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LEZIONI
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Cinema e Jazz
Le Biografie dei
Jazzisti maledetti nella fiction
I jazzisti
maledetti
di Cinzia Villari
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Condannato a subire o imporre gli effetti di una perpetua infausta ostilità;
talvolta, odiosamente o penosamente escluso da qualsiasi rapporto umano; che importa
o accentua motivi di disagio o fastidio, cui fa riscontro una vivace insofferenza
…e
sofferenza. Il significato della parola maledetto, estrapolato dal vocabolario della
lingua italiana, si è così presentato a noi. Poi una frase balza alla mente, risultato
di un'associazione di idee «L'arte sola è la garanzia dell'immortalità».
Scrisse questo Stephane Mallarmé
(Parigi, 1842 - 1898) pensando
alla morte dell'amico Paul Verlaine
(Parigi, 1844 - 1896) per il
quale nutriva la più profonda e sentita stima. Mallarmé, poeta così socialmente
al sicuro, la cui vita è un esempio di specchiata dignità, con moglie e figlia affezionate
e devote, espresse una totale ammirazione per l'amico e per quella sua vita controcorrente,
sregolata e strana, apertamente opposta ad ogni convenzione, «una sorte che di
solito è quella del fanciullo che avanza con ingenua audacia nell'esistenza secondo
la sua divinità […] ma fino in fondo, dolorosamente e impudicamente»
[1].
Profondamente diverso nel sociale dall'amico "maledetto", ma così attento e sensibile
da comprenderne la grandezza, ha portato alto il suo nome, agli occhi di una società
che lo condannava. E l'ostinato credo mallarmeano dove l'arte è la sola garanzia
dell'immortalità si addice anche a tutti coloro che sotto la cattiva stella, hanno
percorso il cammino della loro sventurata esistenza. Questi, esseri umani, artisti
del massimo livello, da Caravaggio a Pollock, da Baudelaire
a Pound, da Keats a Parker, da Hendricks a Baker,
da Rothko alla Plath, da Verlaine alla Joplin, da
Schubert a Shelley -e l'elenco sembra non potersi mai esaurire- pur nelle
enormi distanze tra culture, esigenze, caratteri e comportamenti, portavano avanti
un'esistenza assai simile sul piano umorale conducendo una continua battaglia interiore
tra svilimento e redenzione. Ma l'umor nero spesso nasce da un insieme di cause
storico-culturali che hanno segnato la vita di questi artisti, come sovvertimenti
politici, rivoluzioni, crisi religiose, progresso, economia. I più grandi tra loro
diventano un unicum, vengono considerati geni e se a questa parola attribuiamo
il significato derivante dal latino gignere: generare, saranno quelli che
daranno origine a qualcosa che prima non si conosceva. E se questi geni passano
anche sotto l'appellativo di "maledetto", a causa della maniera diversa e sregolata
con cui conducono la propria esistenza, il loro modo di essere può dare origine
ad un modo di pensare che non solo farà scuola, ma sarà imitato da una parte del
contesto socio-culturale, creando pensiero, comportamento, moda e via dicendo. Gli
Scapigliati lombardi, ad esempio, seguirono da una parte il crudo Naturalismo
francese, dall'altra s'ispirarono nella poetica e nello stile di vita, al grande
Baudelaire, il "maledetto poeta" dell'uomo moderno, spinti dalla necessità di ripudiare
quella società materialista e negatrice d'ogni ideale, nella quale vivevano. Purtroppo
non elaborarono una poetica ben definita, non riuscendo a concretizzare le loro
aspirazioni se non in una rivolta individuale esasperata, in una vita anarchica
e sregolata, incapace di approdare alla costruzione di valori nuovi. Ma gli altri,
no. Quelli che hanno rivoluzionato i canoni preesistenti, passando però attraverso
il difficile cammino di un'anima tutta genio e sregolatezza, che ne ha distrutto
la vita, l'arte l'hanno fatta davvero. Ed ecco allora l'artista diventare immortale.
