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Intervista a Glauco VENIER
15 giugno 2003
di Antonio Terzo

Jazzista, ricercatore, filologo musicale, insegnante, autore… Attraverso la sua "improvvisazione libera", il pianista friulano Glauco Venier recupera al jazz le radici culturali e musicali della propria terra d’origine, e non solo. Jazzitalia ha avuto modo di intervistarlo durante la registrazione del cd ancora in lavorazione, con illustri nomi del jazz internazionale e di ricerca. Questo il resoconto della lunga chiacchierata.

A.T.: Partiamo subito dalla registrazione in cui sei impegnato: chi prende parte al progetto?
G.V.:
Norma Winstone e Klaus Gesing. Klaus è un sassofonista che ho scoperto mentre facevo parte di una giuria per un concorso internazionale, dove mi han chiamato visto che la mia città è gemellata con il Festival di Vien, in Francia. In seno a questo festival facevano anche un concorso internazionale per gruppi, e lì ho conosciuto Klaus. Klaus è nativo di Düsseldorf, Germania, ha studiato in Olanda, e dopo gli studi si è trasferito per questioni sentimentali in Austria… Io sono friulano, e così, anche se non ci conoscevamo ancora, la nostra distanza era di circa 200-250km. Quindi l'ho invitato in alcuni miei progetti personali, avevo un trio nel '97, abbiamo fatto delle cose anche con Kenny Wheeler, alcune colonne sonore per documentari, poi un lavoro in duo, il commento musicale per una fiaba… Insomma ci siamo trovati a lavorare insieme per diverse cose.

A.T.: Il lavoro in duo era su Bach?
G.V.:
Sì, Bach… Adesso è appena uscito un lavoro di standards. Ci siamo esibiti in concerto per la Slovenia Italiana, a Capo d'Istria, senza preparare nulla, decidendo di andare sul palco e poi, tra una improvvisazione e l'altra, lanciare ognuno delle melodie che venissero sviluppate estemporaneamente. Da lì è nata questa situazione molto fresca, che abbiamo messo su disco dato che la rete aveva registrato sia il video che l'audio. E abbiamo trovato un editore austriaco che lo ha prodotto. Questo è proprio l'ultimo lavoro che abbiamo fatto insieme.
Tornando al disco in lavorazione, ultimamente Manfred Eicher [fondatore e presidente della ECM, n.d.r.] è venuto alla registrazione dell'ultimo cd di Rava nella regione dove io abito, presso Artesuono, lo studio di quello che è tuttora il mio editore e che produce i miei dischi: Stefano Amerio. Si tratta di un mio ex allievo di pianoforte, che aveva un piccolo studietto in cui produceva musica dance. Ai tempi gli ho detto: "Ma non ti sembra che sia venuta l'ora di far qualcosa di più serio? In Italia specialmente, dove non ci sono grossi studi e grandi ingegneri del suono, perché non ti specializzi? Magari ti do una mano…" Così partendo dal suo studietto in casa, ha fatto delle piccole modifiche, ha abbattuto delle pareti, ingrandito l'ambiente e creato un vero studio dove lo scorso anno ha pure piazzato un bel piano Fazioli a coda. Enrico Rava era già venuto lì a registrare, quando suonava con gli Electric Five, tramite il batterista di allora, Umberto Trombetta Ghandi, friulano che conosceva l'impianto e lo aveva proposto. Rava è rimasto molto colpito da Stefano Amerio, da come registra, da come piazza i microfoni, dalla sua sensibilità al suono, cosicché quando Enrico, contattato dopo trent'anni da Manfred Eicher per riaprire il discorso ECM e fare una nuova cosa con il suo gruppo italiano (Bollani, Petrella, Rosario Bonaccorso e Roberto Gatto), si è recato a trovare Eicher a Monaco, gli ha proposto lo studio di Amerio, in Friuli Venezia Giulia. Eicher, pur vivendo a Monaco in Baviera, che dista circa 300km da qua, gli chiede "Cos'è il Friuli??", non sapeva…! Così Rava gli ha parlato di Trieste, poi di Rilke, James Joyce, tutta gente che è stata di passaggio a Trieste… E Eicher alla fine ha risposto "Se vai a registrare là vengo anch'io…" Così, la settimana scorsa è venuto qua 3-4 giorni per registrare con Enrico ed il gruppo, e lì ho conosciuto Manfred Eicher, per puro caso. C'era infatti anche Ghandi, al quale Rava ha chiesto dove fossi e di cosa mi stessi occupando al momento, così Ghandi mi ha chiamato… In effetti non volevo andare lì a disturbare, non sono il tipo che va mentre un gruppo sta registrando, perché c'è della concentrazione… Comunque m'han chiamato e la sera sono andato lì. Manfred Eicher non mi conosceva – chiaramente, essendo io un pesce piccolo – ma conosceva Klaus e mi dice: "Ho seguito una trasmissione sulla radio nazionale austriaca a Vienna in cui c'era Klaus intervistato e faceva sentire delle cose tue…", quindi deve aver sentito il progetto fatto con Wheeler, "…e anche una cosa che avete registrato con Norma Winstone: molto bella!". Ora, questo lavoro dovrebbe essere registrato per la Virgin/Universal, ma lui mi fa: "No, non dovete farla con loro, dovete registrarla per me!" Gli ho detto di avergli spedito in passato come minimo sei dischi, sempre tornati indietro senza mai venire aperti, e lui: "Sì, ma sicuramente hai inviato a Steve Lake, che è uno che ama il free-jazz, poco interessato a queste cose. Invece a me queste vostre cose ricordano i miei primi progetti prodotti negli anni '70, quindi vorrei fare io questo progetto…" Così siamo rimasti in contatto, anche se questi personaggi sono un po' strani, magari adesso ti parlano così e poi hanno già dimenticato tutto, con la testa da un'altra parte… Diciamo che è bello che lui sappia che esiste questo progetto. Norma ci crede tantissimo, è venuta per mixare ed è andata via ieri, molto contenta alla notizia… Ma è solo una premessa per adesso, voglio precisare.

