico Terragnoli - banjo, chitarra Michael Lösch - organo hammond, piano Nelide Bandello - batteria
Il jazz europeo sta attraversando un periodo di profonda vitalità, sottolineata
una continua ricerca di nuovi linguaggi e contaminazioni. Ne è un esempio l'ensemble
della Plankensteiner, che per l'occasione sfodera un jazz "secessionista", come
già nello spirito artistico germanico, con atmosfere oscure, come in certe tele
di Franz von Stuck, Fritz von Uhde, amalgamate però a una certa visione decisamente
più colorata, a metà fra lo swing contemporaneo e la psichedelia, grazie a una dinamica
batteria, e a un organo hammond. A incorniciare il tutto, una sezione di fiati decisamente
guascona, che si avventura sia su virtuosismi distorti, sia su temi articolati su
poche note, vicini al soul. Un jazz quindi di aperta rottura, per ricomporsi sottoforma
di un mélange di contaminazioni contemporanee. Berlino, città della casa discografica
Jazzwerkstatt, si dimostra città sensibile all'avanguardia, ospitando le incursioni
di questo originale ensemble veneto-bavarese.
Tanti sono gli omaggi in questo caleidoscopico album, da Gershwin a Soloff nel jazz,
al cinema di Tarantino, a dimostrazione del carattere poliedrico della Plankensteiner.
In apertura Loo, un brano jazz che guarda però al rock, con gli interventi
di chitarra elettrica in sottofondo, ma al contempo sprigiona una scatenata ironia
con la tromba distorta di Schreifl, che usa la sordina, e che si lancia in arditi
passaggi che ricordano
James Brown.
All'inizio del secondo terzo del brano, un "celestiale" a solo di hammond spezza
l'atmosfera, che poi torna sulle corde di partenza, con un dinamico swing di batteria,
mentre l'hammond si esibisce in repentine scale acute vicine alla psichedelia.
Il brano è un omaggio al trombettista Lew Soloff, con cui la Plankensteiner
ha suonato nella big band di
Carla Bley.
Non manca un'incursione nel blues di Chicago, con la struggente The never ending
blues, incentrata su sax e tromba che dialogano su malinconico motivo acuto,
accompagnati da delicate percussioni. A metà del brano, s'inserisce l'hammond, che
supporta un a solo di sax appena più spigliato.
Quentin omaggia le atmosfere di Tarantino, con un'apertura lenta, percussioni
cadenzate, e un sax baritono pensoso, che ricorda un tramonto a Los Angeles, un
istante di quiete dopo una violenta resa dei conti, o magari anche una marcia funebre,
se i conti per qualche ragione non dovessero tornare.
They can't take that away from me è invece un omaggio al grande jazz di Gershwin,
riletta attraverso gli inconsueti toni delle sonorità Dixie.
Tutto l'album è sospeso fra ironia e tensione, fra luce e blanda oscurità, che tocca
l'apice nell'enigmatica Tears. L'architettura sonora dell'album è quanto
mai originale, a tratti sembra stare in piedi per scommessa, ma in realtà attentamente
calibrato. Un'interessante e coinvolgente mediazione fra il rigore delle strutture
musicali tedesche, e lo spirito improvvisatore italiano. Album interessante, che
merita un attento ascolto.
Niccolò Lucarelli per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 04/06/2016
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