La letteratura mondiale sull'artista maledetto ci ha riportato spesso
a fare i conti con questo concetto. Sull'esempio di molti uomini -dotati tanto di
una grandezza artistico-espressiva quanto di un autolesionismo e di un'autodistruzione-
che sembrava non potessero vivere se non in questo maledetto matrimonio, ne hanno
parlato i più illustri tra gli uomini di scienza e d'arte. Il risultato è sempre
lo stesso: che la mostruosa battaglia interiore trovi terreno fertile nell'anima
di poveri disperati arrivati all'arte attraverso le più drammatiche vicende di vita,
o in artisti abituati a calpestare tappeti rossi e a nutrirsi a champagne, le cose
non cambiano. Sembra, quella di questi geni imbevuti di talento fin nelle viscere,
una storia senza fine. Laddove ne muore uno ecco che da qualche parte ne riapparire
un altro.
Certamente quella del jazz è l'arte che ne ha partoriti più di altri.
Chiunque può notare l'insolita percentuale di musicisti prematuramente scomparsi,
dopo aver vissuto un'esistenza tragica. E, tra questi musicisti, dei veri e propri
geni.
Sicuramente
il musicista nero subì discriminazioni e maltrattamenti oltre ogni limite, tanto
che la sua vita si trasformò spesso in un inferno, ma anche il bianco non ne fu
risparmiato. Se i musicisti, bianchi e neri, degli anni Venti-Trenta caddero vittima
dell'alcool, vedi i Bix (1903
- 1931), i Coleman Hawkins
(1904 - 1969) o i Lester
Young (1909 - 1959), quelli
del Quaranta e Cinquanta finirono schiavi di una vera e propria epidemia di eroina.
Molti ne uscirono, ma l'elenco dei nomi di spicco di un'ipotetica lista di tossicodipendenti
che ne rimasero intrappolati, ne include un numero altissimo. La frequenza nelle
carceri o negli ospedali psichiatrici, conseguenza diretta o indiretta del tipo
di vita che avevano intrapreso, era, doloroso d'ammettere, quasi di ordinaria amministrazione
e qualcuno ha osservato che il Bellevue Hospital di New York è stato asilo
del jazz moderno tanto quanto lo è stato il Birdland, il mitico locale intitolato
a Charlie Parker, dove hanno suonato i più grandi mostri del jazz. Charlie
Parker (1920 - 1955) è
morto a trentaquattro anni, Bud Powell
(1924 - 1966) a quarantadue
anni, John Coltrane
(1926 - 1967) a quaranta,
Oscar Pettiford (1922 - 1960)
a trentasette, Eric Dolphy
(1928 - 1964) a trentasei,
Lee Morgan (1938 - 1972)
a trentatré, Doug Watkins (1934
– 1962) a ventisette, Fats Navarro
(1923 – 1950) a ventisei,
Charlie Christian (1916 - 1942)
a venticinque, Clifford Brown
(1930 - 1956) a ventiquattro,
Jimmy Blanton (1918 - 1942)
a ventitré, e la lista non si ferma qui. Per questi uomini del jazz raggiungere
la mezza età appariva quasi un sogno e anche quelli che la raggiunsero, ci arrivarono
consumando intere zone della propria vita, persi negli angoli più remoti della loro
anima. Certo, date le loro abitudini, non solo quelle della droga o dell'alcool,
ma anche quelle degli spostamenti estenuanti e degli orari impossibili, un'aspettativa
di vita inferiore alla media era possibile ma ci si domanda se non ci sia un qualcos'altro
dentro quest'arte stessa da imporre un tributo così alto ai suoi membri. Addirittura
quello riconosciuto come il primo jazzman della storia, Buddy Bolden
(1877 - 1931), perse la
ragione durante una parata e trascorse gli ultimi ventiquattro anni della sua vita
in manicomio. Jelly Roll Morton
(1890 - 1941) spiegò: «Bolden
impazzì perché si fece scoppiare il cervello a furia di soffiare dentro la sua tromba».
Possiamo ovviamente sorridere di fronte a questa frase, ma non possiamo
sorridere pensando a quello che c'è oltre. Quello che può farci riflettere è che
questo genere di musica, soprattutto quella che va dagli anni Quaranta a metà degli
anni Cinquanta, avanzò con la forza di un incendio come mai si era visto prima.
