Cinema e Jazz Straight no chaser ((Id., Charlotte Zwerin, 1988) di Cinzia Villari
Thelonious Monk, genio solitario e a lungo incompreso della modernità,
getta i suoi accordi sul pianoforte come si getterebbe un fiammifero sull'esplosivo.
Ogni nuova combinazione sembra immergerlo in una profonda riflessione da cui emergerà
l'accordo successivo. Muore nel 1982, dopo un
ultimo silenzio durato dieci anni. Oggi le sue composizioni sono tra le più eseguite
e l'eccentricità del suo stile è un riferimento per ogni nuova generazione che sia
in rivolta contro le convenzioni del momento.[1]
Muore dopo un ultimo silenzio durato dieci anni.
Un silenzio totale, non riferito solo al suo pianoforte come verrebbe da pensare.
Monk negli ultimi dieci anni della sua vita non ha più parlato. Allora eccentrico
sì, ma di un'eccentricità che si è trasformata in malattia. E la notiamo subito
la sua diversità in questo jazz-film, la notiamo fin dalle prime immagini quando
lo vediamo in concerto alzarsi dal pianoforte e cominciare a ruotare su sé stesso
come un gigantesco orso bruno ammaestrato di un qualche circo sparso nel mondo.
Evidence è il brano che sta suonando il suo
gruppo, quasi a volerci sottolineare l'evidenza della cosa, la sua diversità. Poi
dopo la sua serie di giravolte, sparisce sul lato destro dello schermo per poi rientrare
dopo qualche secondo, sedersi al pianoforte e tirar fuori un'energia e una carica
incredibili. Dettagli dei piedi e poi delle mani che pestano vigorosamente sui tasti
e poi ancora dei piedi che pestano a loro volta sul pavimento. Poi un piano americano
di profilo. Lo vedremo spesso inquadrato di profilo sia nel primo piano che nella
figura intera o nei dettagli, modo abbastanza tipico in cinema di riprendere il
pianista. Sarà un jazz film di profilo, viene da pensare, in quanto nei molti brani
che ci verranno presentati -una trentina circa e quasi tutti in versione integrale-
lo vedremo spesso in questa posizione.
Ma
la prima cosa che va sottolineata di questo jazz-film è che stiamo assistendo ad
un film nel film o forse meglio ad un documentario nel documentario. Infatti ne
è stata fatta una costruzione particolare, in quanto la maggior parte delle immagini
che lo compongono, risalgono ad un filmato ineditodel
1968 che i fratelli Michael e Christian
Blackwood girano accanto a Thelonious Monk e al suo gruppo, durante la
loro prima tournée internazionale. Quando questo materiale filmato, che si
pensava disperso è stato ritrovato e per di più in ottime condizioni, il produttore
Bruce Ricker non credeva ai propri occhi ed erano anche in ottime condizioni
le uniche riprese di Monk in privato. Nel ridare vita a questi fotogrammi
oltre a Ricker ci lavoreranno Charlotte Zwerin, come regista e produttore
e Clint Eastwood come produttore esecutivo, sulla scia del successo del suo
capolavoro jazzistico Bird.Ma l'operazione che è stata fatta non
si traduce in un semplice riaggiustamento del materiale precedente. C'è stato un
deliberato rimetterci le mani dentro, fino a trasformarlo in un documento socio-musicale.
Sono stati aggiunti inserti storici, in particolare televisivi, interviste e nuove
riprese. Quest'ultime che sono a colori, attualizzano ancora di più il film facendoci
intravedere meglio l'anima del personaggio.
E' da poco iniziato il film: siamo insieme a Monk nell'ufficio dell'impresario
Bob Jones. Questo, su una specie di enciclopedia sta leggendo notizie sulla
vita del pianista e abbozzando un sorriso, afferma «A quanto pare sei famoso!
Qui ci sono solo i nomi dei papi e dei presidenti!» e Monk strascicando
le parole come era solito fare, ingenuamente risponde «Che forza, sono famoso!».
