Kush Trio e Dave Holland Quintet
Ravenna, 18 ottobre 2005
di Andrea Caliò
Ben
Allison - Contrabbasso
Michael Blake - Sax alto e soprano
Michael Sarin - Batteria
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Dave
Holland - Contrabbasso
Chris Potter - Sax
Robin Eubanks - Trombone
Steve Nelson - Vibrafono
Nate Smith - Batteria
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Grandi nomi e gruppi emergenti, da
Richard Galliano
a Geri Allen, dalla Mingus Dinasty all'incontro fra il trio di
Antonio Ciacca
e Benny Golson, si sono avvicendati nel corso di questa 32esima edizione
del Ravenna Jazz, svoltasi dal 17 al 19 ottobre 2005
nel bel Teatro Alighieri.
E' forse il secondo giorno di programmazione quello che ha proposto la
scaletta più interessante e stimolante: una serata dedicata ai contrabbassisti,
con il Kush trio di Ben Allison ad aprire il concerto, seguito dall'attesissimo
quintetto di
Dave Holland.
Una decina di minuti di ritardo rispetto all'orario programmato (le 21:00),
di fronte ad una platea numerosa (ma il teatro non è comunque esaurito) inizia il
concerto. Il primo set vede dunque protagonisti i giovani Ben Allison (contrabbasso),
Michael Blake (sax tenore e soprano) e Michael Sarin (Batteria), attivissimi
nella Grande Mela. La scena newyorkese ci offre in effetti un trio spumeggiante
e affiatato, specchio di una delle tante anime dell'avanguardia jazzistica moderna.
Un trascinante riff di contrabbasso introduce "Spy",
uno dei brani composti da Allison per uno dei suoi passati lavori discografici.
E' l'inizio di un concerto caratterizzato da melodie che pescano da generi attigui
al jazz (uno su tutti: il funky), senza risultarne snaturate, anzi apparendo moderne
e ricche di contenuti. Si possono citare "Weazy",
dove sax e sezione ritmica, quasi scambiandosi i ruoli, intersecano le loro linee
musicali, o "Tricky dick"
che inizia con note stentate e dubbiose prima di sviluppare il proprio tema. Alla
cavata precisa e spigliata di un Allison tanto giovane quanto maturo nelle
sue concezioni musicali e nella sua perizia strumentale, risponde un Blake
che rende il suo sax all'occorrenza bluesy o rock, lirico o arrabbiato, grazie
alla scioltezza timbrica di cui è dotato; il clou è vederlo affrontare il suo assolo
suonando tenore e soprano contemporaneamente, tecnica ereditata dal celebre Rahsaan
Roland Kirk di cui appare un diretto discendente in quanto ad approccio allo
strumento. Ma la sorpresa maggiore è il meno noto batterista Michael Sarin:
un musicista completo, non invadente, ma attento a seguire o a indirizzare le dinamiche
musicali del gruppo, ed espressivo nell'atto di variare i volumi sonori di piatti
e pelli, usa il suo strumento (ridotto all'essenziale) percotendolo ovunque sia
possibile, portando avanti una ricerca timbrica estremamente interessante.
Dopo il bis del Kush Trio e una breve pausa, il pubblico può dare
il benvenuto alla band più attesa della serata, il
Dave Holland
Quintet.
La band, condotta sapientemente dal contrabbassista britannico che le
dà il nome, comprende nel suo organico Chris Potter ai sax, Robin Eubanks
al trombone, Steve Nelson al vibrafono e la "new entry" Nate Smith,
che sostituisce ormai da vari mesi lo "storico" Billy Kilson alla batteria.
L'esibizione diventa ancor più interessante del previsto, dal momento
che Dave Holland,
dopo i saluti di rito, annuncia che il set sarà interamente dedicato all'esecuzione
di brani inediti, preannunciando la prossima registrazione (dicembre
2005) di un nuovo album del quintetto.
Si inizia subito con "Pathways":
il tipico brano di apertura hollandiano, teso, dall'armonia non semplice, durante
il quale i musicisti cercano di entrare nella loro dimensione musicale, di trovare
il giusto interplay fra di essi e di testarsi nei primi assoli.
Come apparirà ancor più evidente nel corso del concerto, l'esibizione
del quintetto davanti al suo pubblico prevede brani che diventano mini-suite anche
di 20 minuti ciascuna, con momenti solistici dilatati e attimi di improvvisazione
collettiva stupefacenti: i cinque artisti si lasciano trasportare dal fluire della
musica, ma, forti delle loro notevoli qualità, non sono mai in balia di essa, anzi
la controllano, l'addomesticano proprio quando sembra che l'impeto improvvisativo
stia prendendo il sopravvento e l'armonia e la cadenza del brano stiano per scomparire
dal tessuto sonoro.
"Easy did it" è un
brano sereno dalle tinte blues in cui ai fiati risponde un solo di Nelson
spigoloso, ma che si accende nelle note finali di una luce inaspettata, confermando
una volta di più le straordinarie potenzialità di uno strumento come il vibrafono,
percosso dalle mani sapienti di un grande musicista, all'interno di questa formazione.
Chris Potter firma il terzo pezzo del set, "Vicissitude",
in pratica una palestra musicale per il sassofonista, che sciorina un assolo chilometrico
senza perdere una nota: grande, forse addirittura eccessiva, dimostrazione di tecnica
strumentale. Alla sua voce succede una pulsante improvvisazione di batteria, dove
si apprezzano l'energia e il senso del tempo di Nate Smith.
Il batterista è grande protagonista anche in "Lucky
Seven": si tratta di un brano scoppiettante nonostante la metrica dispari,
dove Smith prende un assolo di tale intensità da far sobbalzare sulla propria
poltrona. Ma ancor più impressionante è l'improvvisazione collettiva che la band
esegue durante l'esecuzione del pezzo: è difficile immaginare che esistano musicisti
capaci di affrontare con tanta lucidità ed al contempo tanta creatività delle melodie
così complesse senza che sussista più una base ritmica che faccia da guida.
Due sono i brani lenti della serata: il primo lo firma il leader del gruppo,
ed è intitolato "Secret Garden".
Le misteriose atmosfere dipinte richiamano sia la storica "Conference of the
birds", sia melodie più recenti, come "Shifting sands", regalando alla
platea presente momenti di rara suggestione. L'altro brano, eseguito come bis, è
"Amator silentii", composto
da Steve Nelson. Il vibrafonista predilige linee melodiche semplici, ma non
per questo fondate su armonie poco elaborate, e lunghi silenzi (del resto il titolo
del brano è eloquente). Il vibrafono è lo strumento cardine del brano, che riporta
alla memoria le sonorità di "Go fly a kite", dello stesso Nelson.
Il pezzo è dolce e meditativo, una piccola gemma a conclusione di una serata di
grande musica.