Arrigo Polillo (1919 - 1984)
scrive:
«Alcuni autori hanno osservato che col bebop il jazz ha raggiunto uno stadio
di civiltà armonica pressappoco corrispondente a quello raggiunto dalla musica europea
con Wagner e Debussy. Va ricordato a questo proposito che il jazz,
nella sua rapidissima evoluzione, ha percorso in pochi decenni un cammino analogo
a quello della musica europea dalle origini a oggi»
[2]
E ci si domanda se non sarebbe mai stato possibile per un'arte svilupparsi
tanto velocemente e con un ritmo serratissimo, da non chiedere in cambio un così
forte sacrificio di vite umane. La verità è che il jazz avanzò così fulmineamente
in quanto i musicisti erano obbligati, se non altro per guadagnarsi da vivere
[3],
a suonare sera dopo sera e non solo a suonare ma anche a improvvisare e ad inventare
in continuazione suonando. Inventare, generare incessantemente. La costante pressione
dell'improvvisazione li tiene in un incessante stato di allerta creativo, di disponibilità
all'invenzione. Infatti, prerogativa di questa musica, è l'improvvisazione, che
fa del jazz una musica speciale, differente da ogni altra. Qui la figura del creatore
della musica e il suo esecutore, cioè il solista che improvvisa, s'identificano
nella stessa persona. Basandosi su un tema che ha il valore di spunto, si elabora
una creazione-esecuzione musicale. Ciò che conta nel jazz è lo stile personale del
solista-improvvisatore, l'invenzione -visto che il processo creativo e l'esecuzione
s'identificano. Tutto quello che accade, avviene in tempo reale, nasce cioè nel
preciso momento storico da lui vissuto nell'atto di produrla. Da qui quell'immediatezza
di perfezionare le proprie composizioni-esecuzioni attraverso una continua improvvisazione.
Tutto questo avviene davanti ad un pubblico che assiste alla creazione-esecuzione
artistica del solista, vivendola insieme a lui. Da qui, quell'immediatezza di comunicazione
e solidarietà, o non comunicazione e non solidarietà, che si stabilisce tra jazzman
e chi lo ascolta e l'influenza che questi, può esercitare sulla creazione in
fieri.
Le radici, che sono alla base della struttura del jazz, vanno ricercate
nelle concezioni africane
[4] dell'espressione
musicale che ha bisogno di un interlocutore, anche se muto, e della coincidenza
del tempo musicale, con quello psicofisiologico di chi produce la musica. Il solista
improvvisatore riflette meglio di ogni altro musicista la realtà in cui è immerso,
nell'ora che la sta vivendo, da qui la sua straordinaria attitudine di inglobare
la storia di cui fa parte. Le forme che lui inventa e che propone al pubblico mutano
incessantemente. Per questo la storia di questa musica corre così velocemente e
così precisamente riflette gli umori della società come la sente colui che la vive.
Nella sua velocità quest'arte ha bruciato, trasformandoli, nel giro di qualche anno
non solo gli stili, i suoni, le correnti e le scuole che ne derivavano, e che per
un periodo si erano imposti fortemente nel microcosmo del jazz, ma anche tanti dei
suoi uomini che vi si sono consumati. Inoltre molti protagonisti del jazz, in particolare
quelli che ne hanno segnato i rivoluzionari cambiamenti soprattutto tra gli anni
Quaranta e Cinquanta, sono dei neri, con tutto quello che in quegli anni comportava
essere uomini di colore.
Se si uniscono allora le prerogative del concetto di fare jazz, alle gravi
problematiche di tipo socio-culturale alle quali i suoi protagonisti erano sottoposti
e la conseguente crisi di tipo esistenziale che ne può derivare, forse si spiega
perché quest'arte ha prodotto così tanti artisti che possono rientrare sotto lo
pseudonimo di "maledetto". Le condizioni e gli spazi in cui la maggior parte di
questi uomini opera sono di tipo marginale e fuori da quei contesti accettati pienamente
dalla cultura bianca e perbenista americana di quegli anni. A questo proposito è
interessante l'osservazione che fa Franco Fayenz:
«Di passaggio rispolvero una vecchia idea, che qualche specialista dell'argomento
aveva progettato di riprendere, senza poi trovare il tempo (sarei lieto di essere
smentito) di approfondirla a dovere. Parker e Young, come Billie
Holiday, Bud Powell, Fats Navarro, Wardell Gray e tanti
altri, per citare solo i più grandi, furono vittime della droga in un momento storico
e in un ambiente così limitati […] da sollevare legittimi sospetti. Ritengo
cioè che, al di là di ogni campagna moralistica, la droga sia stata fatta circolare
di proposito nell'ambiente del jazz di New York, in specie quello nero per
screditarlo. Può essersi trattato di un aspetto ulteriore e non bene esplorato del
razzismo.»