Subito dopo parte la cronistoria della sua vita: ritratti fotografati della sua
infanzia e della sua famiglia, poi lui adolescente con in testa uno dei suoi bizzarri
cappelli che gli vedremo indossare per il resto della sua vita. Lui con i grandi
maestri jazz di quel tempo, Fats Waller (New York, 21
maggio 1904 - 15 dicembre 1943), Art Tatum (13
ott 1909 - 4 nov 1956), Duke Ellington (29 aprile
1899 - 24 maggio 1974) e poi ancora lui quando diventerà il pianista del
Minton's, spazio questo che sarà
scenario di una rivoluzione nella musica [e in questo luogo] con
Charlie Parker e Dizzy Gillespie[esploderà] la rivoluzione che
fu chiamata Bebop. Il bebop suscitò molta attenzione ma il contributo di Monk generalmente
non fu riconosciuto, fu apprezzato da pochi…A quei tempi Monk aveva già composto
i suoi pezzi migliori ma ne scrisse ancora molti e il linguaggio del jazz fu cambiato
per sempre.[2]
Ed ecco la regista Charlotte Zwerin che sceglie tra le immagini
del vecchio documentario quelle che riprendono Monk mentre sta suonando uno
dei suoi pezzi migliori, appunto, lo struggente ‘Round
Midnightscritto quando non aveva che diciannove anni. E' impressionante
notare come il brano -altrimenti riconoscibilissimo- nella versione che ci viene
qui proposta da lui stesso, sia completamente stravolto quasi da non essere riconoscibile,
dandoci quindi un assaggio dei movimenti interiori ed artistici di quest'uomo. Un
gioco di mani e di note in totale libertà d'azione. Monk riesce a fare anche
altro in questo momento, la m.d.p. lo riprende quando, mentre sta suonando, estrae
dalla tasca un fazzoletto. Con una mano suona, con l'altra si asciuga il sudore.
Ad un certo punto avendo bisogno, per una serie di accordi, della mano occupata
dal fazzoletto, non si cura di poggiarlo da qualche parte, ma comincia a suonare
con l'ingombro sotto le dita, non preoccupandosi minimamente della stranezza della
cosa, ma proseguendo come se fosse la cosa più naturale della terra! Eccentrico,
stravagante anche nelle più piccole cose, ma geniale e soprattutto attuale. I suoi
brani così poco compresi in origine sono ormai diventati dei classici. All'improvviso,
infatti, il film si stacca dal precedente bianco e nero dei fratelli Blackwood
per tornare a quel colore che attualizza, non solo il prodotto, ma anche il suo
contenuto. La m.d. sta riprendendo due pianisti neri americani nostri contemporanei:
Barry Harris e Tommy Flanagan, che, seduti specularmente uno di fronte
all'altro, ognuno con il proprio pianoforte, si stanno esibendo a quattro mani nell'esecuzione
dell'ormai noto brano di MonkWell, you needn't.
La m.d.p. si muove riprendendo in dettaglio le mani dei due uomini per poi passare
alla figura intera e ritornare ancora su quelle mani sciolte che si muovono con
destrezza. L'immagine convalida l'attualità della musica di Monk e il cinema
diventa il suo tramite per confermarcelo. Un'arte come la musica si sta avvalendo
di un'altra arte per farsi conoscere e viceversa, un'arte come il cinema si sta
avvalendo di un'altra arte per raccontarsi e ampliarsi. Del resto, è proprio con
l'avvento del sonoro che le due arti si combinano in un matrimonio che dura ormai
da quasi un secolo. Sembra che a volte attraverso il racconto della vita di un grande
musicista o usando più in generale una tematica musicale, le due arti vogliano vicendevolmente
omaggiarsi per tutta la strada che hanno percorso insieme, una volta una è spalla
e servitore dell'altra, un'altra volta è l'altra la spalla sulla quale potersi appoggiare,
per evolversi in atto creativo completo. Matrimoni ben riusciti, a volte, quelli
tra le due arti con tanto di fidanzamento precedente. Non va dimenticato, infatti,
quel periodo che a piedi dello schermo del cinema muto sedeva il piccolo pianista
o l'orchestrina che accompagnavano a suon di musica le immagini in movimento, quasi
un pretendente a far la serenata alla sua bella. Il jazz, infatti, aveva già avuto
a che fare con il cinema per via di queste orchestrine che commentavano dal vivo,
nella sala, i fatti che man mano si succedevano nello schermo. E tra le fila di
queste orchestrine, si sono esibiti anche musicisti dal futuro decisamente memorabile,
come Louis Armstrong
(New Orleans, 4 ago 1901 – 6 lug 1971) ad esempio, il
jazzman forse più noto in assoluto, o Thomas "Fats" Waller, uno dei
più grandi pianisti della storia del jazz, che nel 1919, appena quindicenne, ebbe
il suo primo impiego in un cinema di Harlem o ancora Count Basie
(21 agosto 1904, 26 aprile 1984) che per guadagnarsi
da vivere accettò varie scritture nei cinematografi newyorkesi.