A.T.: Cosa conterrà allora il cd e che impostazione ha?
G.V.:
E' un cd particolare, si intitola
Chamber Music, e infatti abbiamo cercato di usare il trio come una formazione da camera, con molte dinamiche, proprio come nella musica classica, senza una dinamica standard, non avendo sezione ritmica, ma adoperando molti spazi: quindi una ricerca agogica, molto rispettosa degli spazi… Un po' la visione che ha l'ECM nelle sue produzioni! Come repertorio abbiamo scritto appositamente i brani, due dei quali sono miei. Poi c'è anche una mia idea: visto che Norma è inglese, ho preso una melodia popolare inglese e l'ho riarmonizzata con il testo di una poesia di Joyce. A Norma è piaciuta molto, l'abbiamo registrata in prima take e via. In definitiva gli originals sono abbastanza complicati, ma risultano facili, il disco è molto fresco, molto aperto, cantabile. Ci sono diverse parti completamente improvvisate: io non amo il termine "free", perché il free secondo me è un movimento afro-americano nato in un determinato periodo storico; preferisco parlare sempre di improvvisazione. Sono molto legato al termine "improvvisazione libera", che è sempre alla base di una struttura che si costruisce sul momento. E' importante ciò che afferma Bill Evans sulle note di copertina di un disco, anzi il disco di jazz moderno, Kind of Blue, trovandomi completamente d'accordo su ciò che è l'improvvisazione, non solo nel jazz: continuazione di quello che hanno sempre fatto i musicisti, sia nella tradizione occidentale che nelle altre tradizioni, l'improvvisazione fa parte sia dell'idea compositiva quando si vuol mettere su carta qualcosa, sia quando si vuol sviluppare delle cose sul momento. Non credo tanto al free impostato come effetto, perché non va da nessuna parte e dopo un po' mi stanca… Può essere interessante, semmai, un certo tipo di ricerca: la cosa affascinante di questo gruppo è che stiamo cercando di improvvisare sempre su dei leit-motiv di base che qualcuno di noi inventa sul momento e che poi vengono sviluppati, un rispetto del musicista al musicista, al compagno…

Non amo classificare i musicisti come "tonali-atonali", un musicista secondo me ha l'obbligo, sia come insegnante sia come musicista, di offrire anche un approccio libero. Invece temo che nelle scuole di musica gli insegnanti trasmettano un modo piuttosto chiuso di vedere la musica, mentre l'allievo, quando impara a suonare gli accordi, le prime scale, dovrebbe anche avere subito un certo tipo di approccio all'improvvisazione libera, perché è quella che fa uscire veramente ciò che sei: non hai sovrastrutture, non hai teorie, sei tu in quel momento.

