39th International Jazz Festival Saalfelden 2018 23-26 agosto 2018 di Aldo Gianolio foto di Matthias Heschl
click sulle foto per ingrandire
Il festival jazz di Saalfelden, cittadina austriaca nel distretto
di Zell am See, nel Salisburghese, festival quest'anno arrivato alla trentanovesima
edizione con una programmazione prevista dal 23 al 26 agosto, si svolge in diversi
luoghi: al Kunsthaus Nexus, per i concerti cosiddetti Short Cuts (a pagamento),
presso il Palazzo dei Congressi (Kongresspalast) per i concerti principali del Main
Stage (a pagamento), nella piazza (Rathausplatz) di Saalfelden per i concerti gratuiti
del City Stage e in vari luoghi attorno al paese per i City Tracks e gli Alm Konzerte,
sempre gratuiti. È un festival diventato punto di riferimento mondiale per il jazz
di sperimentazione, d'avanguardia o, comunque, fuori dagli schemi del maistream.
La prima sera, giovedì 23 agosto, al Nexus due concerti, uno dietro l'altro.
I tredici musicisti austriaci del Little Rosies Kindergarten hanno fatto
una ottima figura, tanto da meritare, secondo la nostra personale classifica finale,
la palma del miglior gruppo fra i giovani. La leader batterista, Judith Schwarz,
ha guidato da dietro i tamburi le due voci, i due violini, il violoncello, la tromba,
i tre sassofoni, il piano, la chitarra e il contrabbasso con puntuale e lucida veemenza,
facendo quello che dovrebbe sempre fare il batterista, cioè il direttore d'orchestra.
I brani, da lei composti e arrangiati, sono lunghi e estremamente cangianti di umori
e situazioni, di colori e di ritmi, mescolando aggricciante musica dotta contemporanea,
rock esplosivo e free temerario, al tempo stesso rimanendo perfettamente coerente.
I finlandesi del quartetto eCsTaSi, diretto dal
chitarrista Raoul Björkenheim e composto anche da sassofono, contrabbasso
e batteria, hanno espresso un convincente free funkeggiante, molto ritmato su tempi
dispari e/o composti, senza offrire particolari novità espressive, ma comunque con
un costrutto sempre ben congegnato e assolo potenti e intensi (bravo il tenor sassofonista
Pauli Lyytinen).
Il giorno dopo altri due concerti al Nexus. A mezzogiorno e mezzo inizia il Chamber
4 che riunisce i due fratelli francesi Ceccaldi, Théo al violino e Valentin
al violoncello, e i due portoghesi Luis Vicente trombettista e Marcelo
Dos Reis chitarrista che, in una libera e collettiva improvvisazione minimal-cameristica,
hanno prodotto una musica tesa, timbricamente raffinata e di recondite asciutte
armonie.
A seguire i Kuu!, due chitarre, batteria (il bravissimo Christian Lillinger,
che si esibirà in seguito anche con il trio Punkt.vrt.Plastik) e la vocalist
Jelena Kuljic: musica pop-rock-progressive, molto energica e zeppa di vortici
obnubilanti.
Il primo concerto al Main Stage del Palazzo dei Congressi è alle 19, con Ulrich
Drechsler, clarinettista austriaco dalla grande tecnica (e bella voce), accompagnato
da elettroniche, piano, contrabbasso, batteria, due cantanti e un dicitore di testi
poetici: le atmosfere hanno venature orientaleggianti e l'andamento è fascinosamente
corrusco.
Alle 20,30 segue il trio Finlandese Virta, guidato dal trombettista Antti
Hevosmaa (concerto multimediale con l'aggiunta di due designer digitali), che
riprende un po' la musica di
Nils Petter Molvaer
per le sequenze elettroniche dagli eco rintronanti e gli accompagnamenti ripetitivi
e stordenti.