[3] E poi, dal lontano
1927 in poi, il cinema porta inscindibilmente con
sé un'anima fatta di suoni: un'anima che talvolta possiede già un'identità e una
storia ancora prima di entrare in relazione col suo "corpo" visivo, o che al contrario
viene progettata e concepita proprio in corrispondenza di quel connubio. Allora
a volte la sensibilità di registi come la Zwerin o Eastwood o Tavernier
o grandi artisti come loro è lì per ricordarci personaggi che non solo hanno fatto
e rivoluzionato la musica, ma attraverso questa hanno anche fatto il cinema.
Monk stesso ha collaborato a varie colonne sonore come ad esempio quella del
film Les liaisons dangereus 1960per
la regia di Roger Vadim, la versione moderna dell'omonimo romanzo epistolare
del 1792 di Choderlos de Laclos ed altre pellicole ancora.
Ma torniamo al nostro film che, in linea generale, segue cronologicamente
la vita del pianista. Incontriamo ora il suo manager, intervistato dalla Zwerin,
che racconta alcune tappe fondamentali della vita di Monk. In primo luogo
la difficoltà di essere compreso sia come musicista che come uomo. E' vero che per
molti egli, con il suo modo di essere e di comportarsi, rappresentava una pura espressione
di indipendenza, ma è anche vero che lui e la sua musica erano un qualcosa di non
ortodosso, non popolare. I suoi dischi non si vendevano e su di lui circolavano
storie di inattendibilità. Poi c'è stato il carcere -è stato incriminato al posto
del suo amico
Bud Powell a causa dell'eroina, quando in realtà lui non ne faceva neanche
uso- e la successiva perdita della cabaret card. A quell'epoca per suonare
nei locali bisognava essere in possesso di questa speciale carta rilasciata dalla
polizia, che la ritirava ogni qualvolta riteneva che il possessore avesse commesso
un crimine. Senza questa, il musicista diventava un disoccupato in quanto nessun
locale aveva più il permesso d'ingaggiarlo. A quell'epoca la maggior parte dei musicisti
di jazz era di colore. E a quell'epoca, parliamo degli anni Cinquanta e forse anche
prima, la polizia aveva preso di mira i musicisti jazz. Così, senza la card,
quest'uomo, apparentemente inadattabile e indifferente al mondo che lo circondava,
difficile da essere compreso, subì impassibile i guai che gli vennero incontro.
Era un uomo strano, un enigma per tutti. Ad un certo punto, però, i tempi della
sciagura sono passati. La m.d.p. ce lo fa capire in questi spezzoni del
1968, che ce lo restituiscono elegante, omaggiato,
stimato. Ma ce lo ritraggono anche più bizzarro che mai. Ancora una volta la m.d.p.
lo riprende mentre sta compiendo una delle sue singolari giravolte su sé stesso.
