Bologna Jazz festival 2016 Buster Williams Quartet "Something More" Ferrara - Torrione Jazz Club - 12 novembre 2016 di Niccolò Lucarelli
immagini di Gian Franco Grilli
Jaleel Shaw - sax
alto e soprano
Eric Reed - pianoforte Buster Williams -
contrabbasso
Lenny White - batteria
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Bologna Jazz Festival in trasferta al Torrione di Ferrara, presso il prestigioso Jazz Club, con il concerto dell'atteso contrabbassista Buster Williams insieme al suo quartetto per presentare il noto progetto "Something More". Esploso in tutta la sua maturità artistica a metà degli anni
Settanta, Buster Williams
porta ancora nel Dna del suo jazz l'impronta dell'America di quel decennio, e con
occhio critico e fantasia d'artista ne racconta l'evoluzione nel tempo. Quello di
Williams è un jazz che trova il suo corrispettivo nella letteratura del secondo
Norman Mailer e di Gore Vidal, dal piglio modano e garbatamente polemico ma con
un senso di disillusione di fondo, che appunto si avverte nel contrabbasso di Williams;
a fraseggi di vivace dialogo a quattro, si alternano passaggi a tre o a due strumenti
dove il contrabbasso acquista un ruolo predominante, dove è possibile ammirarne
la possente durezza, pari allo sguardo amaro di un uomo d'esperienza.
Quello di contrabbassista può sembrare un ruolo poco appariscente per un frontman,
eppure, al centro del palco e appena alle spalle del saxofonista, Williams detta
i tempi e costruisce l'architettura di ogni singolo brano.
Apre la serata Dont't know yet (titolo che ironizza,
appunto, sulla mancanza di un titolo preciso e inclusa nel prossimo album ancora
in lavorazione), un brano di jazz sofisticato dal suono caldo e l'andamento in tempo
moderato; introdotta da un pianoforte luna come certi passaggi di Debussy, che prosegue
poi violento e spigoloso, prettamente newyorkese, a suggerire un fotogramma di Scorsese
o Stone. Fra gli svolazzi pianistici di Reed s'inseriscono le percussioni di White
e i prolungati fraseggi al sax alto di Shaw, una miscela che sembra un sorso di
Martini ghiacciato buttato giù nel cuore della notte. Con discrezione, Williams
tesse la trama del brano che racconta con energia l'America radical-chic degli anni
Settanta che ha superato l'idealismo hippy e le utopie dei Beat per affrontare con
pragmatismo un decennio complesso.
Il sax svolazza pragmatico sul registro acuto, mentre Reed al piano si muove con
vivace regolarità.
The triumphant dance of the butterfly (da Griot liberté del 2004),
coglie l'America intellettuale e progressista nell'anno della riconferma alla presidenza
di George W. Bush; un sound organico, caratterizzato da un ritmo più lento rispetto
al brano d'apertura, dove il sax alto ha la preminenza, inserito però in un'atmosfera
latineggiante che profuma di bossa nova apportata dalle percussioni di White. Il
brano ha un suo passionale calore, che non è però dovuto a un messaggio sentimentale,
quanto al voler tradurre in note il sentimento dell'America libertaria, che sembra
esplodere dal contrabbasso di Williams, pizzicato come fosse una slide blues. Un
discorso a parte merita il pianoforte, che Reed suona a metà fra lo stile latino,
il blues e la black music, rientrando in quella fascinazione che alla metà
degli anni Settanta riguardò anche i Rolling Stones con il loro Black&Blue;
l'accenno, per ribadire la caleidoscopicità delle composizioni di Williams, che
qui apporta a questo approccio una violenza urbana di fondo, metafora del malessere
di quell'America controversa, dove però come spiega il brano, le farfalle trovano
sempre il modo di volare. A metà, il brano cresce d'intensità con la batteria che
si fa più intensa e il sax che si muove si virtuosismi acuti su quattro note. Reed
invece si esibisce in un lungo, travolgente passaggio pianistico sul registro grave,
dalla stupenda, inquietante spigolosità urbana, quasi un fotogramma di Taxi Driver.
Ad addolcire la serata, la toccante ballata Christina (dall'album Something
More del 1989) aperta dall'assolo di contrabbasso su un'unica, insistita e ossessiva
nota grave, accompagnato poco dopo dal fruscio delle spatole di White. Il sound,
caldo e avvolgente di sax alto e pianoforte, suggerisce i boschi autunnali del New
England, o i sentieri di Central Park avvolti nella nebbia. Una ballata toccante,
sul senso profondo di una relazione sentimentale, senza retorica, ma con tutta l'umanità
che si ritrova, ad esempio, nell'epistolario di Henry Miller My dear, dear Brenda.
Fra i brani del secondo set, spicca The wind of an immortal soul, ancora
da Griot liberté (ma già uscita nel live del 2008); un brano dal doppio volto,
lento nei fraseggi di sax, e vivace nel dialogo piano-batteria-contrabbasso, con
la seconda che insiste sul ride e Reed che regala passaggi sullo stile di
Brubeck. Nella seconda parte, anche il sax acquista vivacità e Shaw sfodera un'aggressività
degna di un editoriale di Bob Woodward. Questo perché il brano è appunto la metafora
di quell'America libertaria che resta sempre in piedi. E nel comporre il suo jazz
maturo e pragmatico, Williams dimostra tutto lo scrupolo di un cronista che ambisce
al Pulitzer.
Dopo lo standard Summertime (un tuffo nei vecchi tempi), il concerto
si chiude con l'elegiaco After the ninth wave (da Griot liberté),
che l'anno successivo è stata dedicata alle vittime dell'uragano Katrina che semidistrusse
New Orleans.
Torrione sold out per una serata di jazz d'autore, profondamente americano ma portavoce
di un pensiero liberale moderno.