Poi, dalle 22 fino alle ore piccole, quattro concerti, due al Nexus e due al Main
Stage, che in parte si sovrappongono. Riusciamo a ascoltare solo quelli presso il
Main Stage. Marc Ribot in quartetto con Jay Rodriguez (sax soprano
e flauto), Nick Dunston (contrabbasso) e Nasheet Waits (batteria)
presenta il concept concert Song Of Resistance (il disco è uscito in questi
giorni), pezzi più o meno di protesta (anche Bella Ciao cantata, come altre, dallo
stesso Ribot) trasformati in modi inaspettati, portati spesso al parossismo sonoro
con approccio ferino, attacchi vigorosi, suoni ad alto volume e distorti, ma anche
a volte diventando lirici e delicati, un maelstrom fra punk e impressionismo, Ayler
(con un troppo canonico Rodriguez – perché anche il free ha i suoi canoni, non solo
il mainstream -) e il Miles elettrico, il blues e il latin, tutto rivisto attraverso
la poetica visionaria ed eversiva del leader.
A seguire, di nuovo il violinista Theo Ceccaldi, già sentito con i Chambers
4, adesso con il sestetto Freaks: molte idee, a volte strabordanti, legate
a doppio filo alla poetica di Frank Zappa, presentate con ponderosa energia e potenza
di suono fra mille ghirigori, cambi di percorso, fermate inaspettate e riprese perentorie
(importante il lavoro di sostegno e cucitura del batterista Etienne Zemniak).
Sabato, all'una, l'esibizione fuori programma del duo del chitarrista Elliot
Sharp (anche alle elettroniche) e del giovane batterista austriaco Lukas
König (a proposito, c'è da notare e al contempo compiacersi di quanti valentissimi
giovani musicisti sia piena l'Austria), che hanno improvvisato liberissimamente
per un'ora producendo musica fragorosa, turbolenta, dura, solo apparentemente torbida
e indefinita (è l'alto volume che inganna), invece piena di sottigliezze e iridescenze.
Altri concerti al Palazzo dei Congressi, sino a tarda notte (perdendone altri in
contemporanea al Nexus). Da segnalare il gruppo A Pride Of Lions con cui
il free jazzman di vecchia data Joe Mcphee, settantottenne, ha coniugato
il free jazz old style, un po' demodé, con aromi, istanze, sonorità della musica
folklorica dell'Africa Occidentale, attraverso l'uso di strumenti tipici (il guimbri
suonato dai due contrabbassisti Guillaume Séguron e Joshua Abrams
e la mbira suonata dal batterista Chad Taylor), oltre i sassofoni tenore
e baritono di Daunik Lazro e, del leader, la tromba tascabile e il sax alto
di plastica bianca (come quello che avevano suonato anche Charlie Parker e
Ornette
Coleman). Momenti caotici e irruenti si sono alternati ad altri più ponderati
e sfumati, con qualche sporadica caduta di tensione espressiva.
Mandorla Awekening II è il lavoro fortemente politicizzato presentato, basandosi
su un suo stesso racconto, dalla flautista e compositrice Nicole Mitchell,
con un ottetto d'eccellenza formato da Avery R Young al canto, Kojiro
Umezaki al shakuhachi, Renée Baker al violino, Tomeka Reid al
violoncello e banjo, Alex Wing alla chitarra elettrica e all'oud, Eigen
Aoki al contrabbasso, Taiko Jovia Armstrong alle percussioni. Strumenti
atipici, generi mescolati, timbri diversificati, situazioni mutevoli, molti momenti
solo di atmosfera, premeditate lungaggini e alla fine il rapper Avery R Young che
ha dato un scossone declamatorio fortemente funkeggiante.
Il chitarrista Elliott Sharp, assieme alla co-leader cantate e arpista
Hélène Breschand, a Shayna Dulberger al contrabbasso e Maurice Demartin
alla batteria e vibrafono, ben preparati su un repertorio in gran parte scritto
per il progetto Chansons du Crépuscule, lavoro a tinte foscamente e chiassosamente
goticheggianti, è stato meno convincente rispetto alla completamente estemporanea
improvvisazione in duo di qualche ora prima.