Un paio di frasi che lui butta lì con quel suo fare strascicato, roco, non chiaramente
udibile ad un ipotetico pubblico che c'è ma che noi non vediamo, tradiscono forse
la sua consapevolezza
Lo faccio per strada se posso…se qualcun altro lo fa gli mettono la camicia
di forza…Oh, quel Thelonious Monk è pazzo!…[si sente il pubblico applaudire]
Grazie! L'applauso arriva lo stesso.[4]
Sa di essere percepito come un diverso, ma allo stesso tempo non sembra
interessato a fare qualcosa che renda più decifrabile la sua personalità. Non è
un atteggiamento divistico, è sempre stato così sia prima che dopo, e basta. Ora
è famoso, la sua grandezza musicale è riconosciuta e mettergli la camicia di forza
sembrerebbe un atto eccessivo, incastrerebbe il genio, ma la verità è che Thelonious
Monk è un diverso. Forse ora più che mai comprende la terribile verità che non
conta l'uomo, ma quello che sa fare. Solo perché sa comporre e suonare mostruosamente
il mondo lo prende per quello che è. Lui non fa niente per rendere più decifrabile
la sua personalità ma anche prima, quando nessuno capiva la sua musica, non ha mai
fatto niente per essere compreso. Anche lui come Charlie Parker, Dizzy
Gillespie e gli altri rivoluzionari che hanno inventato il bebop, suonava e
componeva per sé stesso. Suonavano della roba che non si era mai sentita prima ed
erano accomunati da una frase: «Non mi importa se tu ascolti la mia musica o
no», [5] rivolta soprattutto a quel mondo
di bianchi che aveva stereotipato, industrializzato e imbastardito le più libere
forme espressive, solo in nome del dio business. Sono stati questi artisti,
questi uomini così diversi, questi rifiuti della società, pazzi, tossicomani, disadattati,
innalzati ad icone solo dopo aver cominciato a vendere dischi, a trasformare in
arte quello che fino a quel momento non aveva avuto la possibilità di essere chiamato
tale. Nel nostro film, dopo una serie di copertine di dischi di Monk, la
m.d.p. si sofferma su una copertina di Time, il famoso periodico americano,
il volto scuro su fondo rosso lo ritrae serio. Avere il proprio viso sulla copertina
di uno dei più importanti giornali americani, ci dà la misura del pubblico vasto
che aveva cominciato ad apprezzarlo. Ma Theolonius non ha mai dimostrato di essere
particolarmente commosso per i riconoscimenti e le lodi ricevute, non modificando
sostanzialmente le sue abitudini e il suo modesto tenore di vita. Si limitò a pagare
meglio i suoi collaboratori, ad alloggiare con evidente piacere nei grandi alberghi
durante le sue tournée in giro per il mondo, e a vestirsi con maggior ricercatezza.[6]
Del resto, era stato sempre, a suo modo, elegante. Dice il suo manager Harry
Colomby: «Da quando lo conosco, persino negli anni più difficili ha sempre
avuto una certa aria di celebrità». Ma eccolo di nuovo davanti all'obiettivo
della m.d.p., immortalato nella sua ennesima giravolta. C'è la sua musica sul il
primissimo piano di Monk che, girando su sé stesso, sembra in stato di
trance. Questa immagine sembra essere un po' il refrain di tutta la pellicola.
Sia nella scelta dei fratelli Blackwood che in quello della Zwerin,
che ce la offre a più riprese per tutto l'arco del film, la visione dell'uomo che
ruota sembra quasi voler riassumere in sé, il senso profondo dell'arte e della personalità
di questo particolare personaggio. E' un uomo che gira su sé stesso. E' un uomo
che non si preoccupa di quello che il mondo decifra in questo suo gesto. E' un uomo
che fa quello che sente dentro. E dentro quest'uomo probabilmente convivevano delle
forze contraddittorie. In quasi tutti gli episodi noteremo i silenzi di Monk,
la sua incomunicabilità fatta di poche parole, sguardi enigmatici, frasi smozzicate,
non concluse. L'intervista al figlio ci racconta non tanto quello che Monk
aveva dentro, quanto, naturalmente, quello che gli altri di lui percepivano. E la
percezione di Thelonious Monk jr. è quella di un ragazzo, ora uomo, che ha
avuto delle grandi difficoltà ad accettare l'idea di avere un padre, all'inizio
"diverso", in seguito malato. Il non volerne riconoscere i segni, il far finta che
tutto sia normale. Ad un certo punto dirà: «Sapete, è una cosa che fa trasalire
[…]quando guardi tuo padre negli occhi e sai che non sa esattamente chi sei».
