La premessa è buona ed effettivamente feconda: nomi illustri sono cresciuti
puntando sull'amalgama di Rap e Jazz, operazione senza dubbio interessante da più
punti di vista. Basta citare i carismatici Us3, o magari il più freddo Keith
Elam (in arte Guru), ed è subito chiaro come la carne al fuoco sia tanta e prometta
notevoli risvolti, in un ambito di lavoro che vede collimare due momenti musicali
diversi nella dimensione temporale, eppure molto stretti nell'ambito culturale che
li ha prodotti - anche considerando solo che entrambi sono originariamente frutto
di una minoranza sociale.
Il lavoro di questo quintetto rientra in tale discorso: i nove brani proposti
toccano in più punti le tappe obbligate degli stilemi Rap (senza riferirsi alla
scontata tecnica vocale) e delle soluzioni del Jazz-Funk "easy listening"
degli ultimi 20 anni. Costruiti su una ritmica ferrea ed inesorabile, su cui si
appoggiano le armonie e si sviluppano i testi, si caratterizzano per un sound morbido,
caldo, sfruttato al massimo dalle tastiere e dalla chitarra, così da conferire nell'insieme
un sapore molto Lounge, trascinante, risultando però limpido e perfettamente leggibile.
E su tutto domina sicuramente un notevole feeling generale ed un senso del tempo
ammirevoli, per cui certo non si può dire che venga a mancare il groove.
Gli elementi costitutivi di tanta solidità ritmica sono in gran parte
dovuti alla precisione metronomica di
Paolo Prizzon, che riesce a mantenere perfettamente marcato il
beat pur concedendosi libertà espressive, ma soprattutto sono da ricercarsi all'interno
dell'interessante lavoro di
Roberto Magris, che qui usa il piano quasi più come strumento
ritmico che armonico, contenendosi nel dare gli accenti giusti, a smuovere le acque
portando colore là dove c'è ne bisogno.
Tuttavia "Stones" non convince del
tutto, non riesce a farsi ascoltare senza intoppi. Il limite principale sta nel
rapporto fra la voce e gli strumenti. Sembra infatti che le parti vocali siano semplicemente
sovrapposte alla base dei musicisti, quasi un'aggiunta opzionale, piuttosto che
una vera e propria caratteristica fondante; ciò che dovrebbe quindi essere elemento
distintivo appare così un po' freddo e distaccato, poco più che non necessario.
Di conseguenza la lettura è interrotta, e non concede l'impressione di un capo e
una coda al disco: accanto alla bontà dell'idea e del materiale proposto si sente
la carenza di un arrangiamento complessivo più sintetico. Fortunatamente i nostri
confezionano lo stesso alcune buone hit, con cui centrano il bersaglio anche se,
appunto, solo localmente, circoscritti a singoli brani: è il caso di "Islamic
Spires" o "Red Cap & the Bad Loop",
ma anche della più espressiva e libera "Reaching the Holy
Land".
Achille Zoni per Jazzitalia
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Data pubblicazione: 28/10/2007
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