A.T.: Quanto è importante l'orecchio musicale in una improvvisazione libera così intesa allora?
G.V.:
Il 150 per cento! Non amo parlare di arte, preferisco parlare di artigianato musicale, la musica è artigianato. E' chiaro che ci sono dei talenti pazzeschi che posseggono un orecchio formato, creatività, però non hanno il coraggio di rischiare, hanno paura di entrare in quella fase che non è più controllata dalla teoria, ma è qualche cosa che va oltre, una sublimazione. Diventa anche pericoloso, e quindi certi musicisti amano circondarsi di determinati colleghi, suonare un certo tipo di musica, per non mettersi in discussione. Invece, secondo me, per fare qualsiasi attività creativa, bisogna andare a cercare il limite, bisogna cercare di mettersi in discussione, per capire dove sono i propri limiti. I musicisti tante volte, quando diventano famosi, si fermano… Forse anche per questioni discografiche, perché si firma un contratto che dice che in un anno occorre fare quattro dischi, e tutto va a nuocere, a colpire lì dove un musicista dovrebbe lavorare. Quindi, per me l'orecchio è l'organo fondamentale per la musica, non solo l'orecchio per distinguere l'altezza dei suoni o l'orecchio armonico, ma anche l'orecchio ritmico… Tornando al free, siamo noi ad avere la tendenza a creare questo tipo di generi. In Italia ci sono dei posti dove si fa del free più cattivo, e poi dei locali dove si suona per esempio hard-bop e basta… Quindi si formano questi integralismi, e uno non frequenta l'altro: questo secondo me non fa bene alla musica…

A.T.: Sempre in tema di ricerca, tu tieni presente soprattutto il suono: probabilmente non l'aspetto tecnico del suono, bensì l'elemento della sonorità, ossia l'atmosfera che i suoni sono in grado di creare e le conseguenti emozioni che inducono in chi ascolta. D'altra parte lo attestano anche le collaborazioni ricordate: che tipo di sonorità in questa ricerca vuole raggiungere Glauco Venier?
G.V.:
Una sonorità che, considerando un trio voce-ance-pianoforte, porti sempre al limite la ricerca, senza ovviamente scadere nel cattivo gusto. Per esempio, portare un brano completamente tonale alla a-tonalità, mantenendone però sempre la caratteristica, perché come dicevo prima, in qualsiasi cellula melodica, armonica, ritmica di un brano c'è sempre un leit-motiv che non deve scomparire, è ciò che lo tiene in piedi ed è per quello che io amo parlare di tradizione nella musica, sia per quello che faceva Bach, con le idee musicali, sia per quello che ha fatto e sta facendo Sonny Rollins o quello che ha fatto Monk: quando suonavano dei temi, essi avevano rispetto di questo leit-motiv… Tante volte capita invece che si suonino dei brani senza capire questo fondamentale aspetto. Norma stessa mi dice spesso che ci sono cantanti bravissime le quali però fanno degli errori madornali sul testo: un testo che parla di una certa cosa viene cantato all'opposto, senza rendersi conto di quale sia la sensazione che il testo vuol dare, l'idea del brano. E' importante rispettare, capire fino in fondo una melodia, un'armonia, per arrivare, dopo, al limite.

A.T.: Dice lo stesso Franco D'Andrea in un'intervista su Jazzitalia: questo elemento, questa caratteristica, questo leit-motiv diventa il punto di riferimento del gruppo quando si suona. Se il solista in un dato momento fa capire di stare lavorando su un certo elemento, gli altri gli andranno dietro e sarà un gruppo a suonare.
G.V.:
Esattamente! Concordo completamente con questa visione. L'altra sera parlavo con Stefano Bollani rilevando che in Italia abbiamo dei fantastici solisti, ma c'è poco per quanto riguarda la ricerca di gruppo, ci sono pochi gruppi che durano tanti anni. Forse anche le nostre scuole ci preparano in maniera individuale, e poco a suonare in gruppo. Che il solista voglia andare da una parte e non venga seguito dagli altri è una delle cose che distruggono la ricerca, il pensiero. Non abbiamo un senso di gruppo di ricerca, specie qui in Italia, forse anche per i programmi del conservatorio di studio, ancora risalenti al periodo antecedente il fascismo ed improntati piuttosto alla formazione di un soldatino, non di un musicista! Ed il problema si ripercuote anche sul jazz: ci sono grandi solisti in Italia, famosi anche nel mondo, ma quanti hanno gruppi stabili e duraturi? L'anno scorso nella scuola dove insegnavo ho organizzato una master class con gli Oregon: Glen Moore suona con Ralph Towner da quarantun anni, da quando erano al college! Glen Moore e Paul McCandless suonano insieme da trentadue anni! Mi sono commosso… In Italia non mi viene in mente un gruppo jazz che abbia fatto una ricerca che abbia portato ad una simile stabilità! Poi, mi dicevano Moore e compagni, durante la stagione chiaramente ciascuno di loro fa altre cose, ha i propri progetti, etc.,. Però gli Oregon esistono da trentadue anni!

