Intervista a Gabriele Coen
gennaio 2011
di Marco Buttafuoco
Ci sono momenti in cui la vita, all'improvviso, si mette a correre a ritmi impensati.
Nell'estate del 2009
Gabriele Coen
è a New York, per una vacanza sognata da tempo. Una sera va ad ascoltare John
Zorn. Dopo il concerto va a complimentarsi con lui in camerino e gli fa avere
una copia di "Golem",
il disco inciso da poco con i suoi Jewish Experience e dedicato alla musica
ebraica. Il giorno dopo Zorn si fa vivo con lui e gli propone di incidere per la
sua mitica etichetta, la Tzadik. il prossimo disco. Nella stessa vacanza
Gabriele e la moglie Isotta concepiscono anche il loro primogenito. Da poco è uscito
"Awakening"
il primo disco del gruppo di Coen per la label newyorkese.
In questa chiacchierata si tenta di approfondire il rapporto fra jazz e cultura
ebraica. Come gli afro -americani anche gli ebrei sono un popolo sradicato in epoche
molto remote dalla sua terra d'origine. Come, e forse di più degli afro-americani,
hanno mantenuto legami importanti con le radici elaborando particolari codici di
comunicazione dall'incontro con le culture dei popoli con cui sono venuti in contatto.
Nell'Europa Orientale, ad esempio, gli ebrei "inventarono" una loro lingua peculiare,
lo Yddish, un mix di tedesco, d'idiomi slavi e di tanti altri materiali.
Un groviglio lessicale basato su regole grammaticali così sfuggenti da creare problemi
agli studiosi che hanno tentato di inquadrarle.
Occorreva quindi, per iniziare il discorso, puntualizzare l'approccio di Coen
sia al jazz sia alla tradizione della sua gente.
"Sono figlio di un musicista classico; il jazz
non era di casa da noi fino a quando mio fratello maggiore non iniziò a suonare
la batteria. Da allora, avevo quindici anni, cominciai quasi per emulazione, ad
interessarmi a quella musica. Coltrane fu il mio primo modello, ascoltandolo decisi
di suonare principalmente il sassofono soprano. Il meno jazzistico fra i sassofoni,
quello che più da il senso coltraniano dell' avvicinamento del jazz alle musiche
del mondo, a quelle orientali e mediorientali in modo particolare. All' ebraismo
mi sono avvicinato verso i vent' anni. In realtà sono figlio di una coppia mista;
mio padre è un ebreo laico, ma molti nella sua famiglia osservano i precetti religiosi.
Mia madre è cattolica non osservante. Mio padre, è sfuggito alla Shoah miracolosamente:
durante uno dei rastrellamenti nel quartiere ebraico di Roma dove viveva, sfuggì
alla cattura, saltando da una finestra. Come molti, forse per rimuovere ricordi
dolorosi e paure per l'avvenire, ha messo in secondo piano, negli anni successivi,
il suo ebraismo. Io non ho avuto quindi un'educazione ebraica e non ho dato rilievo
a questi temi fino a quando non ho cominciato i miei studi di storia all'Università
ed ho iniziato ad appassionarmi alla Spagna come terreno di incontro e scontro fra
le tre grandi religioni monoteistiche. Fra l'altro le radici della mia famiglia
paterna sono proprio a Toledo. Le mie origini ebraiche hanno quindi cominciato a
contare qualcosa, come per tanti miei coetanei, relativamente tardi. Anche se vivi
in una famiglia non religiosa prima o poi devi fare i conti con il dato che il tuo
nome è Coen, e vuoi sapere qualcosa di più sulle tue origini. Naturalmente questa
ricerca influenzò moltissimo il mio essere musicista e da allora cominciai ad appassionarmi
alla musica ebraica ed a praticarla.
Pur rimanendo un jazzista ovviamente ….
"E fortunatamente. La mia formazione jazz mi ha impedito di diventare un filologo,
un esegeta della musica giudaica. Il folk mi ha tenuto lontano dalle secche pericolose
del mainstream, dello swing a tutti i costi. Secche nella quale paiono essersi incagliati
tanti giovani musicisti, anche talentuosi, della scena jazzistica. Sembra che per
molti musicisti delle ultime leve non siano esistiti gli anni dal
1965 al 1985,
che non ci sia stato il jazz modale e la ricerca sulle sonorità del mondo. Personaggi
come Tony
Scott oramai sono dei perfetti sconosciuti. Eppure quegli anni furono
interessantissimi. Non dico che tutta la musica di quei due decenni fosse buonissima.