L'intervista passa di nuovo al suo manager e anche lui parla della paura
di percepire la malattia che stava avanzando.«All'inizio capitava solo un
paio di volte l'anno poi le cose sono cambiate». Un'altalenarsi di depressione
ed euforia e poi i ricoveri, quando l'altalena non reggeva più i pesi.
E
dietro tutto questo c'è sempre stata Nellie, sua moglie. Ed eccola Nellie
nella sua prima apparizione nel film. Una foto di lei ricoverata per motivi di salute.
E' lei che lo guarda nella foto, lui è a testa bassa. Sembra spaventato alla sola
idea di perderla. Nellie il suo braccio destro, la sua donna, la sua amica.
Loro figlio dirà ad un certo punto che forse se non ci fosse stata Nellie
probabilmente la sua musica non sarebbe mai giunta a tanto. Lei faceva tutto per
lui: gli diceva come si doveva vestire, cosa doveva mangiare, a che ora doveva uscire.
Ma non era la sua dittatrice, la moglie despota di un marito succube. Nellie
è stata la prima a capire chi aveva di fronte, a capire quale miscuglio di genio
e follia aveva quest'uomo in sé. La gente dichiara che la sua malattia apparve verso
gli anni Sessanta, ma sua moglie afferma di averne visto i segni molto, molto tempo
prima. Fiducia totale e dipendenza verso questa sua donna che lo ha accompagnato
nel tortuoso cammino della sua vita. Allora un brano per lei e mentre lo ascoltiamo
non vediamo più Monk in bianco e nero, come finora era stato ritratto nel
film, ma improvvisamente a colori mentre suona il pezzo per sua moglie seduto al
pianoforte. Poi torniamo di nuovo al bianco e nero della m.d.p. dei fratelli
Blackwood che seguono la coppia in una stanza d'albergo: lei lo aiuta a vestirsi,
gli passa le cose, è attenta e premurosa. Poi ancora loro in aeroporto: lui è seduto
da una parte mangiando una mela, lei è ripresa poco più in là intenta a contare
delle banconote. Immagine-metafora del loro stile di vita. Poi loro in aereo e la
sequenza si conclude con un primissimo piano di lui che sorride alla cinecamera.
E un sorriso così non ce l'aveva ancora fatto da quando era iniziato il film. Poi
le prove prima della tournée mondiale, tanto bizzarro nel comportamento come
al solito, quanto lucidissimo nel dirigere i propri colleghi e davanti al suo pianoforte.
Colpisce una frase che pronuncia quando un musicista,
Phil Woods, gli chiede qualcosa a proposito dell'ordine degli
assoli: «Scegli tu il punto dove pensi sia bello suonare. Sceglilo».Oppure quando in un'altra sequenza il sassofonista Charlie Rouse gli
chiede chiarificazioni sullo spartito e su quale nota è meglio partire e lui, immobile,
dopo averlo guardato gli risponde: «una di quelle che sono qui -sul pentagramma-
puoi suonare una di queste [e l'altro colpito] Ogni nota che voglio? [e Monk] ogni
nota che vuoi». L'unica regola che il compositore stabilisce è quella della
libertà assoluta, non come caos ma come una scelta personale e competente entro
un costrutto che lascia spazio all'improvvisazione spontanea, elemento fondamentale
affinché il jazz possa esistere. E lui, simbolo rivoluzionario che ha cambiato la
storia del jazz, è seguito da quest'impianto cine-musicale fluido e attraente dove
il commento parlato, sobrio e semplice, lascia grande spazio all'evidenza delle
immagini e del sound. Man mano che procediamo possiamo notare come queste
destrutturate e ricomposte sequenze acquistino un valore tanto simbolico quanto
chiarificativo di un viaggio sia esistenziale sia jazzfilmico.
Poi una sequenza, quella di lui a New York, che gira per il suo quartiere.