Poi, a ruota, il sassofonista londinese Shabaka Hutchings ospite del sestetto
austro-tedesco Shake Stew: un innesto che però non è pienamente riuscito,
nel senso che Hutchings è meglio con i suoi gruppi, con cui forma un tutt'uno omogeneo.
Qui sembra rimanere un po' fuori dalle trame danzanti afro-beat costruite dai compagni,
nonostante i suoi infuocati e penetranti assolo.
Domenica 26, ultimo giorno. Il trio Punkt.vrt.Plastik (che doveva suonare
sabato, poi posticipato), con la pianista slovena Kaja Draksler, il contrabbassista
Petter Eldh e il batterista Christian Lillinger, ha espletato un jazz
classicheggiante garbato e accurato, tendente al romanticheggiante, ma ravvivato
con soluzioni ritmiche dispari e storte (con Lillinger sugli scudi) che hanno conferito
ispidezza e soluzioni narrative più pungenti.
La trombettista chicagoana Jaimie Branch ha presentato il suo disco d'esordio
Fly Or Die: l'hanno superbamente sostenuta, con un tessuto fitto di intrecci
ritmici e sinuosità melodiche, la batteria di Chad Taylor, il contrabbasso
di Jason Ajemian e il violoncello di Lester St. Louis. Le composizioni
sono seducenti, dando l'estro alla trombettista di fare una media fra Woody Shaw
(ma più semplice e lineare) e Bill Dixon (soprattutto nelle fasi più raccolte, frenate
e frammentarie) con una bella voce squillante che spesso distorce con growl, wa
wa e half valving, facendo scaturire una bella tensione dal contrasto fra il suo
andamento statico e la continua forte propulsione della ritmica.
In coda, i due concerti a nostro personale giudizio migliori del festival. Il gruppo
Triple Double di Tomas Fujiwara e il Throw A Glass di Erik
Friedlander.
Triple Double, perché formato specularmente da tre doppioni: due batterie, il leader
Tomas Fujiwara e Gerald Cleaver, due chitarre, Mary Halvorson
e Brandon Seabrook, due trombe, Taylor Ho Bynum (per la precisione
alla cornetta) e Ralph Alessi. Hanno suonato magnificamente, rappresentando
la tipicità del jazz "nuovo" che si è affermato negli ultimi due decenni, partendo
da Steve Coleman e, ancora più indietro, Henry Threadgill: un jazz composto e improvvisato,
ma dove la composizione non si limita al tema, bensì si estende all'arrangiamento
applicato all'intera durata di ogni singolo brano attraverso orchestrazioni di varie
immaginose soluzioni di sostenimento, punteggiatura e sottolineatura (esulando dalla
semplice e ciclicamente ripetuta forma standard con un costrutto che deriva dalla
sommatoria di più parti di diversa metratura), e dove l'improvvisazione (o le improvvisazioni
che spesso si incrociano e sovrappongono), pur mantenendo la sua (loro) libertà,
è fondamentale tassello nella costruzione dell'ampia significativa architettura.
Il tutto così impostato fa risaltare al massimo la bravura dei i singoli attori,
sia nei monologhi, che nelle recite a due, che nel loro insieme corale.
Nell'ultima scena prima della calata finale del sipario si esibisce il gruppo Throw
A Glass del violoncellista e compositore Erik Friedlander, formato anche
da Uri Caine
al piano, Mark Helias al contrabbasso, Ches Smith alla batteria. Qui
la composizione (Artemisia, dall'omonimo album) è ancora più totalizzante: quasi
tutto è regolato da una esatta scrittura, anche i passaggi minimi di ogni singolo
strumento, addirittura i tocchi sui piatti o i tamburi, dosando al millesimo le
differenti intensità dei suoni. L'eleganza colta e cameristica degli sviluppi compositivi,
la naturalezza degli innesti solistici, naturali anche quando sembrerebbero esulare
dal contesto (come gli sfoghi di
Uri Caine
che si lancia in maestosi veementi assolo come fossero liberatori dalla costrizione
di una ferrea scrittura), si fondono in una perfetta compattezza d'insieme.