Ma allora si cercava il nuovo.
Oggi, dopo decenni di riflusso ideologico, c'è in giro la tendenza a suonare
la musica dei nostri nonni. Per me invece il jazz è continuo superamento delle certezze,
continua messa in discussione di sé stessi e della tradizione. Fin dalle origini
questa musica è stata arte dell' incrocio fra etnie e culture. A New Orleans si
suonavano e si mescolavano blues e musica francese, Africa ed Europa. C'è un bellissimo
video su You Tube, intitolato Palesteena che testimonia di come musica
klezmer e Jazz s' incontrarono fin dal 1920 (Ci tengo a dir, per inciso che
il termine klezmer non identifica tutta la musica ebraica. L' esperienza
storica della mia gente è complessa e molto articolata. Esiste ad esempio una musica
ebraica di origine spagnola molto importante).
Il Jazz è per me l'arte di improvvisare su canovacci tonali o modali, senza limiti
e senza strettoie. E' uno strumento per esprimere la propria identità, non un ideale
da inseguire e cristallizzare.
I miei riferimenti musicali sono tanti. Amo l'Ellington della "Far East
Suite" proprio per la sua capacità di raccontare anche le altre musiche del
mondo come quello della "Black Brown And Beige" che sintetizzò tutti i filoni della
cultura nero-americana.. Amo ovviamente da sempre Zorn, ma anche Steve Reich e sono
un cultore della musica ECM, ed in modo particolare di quella del primo
Garbarek. Questo approccio aperto mi consente di rinnovarmi; mi impedisce
di annoiarmi, di ripetermi."
Il tuo approccio alla musica "etnica" è, infatti, cambiato nel corso della tua
carriera.
"In effetti è così. Con il primo gruppo, Kleyzrom, avevo anche esplorato
una dimensione vocale del folk ebraico, sia quello più propriamente klezmer sia
di quello di origine mediterranea e spagnola in modo particolare. Poi ho sentito
la necessità di approfondire la dimensione strumentale e ho messo in piedi
Gabriele Coen
Jewish Experience con i quali, con "Golem",
ho indagato, in maniera più "filologica", la vastissima esperienza del folk ebraico,
Che ripeto non è solo klezmer. Ci sono pezzi, molto noti in quel cd: c'è "Dona
Dona", c'è "Miserlou", c'è anche una versione di "Ose Shalom" intrisa di
profumi cubani. E' una specie di atlante sonoro, di lettura più immediata di quanto
lo sia il disco della Tzadik.
"Awakening"
sviluppa "Golem"
e ne radicalizza il discorso, gli dà sonorità più contemporanee, newyorkesi. Si
muove in quella che John Zorn chiama la ricerca della nuova musica ebraica.
Una ricerca che ha scatenato tante polemiche fra i tradizionalisti ma che è del
tutto necessaria e possibile. La musica della nostra tradizione di ebrei ha conosciuto
un enorme popolarità fra il pubblico a partire dagli anni Settanta. C' è stata una
vera e propria moda del klezmer, alla quale hanno contribuito personaggi come il
clarinettista Goira Feldman o, in Italia, Moni Ovadia. Le mode possono essere
anche positive, soprattutto quando fanno riaffiorare memorie importanti e trascurate.
Ora la situazione si è stabilizzata ed il boom forse è finito. Si tratta però di
cercare nuove strade, partendo dalla tradizione. "Awakening",
che Zorn ha inserito nella sua collana "Radical Jewish Culture" va in questa direzione.
Una direzione obbligata se non si vuole cadere nella riproposizione museale delle
proprie tradizioni. Io vorrei portare la musica ebraica alle orecchie di persone
che non la conoscono. Ma vorrei portarne una mia rilettura nuova che tenga conto
delle tante altre ricerche musicali che si sono sviluppate soprattutto fra la metà
degli anni 60 ed 80.
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Data pubblicazione: 07/02/2011
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