A.T.: Influenze dell'Est Europa nella musica e nel jazz del Nord-Est Italia…
G.V.:
E' una cosa molto personale, perché anche se qua siamo nel nord-est, estremo est, vicino alla Slovenia, a due passi anche dalla Croazia, i primi esempi di musica balcanica, con questo tipo di sonorità e ritmi, li troviamo in Dalmazia, sotto l'Istria. Già l'Istria è un posto interessante per quanto riguarda la musica popolare, perché ci sono delle zone tipo l'isola di Krk, un'isola piccolissima che noi chiamiamo Veglia. Qui ci sono dei pastori che costruiscono dei flauti ad ancia doppia, con scale del luogo, quindi non sono intonati con il nostro sistema tonale, fanno musiche completamente atonali… Durante l'anno fanno delle feste particolari, e quando suonano vestono i costumi tradizionali, ed è molto particolare sentire della musica che sembra contemporanea, anche senza ritmiche, ballano a ritmo e si trovano delle figure danzanti. Però, anche se magari certi giornalisti hanno scritto che noi siamo rimasti influenzati dalla musica balcanica, ciò è assolutamente falso. C'è soltanto una piccola valle qui, la Valle di Resia, una valle chiusa in cui nel tempo si sono insediati dei gruppi etnici provenienti dal Caucaso o non so da dove, che mantengono delle forme proprie, si costruiscono dei violini particolari e dei violoncelli a tre corde… Hanno una loro lingua arcaica, sono influenzati anche dallo Sloveno, da un po' di Russo. Circa cinque-sei anni fa, John Zorn ha ascoltato questi musicisti e da New York ha mandato una sua troupe a registrare queste musiche che sono state poi prodotte dalla sua etichetta in Giappone. Ecco una forma che è abbastanza vicina alla musica dell'est, ma non è proprio tipica, è una cosa particolare, un mix

A.T.: E questa musica quanto influenza Glauco Venier?
G.V.:
Ah, tantissimo. Ho la fortuna di avere degli amici in Croazia, e mi faccio portare dei cd… Adesso sto preparando un progetto per un festival qui, il Mittel-Fest, è la prima volta che vi partecipo… Il responsabile musicale quest'anno avrebbe dovuto essere Luciano Berio. Ho scritto della musica sulle melodie di un compositore rinascimentale di Parma del '500, Giorgio Mainerio, lo stesso di cui certe melodie sono state riprese anche da Branduardi (tipo "Schiarazzula marazzula"). Una figura molto particolare, era una specie di sacerdote che poi è stato espulso perché pensavano praticasse esorcismi, che fosse eretico. Lui è stato anche sacerdote della basilica di Aquileia… E ci sono delle melodie, delle danze popolari molto interessanti che ha scritto dopo la metà del '500, e che io ho ripreso, ho fatto gli arrangiamenti su cui sto lavorando proprio adesso: la prima al Mittel-Fest sarà il 23 luglio. Suoneranno Michel Goddard alla tuba, Martin France alla batteria, Klaus Gesing al clarinetto basso e al soprano, Gabriele Mirabassi al clarinetto, David Boatto alla tromba, e ci sarò io come disturbatore… Perché in questa situazione non voglio suonare il pianoforte, in quanto è appunto una cosa di ricerca ritmica, dove ci sono delle influenze sia rinascimentali che balcaniche, userò dei tempi molto strani e delle situazioni timbriche vicine alla musica balcanica… Sto cercando proprio un certo tipo di sonorità, che sia un mix delle cose che ascolto, che mi interessano. La particolarità sarà appunto lo sviluppo improvvisativo anche di queste cose, su dei pedali o delle strutture o dei punti completamente liberi… E il ritmo molto incalzante di danze, perché è un progetto di danza: ci saranno tre danzatori e due attori…

A.T.: E visto che non utilizzerai il piano, come ti inserirai?
G.V.:
Pensavo di dirigere e di non suonare… O suonare pochissimo, il piano elettrico, un Fender Rhodes con degli effetti, dei delay, creando delle sonorità che si scontrino con quest'atmosfera… Perché non ha senso che mi metta a suonare: per me è un progetto più che altro di scrittura.

