Südtirol Jazz Festival Alto Adige Exploring Iberia 28 giugno 7 luglio 2019
di Vincenzo Fugaldi
L'edizione del 2019 dello
storico festival altoatesino, contrassegnata dal tema "Exploring Iberia", ha schierato
ancora una volta un numero impressionante di artisti provenienti dalla penisola
iberica ma anche da altri paesi europei e dagli Stati Uniti, per il consueto appuntamento
di inizio estate che si svolge presso un gran numero di spazi dell'Alto Adige, sia
urbani sia in località amene, fabbriche, centri culturali, cantine, ecc. Una doverosa
premessa, prima di iniziare il resoconto. La scelta del direttore della manifestazione
Klaus Widmann (coadiuvato al meglio dall'associazione JMP, Jazz Music Promotion
Südtirol - Alto Adige, e da validissimi collaboratori, che fanno funzionare alla
perfezione la complessa macchina organizzativa) di puntare l'attenzione ogni anno
su diverse zone dell'Europa, sempre però mirando sulle giovani generazioni di musicisti,
è portatrice di ottimi frutti. Ne è un palese esempio il trio Blackline (Francesco
Diodati, Leila Martial, Stefano Tamborrino), creativo gruppo costituitosi grazie
all'incontro avvenuto tra i due italiani e la artista francese proprio al Südtirol
Jazz Festival due anni addietro. E ne potrei citare altri, come a esempio l'ingresso
del chitarrista Reinier Baas nel gruppo Frontal di Simone Graziano, che sta dando
ottimi esiti. Credo che a un festival non si possa chiedere di più: favorire, agevolare
l'incontro tra musicisti europei è opera meritoria che permette anche al pubblico
(di anno in anno sempre più numeroso e qualificato) di respirare l'aria nuova che
arriva da ogni parte d'Europa.
Il ruolo di artista residente quest'anno è stato ricoperto egregiamente da Marco
Mezquida. Trentaduenne catalano, attivo a Barcellona, Mezquida si è fatto carico,
innanzitutto, di coordinare il concerto iniziale del festival denominato "Iberian
Connection & Guests", dagli esiti molto apprezzabili nonostante il poco tempo concesso
ai musicisti per prepararlo. Sul palco della Waltherhaus ne erano presenti ben quattordici,
per la maggior parte provenienti da Spagna e Portogallo, oltre agli olandesi
Baas e Joris Roelofs, già ospiti in passato a Bolzano, in una sintesi
ben riuscita che ha visto dapprima l'intero ensemble calarsi in una improvvisazione
di matrice free condotta dal clarinetto basso di Roelofs, per poi frazionarsi
in diverse piccole formazioni, nelle quali spiccavano le belle voci delle vocalist
Celeste Alias e Rita Maria, in composizioni dal bel taglio melodico,
con richiami alle musiche etniche spagnole e portoghesi. Ma la vera sorpresa della
serata è stata oltre alla competenza pianistica e di direzione di Mezquida,
la maestria del violoncellista cubano Martin Meléndez, partner del pianista
nel trio Ravel's Dreams, trio che ha eseguito una versione di Le Tombeau
De Couperin ospitando un assolo di grande spessore di Baas e il secondo movimento
del Quartetto d'archi in Fa maggiore, nel quale Meléndez ha brillato particolarmente
mostrando una gamma espressiva inesauribile. Ottima anche la multiforme e coordinata
carica ritmica proveniente dai tre batteristi dell'ensemble, Alex Lázaro,
Pedro Vasconcelos e Aleix Tobias.
Ravel's Dream, il trio di Mezquida con Meléndez
e Tobias, è protagonista di un disco pubblicato alla fine del
2017. Il concerto antimeridiano al Museion ha
mostrato le grandi doti di esecutore e di arrangiatore del pianista, che ha fatto
un lavoro egregio sui materiali raveliani, ma ha anche dato modo al violoncellista
di dare prova della sua tecnica sontuosa all'archetto e al pizzicato, e al percussionista
di mostrare tutta la sua fantasia e ricchezza ritmica, con un drum set personalizzato
e inusuale. Un trio che ha lasciato il segno per gusto, affiatamento, capacità di
comunicare. Il terzo concerto di Mezquida che ho potuto seguire (il festival presenta
molti concerti che si svolgono contemporaneamente in luoghi diversi e lontani) è
stato il piano solo alla Weingut Pacher Hof di Novacella, che ne ha confermato le
doti che lo caratterizzano come uno dei più validi giovani musicisti attivi sulla
scena europea, tecnicamente ferrato, buon compositore, aperto, comunicativo. I suoi
concerti in piano solo sono giustamente lodati, perché mostrano tutti i suoi eclettici
gusti musicali che inglobano la tradizione del jazz, alcuni standard, Jarrett, certo
minimalismo, il piano preparato e molto altro, in una sintesi davvero pregevole.
