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Ornette Coleman trio
Dolce Vita Jazz Festival. Auditorium Parco della Musica, 19 luglio 2003
di
Dario Gentili photo
by Daniele Molajoli
Dolce Vita Jazz Festival
2003
Ornette Coleman - sassofono
Denardo Coleman - batteria
Charnett Moffet – contrabbasso
Per molti è l'appuntamento più atteso del
Dolce Vita Jazz Festival, non a caso la sua foto è stata scelta per il manifesto di questa seconda edizione del festival: stasera sul palco della cavea dell'auditorium di Roma è di scena uno dei mostri sacri del jazz,
Ornette Coleman, per uno degli ormai rari concerti che il grande musicista americano concede. Le aspettative sono grandi per l'esibizione del settantatreenne Coleman, il cui nome può essere affiancato a quelli di John Coltrane, Miles Davis e di pochi altri per i quali si può dire che, dopo di loro, la musica afroamericana non è più rimasta la stessa. Il suo ingresso in scena è accolto dal lungo e sentito applauso che giustamente si concede a un pezzo di storia del jazz, che, tuttavia, sembra non lo tocchi più di tanto: il suo viso scavato da profonde rughe non si scompone, è quello di una sfinge, di una leggenda vivente, ormai fuori dal tempo come il vestito decisamente demodé che indossa, indifferente agli anni che inesorabilmente passano, come del resto la musica che si accinge a suonare, la "sua" musica, un marchio inconfondibile che ha attraversato indenne decenni di sperimentazioni e di glorificazioni, che tuttavia sembra sia qui suonata come per la prima volta. Durante tutto il concerto, Coleman non pronuncerà una sola parola, quasi che qualsiasi fiato che esce dalla sua bocca che non sia filtrato dal suo sax bianco possa interrompere un sortilegio. Il concerto è estremamente serrato, i brani si susseguono rapidamente, qualcuno brevissimo, in particolare quelli di pura improvvisazione free. Serrata e d'ispirazione free è la sezione ritmica formata dal basso di
Charnett Moffet e la batteria di Denardo Coleman, figlio di Ornette,
che probabilmente è nato con il free nel sangue. Su tale ritmica Coleman sprigiona tutta la versatilità del suo sax, che alterna passaggi melodici con vere e proprie sfuriate aspre e intense. Anche nei brani più melodicamente strutturati e costruiti, Coleman ritaglia sempre, pur se breve, un interplay free suonato con la tromba. Il pezzo più lungo del concerto è di struggente bellezza: dopo un breve intro di sax, le percussioni di Denardo Coleman e il contrabbasso suonato con l'archetto da Moffet tessono un'atmosfera notturna e sospesa, che il violino suonato in modo quasi istintivo da Ornette rimanda ulteriormente a sonorità di terre lontane: il pubblico è catturato in calde sensualità da Mille e una notte e la suggestione è accentuata dai giochi psichedelici di luce alle spalle dei musicisti. Quando Coleman torna a imbracciare il suo sax, le suggestive distanze del brano
si riducono, le alte e calde note del sax chiudono il pezzo e passano non pochi secondi perché il pubblico comprenda che l'incantesimo si è dissolto e possa essere in grado di applaudire, ma, dopo il primo timido sbattere di mani, il tributo di applausi è lungo ed entusiasta.
Dopo quasi due ore di intenso viaggio tra le composizioni storiche di Coleman, da
Street woman
a
Una muy bonita, il gruppo abbandona il palco. Nessuno tra il pubblico vuole credere che tutto finisca lì e incita rumorosamente i musicisti a uscire per il bis. Quando
Ornette Coleman esce di nuovo in scena tra il tripudio generale, come niente fosse, imbraccia il sax, aspetta l'inconfondibile intro di basso e, tra l'euforia di quelli che avrebbero pagato il biglietto soltanto per ascoltare dal vivo questo pezzo, intona la leggendaria
Lonely woman. Senza parole.
Alla fine del bis il pubblico è tutto in piedi a spellarsi le mani, Coleman concede un piccolo inchino e si allontana al buio verso le quinte: forse almeno una delle sue rughe sorride al pensiero che il tributo di applausi alla sua leggenda dell'inizio del concerto non è niente a confronto con l'ovazione che il pubblico adesso riserva alla musica suonata stasera.
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16/05/2010 | Angelique Kidjo all'Auditorium Parco della Musica: "Ciò che canta è solare fusione fra la cultura del Benin, suo paese d'origine, ed il blues, il jazz, il funk e, soprattutto, la Makossa: un'ibridazione certo non nuova ma innovativa per temi e poetica, un mondo di suoni ed immagini dai contorni onirici, dalle evoluzioni potenti d'una voce ben definita e dinamica, di ampia estensione, ricca di coloriture flessibili nella varietas delle esecuzioni..." (Fabrizio Ciccarelli) |
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Data pubblicazione: 08/08/2003
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