Immagini chiare per una cinepresa che continua a seguirlo passo passo. La gente
lo riconosce, lo saluta. Ad uno di questi dice: «Sai sarò occupato. Lo sai andrò
dappertutto…ma sai, non so che cosa farò qui». Come se viaggiare e suonare nei
posti lontani dia la possibilità di esprimersi liberamente, sottolineando la difficoltà
del vivere in questa America metropolitana che alla gente come lui ha offerto la
chance di essere qualcosa, soltanto perché attraverso l'arte è riuscita a
sfondare quel muro che separa l'America bianca da quella dei ghetti e delle realtà
più disagiate. Qualcosa di grave e profondo, dentro, che forse vorrebbe lottare
contro quelle ambiguità e quelle contraddizioni dell'ambiente metropolitano nel
quale quest'uomo e altri grandi come lui hanno vissuto.
Poi
l'altro volto femminile della sua vita, il volto di Nica "la baronessa del
jazz", ce la presenta lui ad un certo punto nelle riprese dei fratelli Blackwood
e ci dice, giocando, che è una miliardaria. In realtà è vero: questa donna era molto
ricca ed anche nobile, ma anche lei una diversa, una ribelle. Colomby, intervistato,
dirà ad un certo punto
Lei mi disse che voleva incontrarlo ad ogni costo…io so che aveva bisogno
di lui, molto, me lo disse lei, disse che avrebbe sentito una sorgente di forza.
Aveva un'interessante passato, una donna che era stata con il corpo di liberazione
francese e aveva pilotato i bombardieri Lancaster nella resistenza di De Gaulle…una
ribelle, sapete! Ma Nellie non vide mai in quella relazione una minaccia. Qualche
volta Nellie doveva essersi sentita sollevata…che lei fosse lì quando Thelonious
era un po' difficile, lei si accollava parte delle responsabilità. Non credo che
fosse premeditato accadde così…
poi la voce over di Nica, oggi, ma sulle immagini di loro due insieme
in quegl'anni. Si sono incontrati nel 1954 e
come dice lei: «..e poi ci frequentammo per tutto il resto che fu e ci divertimmo
molto..». Allora viveva allo Stanhope Hotel e tutti i musicisti andavano lì,
ma dopo che Charlie Parker morì proprio da lei, la cacciarono via. Allora
cambiò albergo e andò al Bolivar Hotel e finalmente portò un pianoforte. Con quello
Monk compose altri brani. Stavano sempre insieme e tutti i musicisti andavano
ancora da loro a fare jam-session fino alle nove del mattino, così li cacciarono
anche da lì. Alla fine Nica decise di prendere una casa, sull'altra sponda
del fiume, nel New Jersey, la vista di Manhattan riempiva le grandi finestre, da
lì nessuno li avrebbe mandati via. «Così ebbi questa casa» dice lei e, sulle
inquadrature attuali a colori della Zwerin, piene di luce e di gattini sparsi
per l'ambiente, che si alternano alle inquadrature di ieri, del bianco e nero dei
Blackwood, vediamo mostrarci la casa che era conosciuta all'inizio come "la
città dei gatti". I gatti erano chiamati allora anche i musicisti di jazz. Poi sempre
dall'inquadratura del presente con la finestra sul fiume, un fiume così grande da
sembrare il mare, ci arriva all'improvviso la voce over di Monk che esce
dalle casse di uno stereo poggiato sul davanzale. E' una trovata efficace quella
di farci ascoltare la sua voce di un tempo che esce da uno strumento moderno, saluta
tutti e ci parla di Pannonica il brano da lui
composto e a cui ha dato il nome di «questa bella signora di qui». Nica,
Pannonica, il nome di una farfalla. L'inquadratura
si stringe sulla foto in bianco e nero di Monk e Nica che passeggiano
tenendosi per mano in un parco. Poi un bel p.p. di una foto di lei e ancora foto
su foto che li ritraggono insieme. Dopo un p.p. del cielo blu, la m.d.p. scende
sul pianoforte di Monk, che ormai se n'è andato, ne carezza i dettagli, poi
si muove per la casa riprendendo quel branco di cuccioli di gatto sparsi ovunque.