Dalla Catalogna al Portogallo: la centrale idroelettrica Alperia di Bressanone ha
ospitato il gruppo Axes del sassofonista João Mortágua: quattro sassofoni
guidati dal leader (alto e soprano), un altro sax alto, un tenore e un baritono,
e sullo sfondo due batteristi di non comune creatività, che agivano in perfetto
coordinamento e garantivano un corposo motore ritmico che sosteneva i voli dei fiati.
Musica fresca e personale, coinvolgente e dinamica, tutta da scoprire e apprezzare,
ottimamente arrangiata, buon equilibrio tra scrittura e improvvisazione, per un
progetto decisamente vincente.
Una delle caratteristiche del festival è quella di tenere concerti in vari luoghi
dello splendido territorio, e di inserire ogni anno nuovi spazi per la musica. Quest'anno
è stato coinvolto il comune di Campo Tures, con tre rifugi a Speikboden. Complice
il sole splendente, l'incomparabile bellezza dei luoghi ha decisamente favorito
il lavoro dei musicisti, un quartetto spagnolo che prima di esibirsi in formazione
completa si è frazionato in due duetti. Accompagnata dal chitarrista Sebastià
Gris, la giovane cantante Magalí Sare ha brillato per il suo schietto
e delicato approccio a una materia musicale fatta di canzoni originali con legami
etnici, di standard interpretati con piena padronanza tecnica, con escursioni felici
anche nel repertorio brasiliano. L'altra metà del quartetto (Manel Fortià,
contrabbasso; Gabriel Amargant, sax tenore), ha eseguito composizioni originali
di grande compostezza. Fortià si ispira dichiaratamente a
Charlie
Haden, mentre Amargant mostra una sonorità corposa e un fraseggio apprezzabile,
ed entrambi mostravano grande rigore formale. Il concerto finale ha poi visto il
quartetto esibirsi presso la stazione a monte della funivia, in un repertorio che
anche qui transitava da brani originali a cover beatlesiane, a standard di classica
bellezza, come la conclusiva The Nearness of You.
Il festival ha concesso anche spazio a gruppi italiani, a partire dal trio denominato
Nostalgia Progressiva (Boris Savoldelli-voce ed elettronica; Maurizio
Brunod-chitarra; Giorgio Li Calzi-tromba ed elettronica), con il suo
omaggio alla grande stagione del rock progressivo, con i King Crimson sempre in
primo piano. Matteo Bortone, con i suoi Travelers + 1 (oltre al leader
al contrabbasso, i francesi Julien Pontvianne al tenore e al clarinetto,
Ariel Tessier alla batteria, Yannick Lestra alle tastiere e il nostro
Francesco Diodati alla chitarra), ha iniziato il concerto con un brano dalle
atmosfere meditative, dal bel tema esposto dal sassofono e da uno xilofono, che
sfociava in articolati ricami sostenuti da arpeggi di chitarra, per poi stemperarsi
in sofisticati intrecci, all'insegna di un jazz attualissimo, dinamico, attento
alle sfumature. Composizioni originali diverse ma sempre accomunate da una cifra
compositiva particolare, introspettiva, una sorta di cifra stilistica del gruppo.
Si è già fatto cenno nella premessa al trio Blackline: a ora tarda, nel suggestivo
jazzclub sotterraneo del Batzen, si è potuta apprezzare pienamente la qualità di
questa formazione che esegue musiche e testi appositamente composti da Diodati per
Leila Martial. Il chitarrista in questa compagine si è mostrato più incisivo
che mai, stimolato dalle vertiginose acrobazie vocali della artista francese, che
ha sciorinato la vastissima gamma dei suoni che la sua eclettica voce riesce a produrre,
una capacità improvvisativa senza pari, una presenza scenica dirompente, che trascina
e coinvolge i partner in un lavoro creativo di grande impatto. Vamp sghembi, ritmi
duri e irregolari, ma anche momenti di quasi acustica delicatezza, grande lavoro
di squadra, per una formazione entusiasmante, destinata a lasciare il segno.
Pipe Dream era l'altra formazione per quattro quinti italiana, composta da
Filippo Vignato, Pasquale Mirra, Giorgio Pacorig, Zeno De
Rossi e Hank Roberts, già protagonista del bel cd omonimo pubblicato
nel 2018, che ha suonato al Centro Culturale
Trevi un set che è stato anche oggetto di un breve esperimento di archeologia delle
audioregistrazioni, dato che un brano è stato registrato mediante una apparecchiatura
originale Edison a cilindro di cera. La musica dei Pipe Dream, gruppo democraticamente
gestito che non ha un leader, costituita da brani composti da tutti i componenti,
è di gran presa e sicuro fascino, grazie all'evidente impegno che ciascuno investe
nel progetto, uno dei più interessanti degli anni recenti del jazz italiano. Intergenerazionale,
aperto, stimolante per i componenti e per gli ascoltatori, Pipe Dream è un gruppo
davvero meritevole, che in certo qual modo pone al centro dell'attenzione il violoncello
e la voce di Hank Roberts, poetici e suadenti (cito un brano per tutti, Pictures,
da lui composto anche nei testi), ma valorizza le grandi potenzialità di tutti,
con un repertorio di brani originali diversi di qualità eccelsa.