[5]
Ma
anche i bianchi all'altezza di questi straordinari musicisti, condividevano con
loro le sorti di un dato sistema di vita, esponendoli ad una sfida continua con
gli altri e con sé stessi, in questo continuo pazzesco gioco dell'invenzione-improvvisazione-creazione,
a rischio dell'innalzamento, ma anche del consumo dell'anima. Se i bianchi erano
dei privilegiati nella società grazie al colore della pelle, quindi non sottoposti
all'ulteriore peso di una discriminazione razziale, alcuni di loro perdevano questo
privilegio nel momento in cui cominciavano a condividere le sorti -in un certo senso
intrinseche ad un dato modo di fare il jazz. I risultati sono stati spesso eccellenti,
ma non sempre i metodi per raggiungerli erano quelli migliori -vedi l'eroina e il
carcere per gli Art Pepper
(1925 - 1982) o i
Chet Baker
(1929 - 1988), che trasformarono
il loro cammino di vita come in un arrancare in un labirinto senza uscita. Per fare
il jazz ci si deve immedesimare anima e corpo nel proprio modo di fare musica, perché
questa è l'emanazione diretta della personalità e di quanto ciascuno di noi sa dare
sul piano umano. Charlie Parker diceva: «La musica è la tua stessa esperienza,
il tuo sapere, i tuoi pensieri, se non la vivi, non ti verrà fuori dallo strumento».
Ma non per questo la strada migliore è quella dello stravolgimento della propria
esistenza. Ciononostante per alcuni questa concezione della vita sembra essere la
sola. Un esempio interessante è quello del trombettista bianco Red Rodney
(1927 - 1994) che fece ricorso
all'eroina imitando Parker, nella speranza di raggiungere l'inesauribile
inventiva musicale del sassofonista
[6].
Nel film di Eastwood Bird
è molto ben sottolineato quest'aspetto che mette in luce il dolore del nero Bird,
quando comprende le motivazioni che hanno spinto l'amico Red a tuffarsi nel
maledetto mondo dell'eroina, sperando di poter arrivare a suonare come lui. La conseguente
decisione di Parker di provare a smettere, per dimostrare che non è la droga che
ti fa esprimere in un certo modo, è forse uno degli elementi che Eastwood ci dà,
per farci entrare un po' più a fondo nelle problematiche varie che albergano in
seno agli uomini del microcosmo jazz. Ed ecco che il cinema si fa artefice e guida
alla comprensione di un'altra arte. Attraverso la sua scrittura filmica, egli diviene
medium per far conoscere ad un pubblico più vasto lo spirito di un genere artistico
e dei suoi protagonisti. Nel nostro caso, attraverso le biografie filmate di alcuni
di questi musicisti maledetti, vivremo studiandolo, lo speciale momento in cui le
due arti si metteranno a reciproca disposizione, diventando vicendevolmente l'una
musa ispiratrice dell'altra, per farci sentire più da vicino gli umori e i significati
di un mondo che non è sempre così facile da comprendere.
[1] Sono le parole pronunciate
da Mallarmé sulla tomba fresca di Verlaine il 10 gennaio 1896.
[2] A p. 198 del suo libro Jazz, Milano, Mondatori, 1997.
[3] Tra l'altro l'alternativa di lavoro, per i neri in particolare, era quella di
essere impiegati nei mestieri più umili ed essere relegati ad una posizione sociale
che non lasciava scampo al miglioramento.
[4]Non dimentichiamo che il jazz, nasce dalla combinazione della cultura bianca
americana con quella dei neri e che trova la propria origine negli anni della schiavitù.
[5] Franco Fayenz, Il nuovo jazz degli anni '40.Young/Parker/Tristano, Roma, Lato
Side Editori, 1982. Nota 6 di pg.11.
Questa teoria è stata sostenuta anche da alcune organizzazioni antirazziste e allargata
non solo all'ambiente del jazz, ma alle realtà dei ghetti, dopo la repressione del
movimento delle Black Panther, la più famosa organizzazione rivoluzionaria degli
afro-americani negli Usa.
[6] Si racconta anche che il sassofonista bianco Joe Miani, s'iniettasse nelle vene
il sangue di Charlie Parker, dopo che questi si era "fatto" di eroina insieme a
lui. Joe Miani, a proposito della particolarità dei maledetti, si sparò un colpo
alla nuca uccidendosi, mentre giocava alla roulette russa.
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Data pubblicazione: 17/04/2006
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