Il jazz-film torna ora all'intervista a Charlie Rouse, il sassofonista
che ha suonato per tanti anni con lui:
Lui era così preso dalla sua musica sapete…non avrei mai pensato che potesse
smettere all'improvviso e non suonare…ma qualcosa successe, qualcosa davvero scattò
in lui e non volle più suonare. Io glielo chiesi un paio di volte non mi diede mai
una ragione disse: «Non mi sento di suonare più».
Poi ancora la voce over di Nica sulle immagini della casa:
Tornavamo a casa da New York…questo era il primo anno che viveva qui, era
il 1972 e improvvisamente si rivolse a me e
disse: "Sono gravemente malato". Questa è la sola cosa che da Thelonious si sia
udito dire, che fosse malato e basta…non lo disse mai un'altra volta.
Poi il silenzio si è posato su di lui, è sprofondato dentro sé stesso
e non è più uscito fuori. Già quando era in forma, le parole gli uscivano con difficoltà,
lo abbiamo sentito in questo jazz-film articolare i suoni con ritrosia ed esprimersi
a monosillabi, a volte s'inventava le parole. Come accadeva per il lavoro, dove
aspettava che il mondo lo capisse, così era per il linguaggio, eri tu che dovevi
decifrare i suoi grugniti e i suoi borbottii. Poi un giorno anche quei suoni sono
spariti, ha cominciato a non uscire più, non vedeva più nessuno, restava molto a
letto e godeva di sensazioni semplici, guardare gli oggetti, annusare i fiori. Apparentemente,
sembrava non gli fosse accaduto nulla, ma dentro la sua testa era esploso qualcosa.
Si era chiuso completamente in sé stesso. Era già accaduto molte volte, ma questa
volta il suo silenzio è durato dieci anni.
Siamo quasi giunti alla fine del film, un p.p. strettissimo in bianco
e nero ce lo mostra ancora, poi la m.d.p. si stringe sul dettaglio delle mani e
ancora sul volto, lo schermo è pieno di lui, il suo vero strumento musicale, è stato
il suo corpo, la musica usciva da lì. E sul suo p.p. parte la voce over che ci dà
la data della sua morte: 17 febbraio 1982 «Dopo
un coma di dodici giorni, se ne andò molto quietamente nel sonno. L'ultima persona
con lui fu Nellie.» Una ripresa dall'alto inquadra la chiesa, la bara portata
da quattro uomini è entrata. Come ad un concerto il suo pubblico si alza, la m.d.p.
si muove nello spazio come per cercare qualcuno, le donne di Monk. Nellie
e Nica sono sedute una accanto all'altra, in comune hanno avuto l'uomo, ora
il vuoto che lui ha lasciato. La m.d.p. torna da lui che, con gli occhi chiusi e
l'abito color crema, è dentro il suo sonno. Sugli applausi si cambia inquadratura,
non più il p.p. di Monk immobile, ma uno di lui ancora uno vivo, in bianco e nero,
per ascoltarlo mentre suona l'ultimo brano della pellicola. Sugli applausi Theolunious
si alza, ringrazia e se ne va.
Il jazz? E Monk disse: «Riguarda la libertà. Andare oltre sarebbe complicato.»
[1] Frank Bergerot e Arnaud Merlin, Il jazz oltre il bebop,
Parigi, Electa/Gallimard, 1994, p.
[2] Dalle didascalie del film.
[3] Il cinema in questione era il «Lincoln Theatre», qui lui suonava sia il pianoforte
che l'organo a canne di cui sarebbe stato nel jazz l'unico grande maestro. Con il
cinema ebbe a che fare ancora una volta nel 1942 a Hollywood dove poco prima di
morire si recò per prendere parte al film musicale Stormy Weather, interpretato
esclusivamente d'artisti neri (Cab Calloway (Rochester, New York, 25 dic 1907 -
Hockessin, Delaware, 18 nov 1994), Lena Horne, Bill "Bojangles" Robinsone altri)
come abbiamo già accennato a p.6 del Primo capitolo.
[4] Da una scena del film.
[5] L'espressione è considerata una frase-chiave dei musicisti di bebop.