A.T.: Come didatta, cosa veicoli, cosa cerchi di insegnare e trasmettere ai tuoi allievi al di là di misure, note, tecnica, scale e quant'altro?
G.V.:
Se mi danno la possibilità, perché con la burocrazia quando danno una mansione non si può farne un'altra… Io vorrei fare musica d'insieme, ma per adesso sto insegnando pianoforte jazz in Conservatorio a Trieste. Nelle scuole private ho già insegnato musica d'insieme per quindici anni… La cosa principale per me è, come rilevavi tu, l'orecchio, l'interplay, l'ascolto, ma non soltanto l'abilità nel trascrivere le note, piuttosto anche imparare ad essere generosi. Io non ho un gran feeling per i solisti: il solista è una figura importante, però è anche egoista, secondo me! Per me invece il musicista è come Steve Swallow, Kenny Wheeler, Norma Winstone, ho suonato con il bassista svedese Anders Jormin, Lee Konitz, musicisti che sono dei grandi solisti ma suonano per la musica. Gente generosa, che dà, non soltanto nel senso che lascia degli spazi, ma pure che non fa sentire sotto esame quando si suona, e qualsiasi frase fai, qualsiasi idea dai in quel momento, senti che viene presa e sviluppata insieme con le loro. E, da piccolo musicista, ti senti importante. Mi aspetto generosità da questi: la musica deve essere generosità, non deve essere soltanto ricerca per la ricerca o concetto, ma anche un modo per fare della musica insieme ed ascoltare… Perché quando un musicista è insieme ad un altro fa già della musica, ma tante volte succede che si è insieme ma… non si è insieme!

Poi dico sempre agli allievi: "I pattern sono degli strumenti che vi servono per velocizzare il pensiero". Faccio sempre degli esempi sia di calcio che di atletica leggera: Pietro Mennea, per allenarsi per le gare, usava prendere un copertone di macchina o camion, legarselo dietro la schiena e correre: questo è fare dell'esercizio per migliorare! Stessa cosa quando si fa un esercizio musicale: deve portare ad un certo tipo di disciplina, ma è chiaro che non si deve usare di fronte al pubblico, lì si deve essere liberi! Tanti musicisti sostengono che non debbano usarsi i pattern. I pattern possono essere utili se li inventi, li trascrivi, li trasporti e li usi come mezzo che permetta di velocizzare, di essere più rilassati quando si suona, di dire più cose sensate.

A.T.: Qualche giovane da segnalare… Chi in questo momento pensi stia facendo qualcosa che resterà significativo nel jazz italiano?
G.V.:
Di quelli che conosco, ho sentito e suonato con un bravissimo altista romano… A Roma c'è proprio una tradizione di contralti, secondo me per l'influenza di Massimo Urbani, per cui da Massimo Urbani siamo arrivati a Stefano Di Battista, da Stefano a Rosario Giuliani, e da Giuliani adesso questo nuovo talento romano, Daniele Tittarelli, che ha fatto un disco bellissimo,
Jungle Trane, con il suo gruppo formato da musicisti tutti bravi, ragazzi che, a parte Pietro Lussu al pianoforte, giovane già molto conosciuto, hanno 21-22 anni: Vincenzo Florio al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria. Secondo me questo disco è bellissimo, molto fresco, si sente che c'è anche della ricerca ritmica, non c'è solo - come lo chiamo io - lo "stereotipo swing": lo swing è importante, ma adesso deve essere portato avanti. Adoro i batteristi che mettono delle cose nuove all'interno dello swing. Per esempio Billy Kilson, il batterista di appena 25 anni, di colore, che suona con Dave Holland, secondo me aprirà un nuovo capitolo di ricerca per la batteria, come hanno fatto grandi quali Marvin "Smitty" Smith o Jack DeJohnette... Saper suonare lo swing vuol dire rispetto, rispetto per il jazz, per i grandi batteristi della storia del jazz. Quello che non amo di certo jazz italiano tradizionale è la non-ricerca, la non-voglia di portare avanti questo tipo di discorso: dopo un po' mi annoio. In America ci sono invece dei batteristi giovani che possono aver seguito il discorso di Joey Barron, tipo Jim Black… E si sente che questi ragazzi possono suonare anche in maniera tradizionale, però quando suonano lo swing lo fanno in maniera personale. Intanto fanno una ricerca timbrica interessante…