Hank Roberts, tra l'altro, aveva già incantato il pubblico con un concerto per solo
violoncello al Museo di Scienze Naturali, a stretto contatto con l'uditorio, sviscerando
le vastissime risorse tecnico-creative del suo mondo musicale, dal violoncello preparato
all'uso della voce, di ogni sorta di armonici, a un uso dello strumento rumoristico
e percussivo, e il suo peculiare modo intimo e colloquiale di avvicinarsi e aprirsi
al pubblico, anche raccontandosi amabilmente.
Resta da raccontare ancora tanto del SJF19: sintetizzando al massimo, corre l'obbligo
di ricordare, innanzitutto (al lago di Caldaro), i Barionda, quattro sax
baritono e una batteria (l'ideatrice del gruppo Helga Plankensteiner,
Florian Bramböck, Giorgio Beberi,
Javier Girotto
e Mauro Beggio),
gruppo fresco e pieno di energia, ben sostenuto dal batterista, che ha presentato
un repertorio di brani noti (Moanin' di Mingus) e composizioni originali
arrangiati con gusto e che davano spazio ad assolo travolgenti, di ciascuno ma specie
di Girotto, che si è ritagliato anche una cadenza in solo. Il duo Watchdog
(Anne Quillier, piano e tastiere e Pierre Horckmans, clarinetto
basso) che nell'atmosfera notturna del Batzen ha trovato il luogo ideale per i dialoghi
tra il clarinetto utilizzato con la tecnica dello slap tongue, e le sapide
armonizzazioni e i vocalizzi della Quillier, una musica suggestiva dai toni crepuscolari,
un jazz aperto e contemporaneo, a tratti swingante specie nei momenti pianistici,
con echi minimalisti, alla ricerca di una essenzialità preziosa, tutta da apprezzare.
Impossibile non citare l'incontro tra il collettivo Euregio Jazzwerksatt
e il gruppo viennese Liyttle Rosies Kindergarten, in un fienile in una amena
località con vista panoramica sul Rosengarten. Un'ampia orchestra che dava spazio
alle voci, cantate e recitative, a una scrittura variegata e anche a una conduction.
E ancora i Jazz Labs, tre quartetti di pura e radicale impro composti dalla
direzione artistica lasciando ai musicisti – che non avevano mai suonato insieme
– solo la possibilità di acconsentire sull'organico, dove si sono ascoltati tra
gli altri Vignato, Nilssen-Love, Bortone, Martial, Horckmans e Pontvianne (quello
con Martial ha primeggiato per il brillante senso ironico, mentre il pianista del
terzo quartetto João Paulo Esteves Da Silva si è distinto per il senso narrativo).
Altri momenti da citare, nello spazio razionalista e a un tempo
avveniristico del NOI Techpark, il suggestivo concerto del trio di Susana Santos
Silva-tromba, Tonrbjörn Zetterberg-contrabbasso e Hampus Lindvall-organo.
Una fissità armonica deliberatamente scelta, sostenuta dall'organo e dal contrabbasso
inizialmente con l'archetto, suoni ampi, dilatati, con minime variazioni, che lasciava
l'onere solistico soprattutto alla trombettista, perfettamente a suo agio nel sostenere
l'arduo compito con note lunghe e sostenute. E In Igma, l'austero progetto
del batterista portoghese Pedro Melo Alves con le tre vocalist Beatriz
Nunes (attuale voce dei Madredeus), Mariana Dionisio
e Aubrey Johnson, Eve Risser al pianoforte e Mark Dresser al
contrabbasso. Musica contemporanea (e free impro) tesa, concentrata – anche
nella durata – con le voci in primo piano, e ampio spazio per le incomparabili corde
di Dresser, sottolineata dal free drumming del leader, articolata in diverse
sezioni senza pause. E infine il bel duo inedito tra la cantante di origini iraniane
Golnar Shahyar e il pianista austriaco Benny Omerzell, muscolare tastierista
dei Kompost 3, che nel giardino del Parkhotel Holzner si è rivelato finissimo distillatore
di suoni incrociandosi alla perfezione con la voce della Shahyar, in un riuscito
incontro tra culture musicale diverse ma perfettamente conciliabili, tra improvvisazione,
una canzone in parsi, e una intensa Te recuerdo Amanda.