A.T.: Uno dei pianisti che attualmente va per la maggiore è Brad Mehldau: hai ascoltato i suoi Live at Village Vanguard, nr.1 e nr.5?
G.V.:
Sì, li ho ascoltati tutti… Beh è chiaro che non ci si può rinnovare in così poco tempo. Il nr. 5 è un disco un po' dark, così infatti risulta parlando con i miei allievi che conoscono Mehldau forse più di me e stanno studiando, sviscerando certe cose… Adesso Mehldau è in un periodo di ferma. Credo che sia uno dei pianisti più interessanti della nuova generazione, anzi forse il più interessante, avendo dato ancora una svolta ad un certo modo di vedere: parlando di forme semplici, di ricerca su degli archi sonori, su dei periodi ciclici, forse lui è quello che ha l'abilità di creare situazioni l'una diversa dall'altra, non soltanto pianistiche ma anche di timbro, di sonorità… E' chiaro che l'ultimo al Vanguard, essendo un disco doppio, registrato dal vivo, e poi un nr. 5, presenta dei cali di tensione notevoli…
Largo, l'ultimo in studio, è invece una cosa diversa. Poi se si guarda con chi sta lavorando, la multinazionale Warner Bros.… A un certo punto questi qui ti prosciugano, ti spremono: e si vede che lui è un po' in crisi per questo. Difatti Largo ha una sonorità completamente diversa, sembra cerchi di scappare… Adesso, secondo me, c'è bisogno di Brad Mehldau che faccia da sideman un'altra volta: quando lui suona con Charles Lloyd, con Scofield ed altri, è più lui, perché quello è il momento in cui deve dare il proprio contributo ad altri… Come hanno sempre fatto i grandi, Bill Evans, Jarrett. L'unico neo, secondo me, è che dovrebbe forse sviluppare il lato della cantabilità, come dire…è diventato troppo circense! E' chiaro che ha già uno stile, ma ciò che gli manca rispetto ad altri pianisti è la serenità. Dopo Jarrett, il pianista che prediligo per quanto riguarda il piano solo è Fred Hersch, che purtroppo non è conosciuto in Italia, nessuno lo vuol far suonare qua. Adesso sta facendo delle cose con Kurt Elling, Norma Winstone, ma non viene mai in Italia, e questo mi fa soffrire perché ha fatto delle cose grandiose riguardo il piano solo… Hersch ha un proprio stile, un proprio suono, chiaramente il suo stile viene anche da Bill Evans, ma chi oggi può dire di non aver attinto ad Evans: sarebbe un pazzo…o un genio!

A.T.: A quando un progetto discografico di piano solo a tuo nome?
G.V.:
Ho avuto modo di fermarmi a valutare e sono completamente in alto mare… Perché adesso non me la sento più, ho altre cose da fare, magari meno importanti del piano solo, ma devo trovare il periodo giusto e le idee giuste. Tempo fa mi ero quasi convinto dopo aver ascoltato in piano solo un altro grande pianista per me, Bojan Zulfikarpasiz, un musicista che mi pare sia di Sarajevo, anche se vive a Parigi. Lui nelle sue melodie, nella sua ricerca anche compositiva usa tantissimo la caratteristica della musica popolare della sua tradizione. Gli viene molto naturale… Io purtroppo soffro invece della mancanza di questa "tradizione", perché qui non c'è un simile materiale… Sì, ho altro tipo di musica, le villotte, le cantate melodiche, cose che si sono sviluppate dal '700 in poi, alle quali tengo molto e mi rifaccio: prendo tante volte delle melodie popolari e le sviluppo. Però lui mi ha dato conferma di cosa si possa fare con la musica di estrazione popolare. Queste ballate che sto appunto scrivendo su musica rinascimentale, ricalcano un po' questa filosofia: si può prendere una qualsiasi melodia e renderla popolare, ballabile, fresca… Allora, avrei bisogno di fare un certo tipo di ricerca per poi forse tradurre tutto questo studio, questo lavoro nel piano solo. E per adesso non voglio pensarci: mi sono bloccato perché ho capito che devo fare ancora un certo tipo di processo per arrivare al piano solo che intendo io!






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Data pubblicazione: 14/08/2003

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